Da La Republica.it-di OMERO CIAI
Aveva 89 anni. Aveva partecipato alla rivoluzione castrista. Poi lo scontro con Fidel
Per Repubblica raccontò la sua vita di esiliato da quello per cui aveva combattuto
"Repubblica mi ha resuscitato", diceva sempre Carlos Franqui quando lo chiamavamo per chiedergli di commentare una notizia che arrivava da Cuba. Era successo tutto quasi per caso mentre il regime all'Avana arrestava giornalisti e intellettuali dissidenti e ci si chiedeva come mai la sinistra italiana fosse ancora così indulgente verso il dittatore. Rintracciammo Franqui, uno dei primi dissidenti, e da allora lui iniziò a raccontare sul giornale la sua vita di esiliato dalla "rivoluzione" per la quale aveva combattuto. La guerriglia sulla Sierra, la direzione di Radio Rebelde prima e del quotidiano "Revolucion" dopo, la rottura con Castro (nel '63) che pretendeva un giornale più paludato e schierato, il primo viaggio in Europa e poi, nel '68, la scelta senza ritorno quando Franqui firmò il manifesto contro l'invasione sovietica della Cecoslovacchia.
Con Castro non si erano mai amati, gli amici di Franqui tra i "barbudos" erano altri. Erano Huber Matos, il comandante dimenticato che trascorrerà lunghi anni in carcere per essersi opposto alla svolta filo-sovietica di Fidel, e Camilo Cienfuegos che morirà in circostanze mai chiarite in un incidente aereo nell'ottobre del '59. Come tanti altri Franqui aveva partecipato alla Rivoluzione per cacciare il dittatore Batista e costruire una democrazia. Non un altro regime. Raccontava spesso dei primi mesi trascorsi all'Avana dopo la Rivoluzione e citava il suo aneddoto della barba. "Me la tagliai appena sceso dalle montagne perché a mia moglie non piaceva. Non averla lunga mi dava la sensazione, anche simbolica, di essere tornato alla vita civile, di essere un cubano come tutti gli altri. Ma Fidel non l'accettava, aveva dato ordine a tutti di tenere la barba lunga come segno di riconoscimento, non potevamo tornare ad una vita normale, lui aveva altri progetti".
Franqui era nato il 4 dicembre del 1921 a Cifuentes, nel centro dell'isola, e partecipò giovanissimo alle lotte sindacali e studentesche entrando a far parte del Partido Socialista Popular, formazione che abbandonò nel 1946 quando iniziò a dedicarsi al giornalismo ed alla vita letteraria ed artistica della Cuba degli anni Quaranta. I suoi migliori amici erano il giovane scrittore Guillermo Cabrera Infante e il pittore Wilfredo Lam. Dopo il Golpe di Batista, all'inizio degli anni Cinquanta, entrò nel "26 luglio", il movimento che darà vita alla Rivoluzione del '59. Venne arrestato, torturato e spedito in esilio, prima in Florida e poi in Messico, dove si riunì con Fidel Castro e Che Guevara, prima di tornare in patria a combattere sulla Sierra. "Fidel Castro - raccontava pochi anni fa in una intervista concessa alla rivista messicana "Letras Libres" - mi offrì la carica di Comandante e poi quella di ministro, ma rifiutai sempre perché quel che volevo fare era una rivoluzione culturale, non burocratica, ed invitare tutto il mondo a conoscere Cuba e la sua gente". Un anno prima della sua rottura definitiva con il regime, nel 1967, Franqui organizzò all'Avana "El Salon de Mayo", una esposizione alla quale parteciparono numerosi artisti internazionali (tra cui Mirò e Calder), che voleva essere una risposta alle correnti pro-sovietiche nella cultura della rivoluzione cubana.
Con la sua straordinaria umanità Franqui fu sempre un ribelle. Amico di Picasso e Jean Paul Sartre trascorse in Europa, e soprattutto in Italia, i primi anni dell'esilio, durante i quali scrisse alcuni libri indispensabili per conoscere la storia dell'ultimo mezzo secolo cubano. Dallo straordinario "Diario della rivoluzione cubana" ad una imprescindibile biografia critica del lider maximo, "Vita, avventure e disastri di un uomo chiamato Castro". Alla metà degli anni Novanta si trasferì a Porto Rico ("mi ricorda la luce di Cuba", diceva) dove è morto ieri, per cause naturali, all'età di 89 anni. "Sentiamoci domani", ci aveva detto mercoledì nell'ultima telefonata. La sua voce, come sempre ferma e squillante, non tradiva la verità. "Non mi sento bene ma non ti preoccupare, chiamami domani".