La lettera di Antonio Miotto

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Luminare del tessuto
00domenica 16 gennaio 2011 13:54
La lettera di Antonio Miotto

pubblicato sul Gazzettino il 7 gennaio 2011

È bella, commovente e significativa la lettera che Antonio Miotto, 24 anni, caporalmaggiore degli alpini della Iulia,
ucciso il 21 dicembre in un conflitto a fuoco con un commando talebano,
ha scritto al Gazzettino un paio di mesi prima di morire.

Nella lettera di questo giovanottone veneto c’è tutto l’orgoglio per le proprie radici e la fierezza di appartenenza al corpo degli alpini,
ma c’è anche la consapevolezza che lo stesso orgoglio per le proprie radici, le proprie tradizioni, il proprio modo di essere,
di vivere e morire, appartiene anche al nemico, cioè non solo agli afgani in generale ma anche ai Talebani.

Scrive Matteo:
"Questi popoli hanno saputo conservare le proprie radici,
dopo che i migliori eserciti, le più grosse armate hanno marciato sulle loro case, invano.
L’essenza del popolo afgano è viva, le loro tradizioni si ripetono immutate,
possiamo ritenerle sbagliate, arcaiche, ma da migliaia di anni sono rimaste immutate.
Gente che nasce, vive e muore per amore delle proprie radici, della propria terra e di essa si nutre.
Allora capisci che questo strano popolo dalle usanze a volte anche stravaganti ha qualcosa da insegnare anche a noi".

Proprio perchè è orgoglioso delle proprie radici il giovane Matteo capisce che questo sentimento può appartenere,
e appartiene, anche ad altri popoli, ad altra gente che per difenderle è disposta a combattere e a morire.

I governanti dei Paesi occidentali che occupano da dieci anni l’Afghanistan si rifiutano di comprendere quello che il giovane Matteo,
con le sue solide radici, con i suoi solidi valori, non lontani, quando si chiamano orgoglio, fierezza, disposizione al sacrificio,
anche estremo, da quelli del popolo afgano, ha capito benissimo.

Il nocciolo della guerra afgana, a parte i loschi interessi di chi la sta conducendo è tutto qui.

E, assolutamente inutile che i comandi politici e militari occidentali si intestardiscano nel voler "conquistare i cuori e le menti degli afgani",
perchè questa gente vuole conservare i propri cuori, le proprie radici le proprie tradizioni, i propri costumi
anche se noi, come scrive Matteo, "possiamo ritenerle sbagliate, arcaiche.
Il fatto è che sono le loro radici e non sono disposti a cambiarle con quelle di altri,
soprattutto se imposte con l’arroganza di chi si ritiene detentore di una "cultura superiore", con la volenza, con le bombe che uccidono tutti,
guerriglieri talebani, vecchi, donne e soprattutto quei bambini, cenciosi ma vitali,
che Matteo Miotto osserva, pensoso, dal suo Lince (i bambini sono il 40% dei ricoverati negli ospedali afgani).

Matteo ammira questo popolo che, "nonostante i migliori eserciti, le più grosse armate" siano passate sul suo corpo,
è riuscito a conservare se stesso, la propria anima.

Dall’intero tono della lettera si capisce che Matteo non era convinto che la guerra cui stava partecipando fosse giusta,
che fosse giusto combattere altri ragazzi come lui (perchè anche i talebani sono dei ragazzi),
diversissimi in tante cose ma con un valore essenziale che li accomuna:
la difesa delle proprie radici, della propria identità, della propria dignità, della propria sovranità nazionale.
Non era convinto, ma da bravo soldato, da veneto orgoglioso e fiero, ha fatto il suo dovere fino all’ultimo, fino al sacrificio della vita.

Come un vero alpino. Come un talebano.

E sono certo che, se da qualche luogo misterioso ci può ascoltare, questo paragone non lo offenderà.


Massimo Fini
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