Sorelle d'Italia

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aston villa
00domenica 20 gennaio 2008 11:16

La schermitrice Valentina Vezzali esulta dopo una vittoria agli europei
DONNE vincenti. Senza quote rosa. Professioniste dello sport. Brave e cattive. Sciolte, sicure, un po' narcise. Un made in Italy che funziona. Addio Barbie. Ragazze, mamme, signore. Non più figlie, fidanzate, mogli. Né bamboline, né bambolotte, né bamboccione. Corpi tatuati, come la volontà. Muscoli da prestazione, ma anche da copertina. Piercing e iPod, vezzi della modernità. Pochi lamenti e rimorsi, perché il segreto per vincere è quello di imparare a perdere. Gente che fila, schiaccia, vola, nuota, segna, infilza, stende, mira.

E spesso colpisce l'oro. Goldengirls, appunto. Senza tabù. Meglio prendere nota: la ragazza italiana nello sport è cambiata, vuole e pretende, non si accontenta. È femminile, ma aggressiva, è bambina, ma decisa. Sa aspettare, programmare, uccidere. Inchiodare avversarie e stress non è più un problema. Poi torna a casa, ad occuparsi di sé, della sua vita, e magari anche a divertirsi. Qualcuna anche a fare calendari e sfilate: sarà mica un problema?

Lo sport al femminile è sempre più visibile, soprattutto perché è il primo a tagliare il traguardo. Nord, centro, sud, non è più questione di regioni. Ogni città, paese, provincia ha la sua tradizione: il resto lo fa la mentalità e la struttura tecnica. Ogni ragazza è diversa, ma uguale nel cercare soddisfazione. Gloria, soldi, futuro. E capacità di rimonta, come Denise Karbon, altoatesina, nuova valanga rosa, nata, cresciuta e caduta sulla neve almeno una decina di volte, con fratture serie. Però capace di riprendersi il tempo e i successi perduti. Per arrivare da sole ci vuole talento, per farlo insieme organizzazione.

L'esempio viene dalle ragazze della pallavolo, che l'anno scorso si sono prese l'Europa e che non perdono da ventidue partite (era l'8 settembre). Sono lo stesse che nel 2006 costrinsero il ct Marco Bonitta, con cui avevano vinto un mondiale, all'esonero per "incapacità di gestione". Gesto forte, netto, quasi freudiano: lo strappo violento con il padre padrone. Per dire no a certi metodi da caserma. In un paese che fa a gara a non decidere, le ragazze (tutte) scelsero.

Disobbedirono, pagarono, ma rinacquero. E ora sono tra le favorite dei Giochi di Pechino. Tra la più giovane, Serena Ortolani, e la più vecchia, Manuela Secolo, ci sono dieci anni ('87-'77). Però sul campo non si vedono, perché il gruppo riesce a dare ad ognuna freschezza ed esperienza. Anche se le azzurre ogni stagione giocano quaranta-quarantacinque partite, per un impegno totale di centoquaranta giorni tra ritiri, viaggi e gare. Significa stare fuori casa cinque mesi l'anno, solo per la nazionale, che per il titolo europeo ha pagato un premio di cinquantamila euro a testa.

Essere una famiglia aperta, a esigenze e dolori diversi, saper condividere esperienze. Perché in squadra c'è la cubana Tai Aguero, naturalizzata italiana, che per punizione non è più potuta tornare nel suo paese, nemmeno per il funerale del padre, e Francesca Piccinini, la prima a emigrare all'estero, in Brasile, tanti calendari fa.

Come spiega Eleonora Lo Bianco, ventisette anni, capitana: "Ho cominciato a giocare a otto anni. Vivevo a Omegna, accanto a Verbania, in provincia. Famiglia normale la mia, papà assicuratore, mamma casalinga, io con la passione dello sci, che ho dovuto lasciar perdere. A diciassette anni sono andata via di casa, il distacco da giovane è difficile, l'indipendenza è bella, ma ha i suoi costi. Se giochi a pallavolo, non torni ogni sera a mangiare a casa. Ti devi arrangiare. E soprattutto devi migliorarti. Il nuovo ct Massimo Barbolini ci ha dato serenità e ci ha insegnato a non avere fretta, a non sprecare, a saper ripartire. Siamo migliorate. È cambiato il rapporto muro e difesa, siamo più ordinate, usiamo il contrattacco, abbiamo studiato battuta e ricezione. Il livello è cresciuto, non ci sono più partite facili, e il volley non è più quello della scuola".

Anche se è proprio a scuola che cominci a giocare: duecentoventimila tesserate, tanta provincia, oggi come ieri, Bergamo, Perugia, Ravenna, Matera.
Salde e muscolose. Pure nella testa. Macché fidanzato, meglio lo sport, meglio trenta ore di palestra a settimana, meglio il sogno di volare sull'oro di Pechino. Amore sì. Tre metri sopra il cielo, ma per la ginnastica.

Vanessa Ferrari, diciotto anni, prima azzurra a vincere un mondiale, è grande anche se piccola nelle misure, 1,43 di altezza per 36 chili, taglia 34, anche perché se mangia pasta, ha diritto a ventuno penne, né una di più, né una di meno. Vive a Genivolta, Cremona, ha due fratelli, sua madre Galia è bulgara. E ha un ct, Enrico Casella, cinquant'anni, ex giocatore di rugby, ingegnere nucleare che all'atomo ha sostituito la ginnastica. "Abbiamo studiato russe e rumene, le grandi scuole, anche perché oggi questo sport è cambiato, non servono più peluche, ma fisici asciutti e potenti, con grande mobilità articolare". Nessuna idea di femminilità da tutelare, nessun corpo da bambina da proteggere. Solo doti e qualità da esaltare. E così Vanessa, che odia i giornalisti perché le fanno perdere tempo, è riuscita a farsi costruire una palestra. Aveva iniziato in una piscina dismessa vicina al casello di Brescia Ovest, un posto dove riempivano le vasche con la gommapiuma. Miracolo da artigiani.

Federica Pellegrini è zuppa d'acqua sin da bambina. Ha vent'anni, è di Mirano, Venezia, gareggia per il circolo Canottieri Aniene di Roma, ma si allena con il ct Castagnetti al centro federale di Verona dove c'è anche Marin, ex fidanzato di Laure Manadou. A quattro anni era già in piscina. Precoce. A sedici, minorenne e esordiente, nel 2004 ad Atene vinse l'argento nei 200 stile libero e riportò l'Italia sul podio del nuoto femminile dopo trentadue anni. Gambe lunghe, spalle larghe, sempre collegata all'iPod, fino al momento del tuffo, ha un tatuaggio con la fenice che risorge.

Federica ostenta, non nasconde voglie e pretese. Se è contenta, batte i pugni in acqua, si mette le mani sul viso. A Pechino l'attende la sfida di gelosia con la francese Manadou. Acque e cuori tempestosi. Non è l'unica azzurra a combattere tra le onde. C'è anche Alessia Filippi, dorsista, ventuno anni, romana e tifosa di Totti. Un'altra cresciuta in piscina, che a forza di guardare sempre in alto, si è convinta che anche a lei spetti un pezzo di cielo. Però le piace anche divertirsi e trova sempre un modo per scappare a ballare.

Di fioretto in fioretto Margherita Granbassi, nata a Trieste, casa a Narni e palestra a Terni, in Umbria, è una duellante cresciuta con il cartoon Lady Oscar e con una canzone: "Tuo padre voleva un maschietto, ahimè sei nata tu, nella culla ti ha messo un fioretto, Lady Oscar sei proprio tu". Per diventare una tipa alla Kill Bill ha molto lavorato su se stessa, con uno psicologo, anche perché per farsi largo ha dovuto trafiggere due mamme ostinate, Valentina Vezzali e Giovanna Trillini, sue compagne di squadra. E si sa, battersi tra amiche, crea malessere: ognuna conosce i crucci dell'altra.

Margherita era timida, troppo per lo sport. "Ero scarsa di egoismo. In pedana non riuscivo a pensare a me stessa. Le avversarie spaccone mi intimidivano. Se una decisione arbitrale mi danneggiava, subivo la decisione e la stoccata successiva. Se andavo in vantaggio venivo raggiunta, se andavo sotto faticavo a tornare a galla. Pensavo e facevo la cosa sbagliata, ora non più".

A fare sempre la cosa giusta c'è Valentina Vezzali, una che tiene la vita in punta e zac, appena si muove, colpisce. Infatti di soprannome fa Killer e non D'Artagnan. A trentadue anni ha vinto il suo quinto mondiale dopo una maternità e un infortunio. Sposata con Mimmo Giugliano, calciatore a Campobasso, non fa fatica a tirare giù la maschera. "Siamo brave perché ci applichiamo, da due anni non perdiamo con avversarie straniere. Noi donne siamo un usato sicuro. Tra casa, figli e lavoro, non ci perdiamo d'animo. Ci diamo dentro, se c'è da lavorare e da sacrificarsi. Ci siamo emancipate dalla paura, dall'umiltà, dallo stare sempre nascoste. Forse la società non si muove, ma noi sì. Cerchiamo l'indipendenza, seguiamo le nostre aspirazioni".

Figurarsi se si perde d'animo Michela Brunelli, trentasei anni, la prima disabile a vincere contro quelle "normali". A Terni l'anno scorso si è aggiudicata il doppio nel campionato italiano di ping-pong quarta categoria. Lei in carrozzina, le altre in piedi. Michela attacca, schiaccia di rovescio, ha servizi micidiali. Andrà a Pechino alle Paralimpiadi. "Gioco dal '94, ma i risultati stanno arrivando ora, perché io non mollo mai".

Vive a Bussolengo, alle porte di Verona, ai tornei ci va da sola, guidando la macchina, si allena quattro volte a settimana per un totale di quindici ore. Ha conosciuto lo sport dopo l'incidente. Aveva diciotto anni, andava in motorino, venne investita, ricoverata al Negrar. E scoprì che la vita poteva ricominciare attorno a un tavolo. "La mia metà è il ping-pong, niente fidanzato, i sentimenti prendono tempo e io tempo da sprecare non ce l'ho. Preferisco gli stimoli alla pietà".

Ragazze terribili come Alessandra Sensini, trentotto anni tra una settimana, che dopo tre medaglie olimpiche, è diventata campionessa del mondo ieri in Nuova Zelanda e ancora va in giro a cavalcare le onde sulla tavola a vela. Da Grosseto verso Pechino, senza problemi e con la voglia di sempre. Quando lo sport è una questione di testa e una pratica quotidiana da highlander. Adrenalina e progetto. Equilibrio e vento.

O come Antonietta Di Martino che a ventinove anni, pure se sbucciata, e donna del sud, solo 169 centimetri tra tante stangone, si è ripresa la vita ed è volata a 2,03, migliorando il record italiano, fermo a Sara Simeoni dal 1977, quando le canzoni di moda erano di Patty Pravo. Antonietta, che a Cava dei Tirreni dorme ancora in stanza con la sorella, non aveva mai potuto giocare con il futuro, a vent'anni si era dovuta fermare: sei stagioni d'infortuni, gessi, radiografie e ospedali. Un'atleta interrotta, con le stampelle, zoppicante. Che si reinventa, si slaccia dalle avversarie e dal vecchio fidanzato che metteva il broncio se lei non stava a casa ad aspettarlo. A Pechino tratterà il mondo alla pari. Lo farà anche Marta Bastianelli, ventuno anni, campionessa del mondo di ciclismo, che vive a Lariano, in provincia di Roma, e viaggia su due ruote già da bambina. Piccola dittatrice dei suoi sogni. Come le altre sorelle d'Italia.

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