Altra sconfitta onorevole....

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aston villa
00domenica 9 novembre 2008 12:32
Abbiamo perso la partita, ma trovato un mediano, forse un gioco. E ritrovato uno stadio, una città. C'erano 30.169 persone ieri all'Euganeo di Padova, roba da far impallidire gli azzurri di Lippi tre anni fa, tutte lì a celebrare il mistero amoroso di una nazionale di rugby - molto padovana, a partire proprio dal Wilkinson de noantri, Andrea Marcato - che piace anche se continua a perdere.

Contro l'Australia vincere non era in bilancio. Ci siamo però arrivati a un soffio, il solito rammarico che tarla il cuore: pari nei punti (20-20) e nelle mete segnate, una per parte, fino a otto minuti dalla fine. Ad una pedata dal Paradiso. Ci ha svegliati una punizione amara. Luciano Orquera, entrato a sostituire Marcato infortunato all'anca, al minuto 66 ha mancato la punzione del sorpasso. L'unico errore della sua partita da sostituto più che onorevole. Calcio mancato, meta subita. Gli aussie ci hanno castigato sei minuti dopo con una meta bella ma viziata da un «velo» di capitan Mortlock (e nel rugby non si può) di Quade Cooper, debuttante e maori. Rabbia nostra, sospirone australiano. E un solo pensiero: se ci fosse stato ancora Marcato.

Il mediano che l'anno scorso Nick Mallett aveva «retrocesso» a estremo per eccesso di fragilità difensiva, ma che pure al Flaminio si era inventato il drop della vittoria da infarto con la Scozia, nell'ultima partita del Sei Nazioni. E che ieri ha giocato poco più di un tempo, costretto a uscire da una botta all'anca, facendo però in tempo ad incantare stadio e ct. Un solo buco all'inizio, poi due punizioni, un drop sublime, una trasformazione e il passaggio da campione che ha innescato prima Masi e poi Mirco Bergamasco sulla nostra meta.

Ritagli alla Johnny Wilkinson, soprattutto la distillazione del passaggio: rallentato, trattenuto per attirare due difensori australiani e creare il vuoto di tempo, l'intervallo musicale in cui è sibilato il devastante contrappunto di Masi. Roba alla Wilkinson, appunto: o alla Del Piero, Mister Punizioni, l'uomo che Marcato spera di incontrare nei prossimi giorni a Torino, quando l'Italia ovale incrocerà la Juventus nel ritiro all'Hotel Principi di Piemonte.

Il piede pensante, l'esprit de finesse, l'intuito sono i punti forti di Marcato, ma ieri coach Mallett gli regalato carezze globali: «Sono molto soddisfatto, è stato bravissimo anche a placcare dappertuto». Bollino blu. Con Marcato mediano, Canavosio più che sufficiente dietro la mischia, Garcia e Mauro Bergamasco a fare da pretoriani al number 10, Mirco Bergamasco metaman ritrovato (in nazionale è arrivato a quota 16, come Ivan Francescato) e soprattutto un Masi, man of the match, tanto strepitoso all’estremo quanto l'anno scorso era parso tentennate da mediano, l'Italia ha forse trovato la sua quadratura. Restano da registrare le touche - cinque perse ieri - la brutta mischia del primo tempo. E restano i dubbi per un arbitraggio miope sulla gomitata in volo di Barnes a Marcato nell'azione della prima meta australiana, e sull'ostruzione (non casuale) di Mortlock sulla seconda.

«Non cerco scuse», ha detto Mallett. «È stata una bella partita, anche se qualche errore lo abbiamo commesso, e non vorrei mettermi a discutere dell'arbitro. Perché arbitrare una partita di rugby non è facile, e forse qualche intervento in più del giudice che sta davanti al video non guasterebbe». Anche Sergio Parisse, monumentale, non ha digerito i fischi di Mister Lawrence, neozelandese: «Voglio rivedere il video ma dal campo il velo era evidente». A posteriori deve essere sembrato chiaro anche allo stesso referee, che poi, come ha riferito il Presidente Dondi, «si è scusato con la squadra». Più che gli arbitri ora si tratta di analizzare l'Argentina, l'avversario di sabato a Torino, la squadra da battere nel trittico dei test autunnali. L'amatissima, ma ancora perdente nazionale ovale, è riuscita a sloggiare la Juventus, che anticiperà a giovedì il match di campionato. Sabato sarebbe bello che l'Olimpico si trasformasse nel Bernabeu di Marcato.
aston villa
00venerdì 14 novembre 2008 09:50
DOMANI ITALIA - ARGENTINA A TORINO
Tifa River Plate, vive a Parigi e conserva nella casa di Buenos Aires una maglia del Toro, numero dieci: «Non un numero qualsiasi, è quello che il mondo insegue». La maglia è dello zio, Patricio Hernandez, calciatore passato di qui all’inizio degli Anni Ottanta, il numero è del nipote. Juan Martin Hernandez, apertura dell’Argentina di rugby che domani gioca con l’Italia in un test match capace di riempire l’Olimpico di Torino.

Correrà sul campo che ha reso celebre suo zio in Italia. Che effetto fa?
«Mi emoziona molto. Purtroppo non abbiamo avuto tempo di parlare della città, ma ho visto diverse foto e ascoltato racconti. Mio zio è stato un educatore e un maestro. Credo nella famiglia, nella tradizione, nei più vecchi che insegnano ai giovani. Io ho scelto il rugby, lui giocava a calcio ma qui non si tratta di tecnica, parlo di serietà. Ho ereditato da lui un modo di affrontare lo sport, l’orgoglio nell’indossare una maglia».

Che significa per lei la maglia dei Pumas?
«Fierezza, un passato che ti porti addosso. La necessità di onorare chi c’è stato prima di te. È un affare delicato, non bisognerebbe neanche parlarne».

Numero dieci, come lo zio Pato, come Maradona.
«Come ogni uomo che pesa nello sport, un onore anche se io di numeri ne ho girati parecchi e all’inizio non ero contento. Cambiare ruolo è faticoso, quando sei giovane lo fai e ti infastidisce però oggi che sono apertura sono felice di aver avuto altre esperienze. Sul campo, mi sento padrone dello spazio e molto tranquillo, preparato».

L’hanno appena nominata miglior giocatore di Francia, titolo che prima di lei uno straniero non ha mai vinto, che ha fatto a Parigi per meritare tanto?
«Ho dato quel che avevo e questo riconoscimento significa che c’era un buon motivo per lasciare i miei amici e i miei parenti a Buenos Aires e venire in Europa da solo. Quando non mi alleno passeggio per Parigi e guardo tutti quegli angoli meravigliosi. Si respira la storia. Devo dire grazie a questa città perché l’inizio è stato difficile. Sono timido e introverso e emigrare mette paura».

Introverso ma adorato, è considerato un bel tenebroso, un uomo di successo.
«Fa parte del gioco, come i calendari in pose statuarie che facciamo per lo Stade Français, la squadra dove gioco. Ma io non mi metterei mai nudo come il mio compagno Parisse. I pantaloni voglio tenerli».

Che le ha detto Parisse dell’Italia?
«Abbiamo scherzato, sono tutti grossi gli azzurri così glielo ho fatto notare. In questi ultimi anni hanno aggiunto tecnica e stanno costruendo l’orgoglio di cui parlavo, poi per me la partita più importante è sempre quella che arriva. L’Italia è al centro dei miei pensieri».

Per lei il rugby è fisico o tattica?
«Per me è istinto, ma è il mio modo di vederla. Il Sud Africa dei Mondiali 2007 è la squadra più forte che abbia mai affrontato e per quella formazione il rugby era pazienza. La capacità di occupare il campo e aspettare, di andare sempre avanti. Perfetti. Io sono più passionale, è il sangue argentino».

Come vede Maradona allenatore della nazionale di calcio?
«Era quello che serviva, sa cosa vuol dire soffrire per la patria. Non so se tutte le stelle che ci sono oggi hanno idea di cosa significhi».

Non è preoccupato per il suo carattere?
«Al contrario, io spero che sia proprio lui, aggressivo ed esigente ed esagerato anche. È l’Argentina, da troppi anni manca lo spirito giusto, i valori della nostra bandiera, il bisogno di dimostrare chi siamo. Quando c’era lui si sentiva quella spinta, quindi è la persona perfetta per svegliare le nuove generazioni. Sono ansioso di vedere la squadra trasformata. Agli undici da mandare in campo può pensarci anche Bilardo, Maradona ha altro da fare».

Ha un senso della patria molto radicato. Che pensa di Cristina Kirchner, la prima donna presidente dell’Argentina?
«Dovrà meritarsi il rispetto, come chiunque. Veniamo da anni difficili, la crisi economica che ora vivono tutti noi l’abbiamo sperimentata prima e in più in Argentina c’è sempre un partito contro, gente che critica per mestiere: è una situazione complicata. Io non mi sento politicamente schierato però pretendo da chi governa un attenzione reale. Ci vuole tempo per capire e non credo che essere uomo o donna faccia differenza. Ci sono troppi problemi».
aston villa
00domenica 16 novembre 2008 13:48
La festa è qui, è grande, è dappertutto. Tranne che in campo. Ventisettemila persone a farcire l'Olimpico esaurito come neppure con il calcio, con una grande e commovente voglia di festeggiare la Nazionale che arrivava a Torino per la prima volta in 80 anni.

E alla fine da festeggiare - ma per gli altri, per gli argentini - c'è solo la sconfitta numero 200 dell'Italia. La decima con l'Argentina, il 5% del nostro scontento. Il restante 95 è quello che fa male. Abbiamo perso l'ennesima partita da vincere, 14-22, e l'abbiamo persa male, provandoci un po' solo nel finale, quando la bella ma inutile meta di Masi ha ridotto lo scarto del punteggio. Non quello tra ideale e reale, tra speranza e realtà. E' in quello spazio, in quella faglia sempre sul punto di diventare abisso che si allarga il paradosso del nostro rugby.

Popolare, coccolato, ammirato, bello da tifare, simpatico (e un filo piacione), ma che rischia di rimanere in mutande anche nei bilanci agonistici, non solo negli spot commerciali. Riempie i charter e gli stadi, ma lascia deserta la casella delle vittorie. Ci fosse uno psicologo nei paraggi parlerebbe di ansia da prestazione. Corteggiamo la vittoria, non la sappiamo sedurre.

Sabato scorso contro l'Australia gli errori di Mr Lawrence, il referee, ci avevano alleggerito la coscienza. Stavolta la cilecca è tutta nostra. L'Argentina vista ieri non è - non è più - quella del Mondiale. Le sono rimaste un paio di grandi stelle, Hernandez e Contepomi su tutti, il resto è lucidità, cattiveria, determinazione. Sanno fare una sola cosa: calciare e buttarsi sotto con gli avanti, difendendo la linea come l'onore della mamma. Ma la fanno benissimo. Noi ieri siamo riusciti a sciupare anche la specialità della casa, la potenza della mischia. Nieto e compagni hanno fratturato la prima dei Pumas, costretta a crollare per non indietreggiare, con Roncero buttato fuori dieci minuti dall'arbitro White per eccesso di cinismo. Eppure non abbiamo saputo raccogliere niente. Non dalle punizioni guadagnate e poi sciupate da Marcato (due, più un drop, nel primo tempo), non nei contrattacchi volenterosi ma senza sostegno di Masi. Non nelle aperture tentate e quasi tutte abortite dai nostri tre quarti. Impotenti, a tratti abulici. Le nuove regole che hanno depotenziato la maul e la mischia ci danneggiano, ma danneggiano anche l'Argentina.

Certo: loro almeno hanno Hernandez, il Keanu Reeves ovale. Sulla meta che ci ha tagliato le gambe a inizio secondo tempo, dopo i due calci regalati a Contepomi alla fine del primo, El Mago sembrava Neo in Matrix. Lui a velocità normale che calcia, scavalca, raccoglie la palla, attira i placcaggi e scarica su Carballo. Un alieno. Attorno i nostri, viscosi negli sguardi e nei movimenti, che lo guardano passare come da un acquario. Più ralenti show che reality show. «Sono molto deluso - ha ammesso il commissario tecnico azzurro Mallett -. Ero convinto di partire alla pari con l'Argentina, invece non siamo riusciti a metterli in difficoltà. Calciare era giusto, ma l'abbiamo fatto male, siamo rimasti troppo nella nostra metà campo. Il problema è che loro hanno campioni come Hernandez, che ogni domenica risolve i problemi dello Stade Français. Noi, dietro la mischia, dei tre-quarti e delle ali che non sanno concretizzare. E' un problema della Nazionale, ma anche di tutto il rugby italiano».

Ecco, appunto. Con l'ingresso nel Sei Nazioni, nove anni fa, siamo saliti in corsa su un treno lanciato verso il superprofessionismo. Il rugby di oggi è ormai uno spettacolo globale, ricco, che punta su valori nobili, su palcoscenici de luxe, su grandi eventi. Come ormai sono diventati anche i test autunnali, un circo scintillante che mischia i due emisferi e manda esauriti stadi enormi. Sud Africa, Nuova Zelanda, Australia, Galles, Francia, Scozia hanno dietro tradizioni infinite e/o campionati solidissimi. L'Italia no. Vive di rendita su pochi lampi e sconta la vena debolissima di un campionato stento, che non produce ricambi, che non garantisce un serbatoio grande a sufficienza per alimentare ambizioni ed entusiasmo. E' il campionato che va riformato, rifondato. La Nazionale, come il barone di Münchhausen, fino ad oggi si è sollevata afferrandosi per i capelli da sola, o quasi. Ma fino a quando potrà continuare, questa dolcissima favola?
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