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Vado a vivere a Cuba

Ultimo Aggiornamento: 30/03/2013 17:49
30/05/2009 23:16
 
Quota
Pepe, il marinaio[/

Il 6 luglio ho il volo per l’Italia con partenza da Varadero, anziché da L’Avana e ciò mi crea
delle scomodità perché l’aeroporto di Varadero non è a portata di mano. Frank mi aveva prenotato
alcune settimane fa un posto sul pullman di linea che collega L’Avana con Varadero (circa tre ore
di viaggio): il costo del biglietto è irrisorio (6 pesos) ma per procurarselo bisogna fare una coda
spaventosa tra gente che grida e spinge, e così il povero Frank che soffre di ulcera cronica,
lombaggine e artrite, per evitare tanta disumana ferocia aveva deciso di optare per una soluzione più
alla “cubana”, ovvero contattare la cassiera fuori dall’orario d’ufficio, pagarle un dollaro e chiederle
di emettere, con tutta tranquillità e quando ne avesse il tempo, un biglietto L’Avana-Varadero da
ritirare poi con comodo.
L’unico aspetto negativo, almeno per ora, è che il suddetto pullman parte alle 4 del mattino,
perché quello delle 7 è già tutto occupato: il 6 luglio, infatti, è un sabato e molti avaneri sono soliti
trascorrere il fine settimana a Varadero. Il mio aereo parte alle 17, quindi dovrò stare parecchio
tempo all’aeroporto, facendo cosa... non si sa.
Alle 4 del mattino i mezzi pubblici a L’Avana non circolano ancora, così sono dovuto uscire da
casa di Frank alle 11 della sera per recarmi alla stazione dei pullman interprovinciali e aspettare lì.
A Cuba si passa sempre molto tempo aspettando qualcosa o qualcuno: le prime volte uno s’incazza,
poi ci si fa l’abitudine e l’attesa diventa normale, anzi certe volte è proprio nell’attesa che
succedono altre cose; sembra quasi che vengano apposta per movimentare un po’ la monotonia e la
noia in cui uno inevitabilmente cade. Mi immagino i miei amici in Italia quando mi vedranno:
- Allora, come va? Cosa hai fatto in questi mesi a Cuba?
- Mah, aspettavo...
- Come sarebbe?
- Aspettavo della gente...che succedessero delle cose...Andavo a fare la spesa e aspettavo delle
mezze ore in coda, oppure quando dovevamo andare a Bayamo aspettavamo alcune ore qualche
mezzo di fortuna. L’altra sera hanno tolto la luce e abbiamo dovuto aspettare due ore prima che
tornasse...
- I tuoi documenti, come vanno?
- Sto aspettando che mi diano la residenza...
- E il telefono? Ve l’hanno installato?
- Non ancora, abbiamo fatto già la domanda sei mesi fa, stiamo aspettando che ce lo mettano...
Stavo dicendo che sono dovuto uscire da casa di Frank alle 11 di sera per poter prendere uno
degli ultimi autobus per il centro. Ci salutiamo e mi dà alcune lettere da consegnare a degli amici di
Torino e infine non dimentica di farmi un raccomandazione riguardo a dei sigari che mi ha
procurato tramite un suo amico:
- Se alla dogana ti dovessero chiedere qualcosa, dì loro che li hai comprati per la strada: non dire
che te li ha dati un amico, se no potremmo finire tutti nei guai perché c’è molto controllo rispetto al
commercio illegale dei sigari.
- D’accordo, non ti preoccupare.
Mi dirigo verso la fermata dell’autobus urbano che dista circa trecento metri da casa di Frank e
trovo già un bel po’ di gente. Chiedo chi è l’ultimo e poso a terra le mie due pesanti valigie. Passano
i minuti, la gente aumenta e gli autobus passano sempre più di rado: ovviamente quello che serve a
me, il 190, tarda ad arrivare. Si fanno le 11 e mezza, le 11 e 45, mezzanotte! Ormai ci sono già una
trentina di persone che aspettano quando ecco all’orizzonte arrivare un Camello: la gente tira un
sospiro di sollievo e si agita per potersi stipare dentro questo mezzo mandato da qualche divinità
superiore. Peccato che a me e a pochi altri sfortunati non serva.
Qualcuno va via con un taxi stracolmo, altri vengono raccolti da amici che casualmente
passavano di lì in macchina.
Dopo poco sbuca da una via laterale un altro autobus, aguzzo la vista per leggerne il numero ma
non è il 190: si porta via i pochi derelitti che stavano aspettando...meno uno, cioè io. E’ già
mezzanotte e mezza e sto disperando di potere vedere arrivare l’autobus che mi trarrà in salvo,
anche perché sto cominciando a temere per la mia incolumità: è vero che qui siamo in un quartiere
residenziale e quindi non c’è molta delinquenza notturna, però gironzolare di notte per zone poco
frequentate e con dei bagagli è sconsigliabile anche se ci si trova a L’Avana.
Un cagnolino impaurito e affamato mi si avvicina e trova riparo tra i miei bagagli: si aggomitola
e si addormenta lasciando che le sue pulci balzino agevolmente dal suo pelo verso le mie borse.
Poi un tipo si avvicina alla fermata:
- Stai aspettando il 190?
- Sì.
- Allora sono dopo di te. - dice sedendosi accanto a me. - Vai alla stazione dei pullman?
- Sì.- ripeto, cercando di troncare il dialogo.
E’ un uomo sui quarant’anni, snello ma dal fisico forte, la testa quasi pelata; quando parla mi
guarda solo per un istante, poi rifugge con lo sguardo verso un’altra direzione. Sono un po’ nervoso
perché immagino che si tratti del solito profittatore-rompiballe, di quelli che nelle zone centrali se
ne trovano ad ogni cento metri, e quando capiscono che sei un turista straniero non ti mollano più,
raccontandoti metà della loro vita, dicendoti che hanno una cugina sposata con un italiano, che la
vita a Cuba è difficile, che l’Italia è un bel paese, che conoscono Toto Cutugno e Albano e Romina,
i Ricchi e Poveri e Nicola di Bari, che se vuoi comprare dei sigari loro ne hanno a poco prezzo; altri
invece vanno direttamente al sodo chiedendoti in regalo un dollaro o un capo d’abbigliamento.
Questo, invece, che tipo sarà da trovarsi a quest’ora in una desolata fermata d’autobus?
- E’ da molto che aspetti? - mi chiede.
- Più di un’ora.
- A quest’ora è difficile.... Anch’io vado alla stazione dei pullman, vado a prendere mio fratello
che deve arrivare da Matanzas. Di dove sei? Cileno?
- No, italiano.
- Ah, italiano...parli così bene spagnolo che credevo fossi sudamericano.
Si avvicina un barbone con una lattina di birra in mano (e cinque o sei nello stomaco),
barcollando farfuglia qualcosa che non si capisce, ci offre da bere, ma cortesemente rifiutiamo;
allora chiede dei soldi e il mio vicino, per liberarsene, gli dà qualche spicciolo poi lo saluta per far
sì che se ne vada.
- Certa gente si rovina la vita con l’alcol. - mi dice - Io bevo pochissimo e non fumo: bere troppo
e fumare fa male alla salute. Così tu sei italiano... Io mi chiamo Pepe - e mi dà la mano
presentandosi.
- Alessandro. - rispondo.
- Ci sono stato una volta in Italia, a Genova. Faccio il marinaio su una nave mercantile... ho
girato parecchio. L’Italia deve essere bella. Francia e Spagna le conosco di più, ci sono stato un
sacco di volte, abbiamo toccato parecchi porti.
- Sì, viaggiare è una bella cosa, si vedono cose nuove, si conosce molta gente.
- Sei in vacanza qui a Cuba?
- No, vivo qui. Mi sono sposato con una ragazza cubana e mi sono trasferito qui.
- E adesso vai da lei?
- No, sto partendo per l’Italia: ho il volo da Varadero domani. Vado a trovare i miei.
- Ah, stai partendo! Credevo fossi arrivato ora. Però, Alessandro, non dovresti girare da solo a
quest’ora: è pericoloso, c’è brutta gente in giro, ti possono derubare delle borse. Comunque adesso
ti aiuto io, anch’io devo andare alla stazione dei pullman, andiamo insieme così in due non c’è
pericolo.
Non ho ancora capito chi è in realtà questo Pepe: a vederlo così sembra sincero, però meglio
tenere gli occhi aperti e non fidarsi troppo. E’ brutto essere diffidenti verso chi offre la propria
disponibilità, ma in questo momento sono in condizione di netta inferiorità strategica, quindi mi
sembra opportuno stare all’erta. E poi con il mio fisico mingherlino non posso certo competere con
un marinaio!
La fermata comincia a popolarsi di nuovo di gente quando ecco giungere un altro autobus,
guardo il numero e...190! Finalmente! E’ l’una meno venti quando saliamo. Nel frattempo si era
fatta un po’ di coda, ma noi siamo i primi: Pepe prende la borsa più grande ed io l’altra più lo
zainetto.
- Sono poche fermate, poi bisogna fare un pezzo a piedi. Non ti preoccupare, ti avviso io,
conosco bene la strada. Vedi Alessandro, bisogna stare attenti perché adesso qui sull’autobus va
tutto bene, ma in strada è pericoloso, non bisogna mai girare soli di sera tantomeno con delle
borse...
Nel suo parlare a raffica ripete due o tre volte le stesse cose, probabilmente senza rendersene
conto.
- Comunque di me ti puoi fidare, te l’ho già detto, puoi considerarmi un amico. Guarda, se non
credi a ciò che ti ho detto... - estrae dalle tasche il portafogli e mi mostra il tesserino di marinaio -
...vedi? Lavoro nella marina mercantile.
In effetti sembra tutto regolare e mi ha quasi convinto della sua lealtà disinteressata. Scendiamo
dall’autobus e percorriamo un tratto di strada semideserta e buia.
- Vieni! Da questa parte! Dobbiamo fare il giro di là e siamo arrivati. Vedi Alessandro, se dovevi
venire da solo qui magari incontravi qualche malintenzionato...- Si ferma un istante per raccogliere
un bastone di legno - Con questo però non c’è pericolo, meglio essere preparati.
Comincio ad essere preoccupato di essere caduto in una trappola: magari adesso aspetta il
momento opportuno, mi tira una sventola con il bastone e mi deruba di tutto. E io cosa faccio? Odio
la violenza fisica, specialmente quando viene esercitata su di me! Ma no non può essere così facile
come in un film: calma, stiamo calmi. Per il momento mi tengo a debita distanza e lascio che sia lui
a fare strada. Dobbiamo scendere per una strada che fa un’ampia curva costeggiando un boschetto
prima di arrivare alla meta finale, la stazione dei pullman, che da qui non si vede ancora.
- Vieni, tagliamo per di qua - propone Pepe imboccando il boschetto dove lo sguardo si perde nel
buio. E qui l’adrenalina mi sale fino al cervello: dalla parte opposta stanno salendo due individui,
forse suoi complici! Magari adesso mi aggrediscono tutti e tre! Cosa faccio? Pepe continua a
camminare con la mia borsa in mano, non si è accorto che non lo sto seguendo ma mi sono bloccato
alcuni metri dietro di lui. La mia borsa! penso disperato. Poi Pepe rapidamente si volta, torna
indietro e dice:
- Meglio cambiare strada. Perché rischiare proprio adesso? Meglio allungare un po’ il cammino
che mettersi in quest’oscurità. E’ fino adesso che ti sto mettendo in guardia sui pericoli e stavo per
commettere io un’imprudenza!
Arriviamo finalmente alla stazione dei pullman che, però, è ancora chiusa perché apre alle due di
notte. Fuori c’è parecchia gente che aspetta:
- Dobbiamo aspettare un po’ qui, sediamoci intanto. Ormai non c’è più pericolo - dice. Povero
Pepe: l’avevo proprio giudicato male.
Chiaccheriamo un po’ lì fuori, mi dice che sta facendo qualche settimana di vacanza, poi partirà
di nuovo, sempre verso paesi stranieri, starà via qualche mese. Quando non è in viaggio è ospite a
casa di sua zia in Centro Avana: mi dà anche il suo numero di telefono e mi dice di chiamarlo la
prossima volta che passerò di qui. Gli chiedo se è sposato e mi dice che lo è stato, ma poi lei lo ha
lasciato. Mi chiede se abbiamo figli e gli rispondo di no. Neanche lui ne ha: dice che se un genitore
non può dedicare il proprio tempo per allevare i figli è meglio non averne. E lui, con il suo lavoro,
di tempo non ne ha proprio.
Si aprono i cancelli della stazione e ci avviamo verso l’ingresso:
- Adesso devi fare il check-in dei bagagli, poi devi passare in sala d’attesa e aspettare fino a
quando annunciano la partenza. Vieni, ti aiuto io.
- Ci sarà una caffetteria? Ti offro qualcosa da bere...
- Sì, ci deve essere, ma prima fai il controllo del biglietto e dei bagagli.
Effettuato il check-in come all’aeroporto ci dirigiamo verso la sala d’attesa:
- Ecco, siediti qui e aspettami - mi ordina.
Poco dopo arriva con un caffé:
- Non è molto caldo, ma è l’unica cosa che avevano.
-.Ma tu cosa prendi?
- No, non ti preoccupare. Non voglio nulla. Beh, Alessandro, ti devo salutare: vado dall’altra
parte, mio fratello starà per arrivare. Adesso ti puoi riposare un paio d’ore: fai buon viaggio e se
passi da L’Avana chiamami. Stammi bene.
Mi stringe forte la mano e si allontana a passo deciso, fiero di avermi accudito fino lì, come un
padre che il primo giorno di scuola accompagna il proprio bambino fino all’ingresso, assicurandosi
che tutto sia a posto. Per alcuni minuti non riesco nemmeno ad alzarmi dalla sedia, quasi temendo
che Pepe possa ricomparire sgridandomi per avere contravvenuto alle sue raccomandazioni. Poi,
però, mi rendo conto che con ogni probabilità non lo rivedrò mai più e mi sento un po’ colpevole
per averlo trattato inizialmente con tanta freddezza.
Mi alzo e vado a sedermi da un’altra parte, cerco una posizione un po’ più comoda e alla fine mi
addormento.

CONTINUA...
02/06/2009 09:43
 
Quota
Intrigo internazionale
Alle quattro del mattino comincia ad esserci un po’ di movimento nella stazione dei pullman
dell’Avana. Finalmente si apre l’accesso ai pullman e si parte. Non riesco a dormire, ma le
poltroncine sono abbastanza comode.
Poco dopo sorge il sole e il cielo è già chiaro quando ci fermiamo alla stazione di Matanzas,
ridente località che sorge in una deliziosa baia. Approfitto della sosta per ricordare al conduttore di
farmi scendere all’aeroporto di Varadero: Frank mi aveva assicurato che c’era una fermata
obbligatoria, ma meglio assicurarsi preventivamente. Meno male, infatti, che mi è venuto in mente
di farlo, perché quando giungiamo al bivio dell’aeroporto, alle sette circa, sono l’unico a scendere,
sotto lo sguardo stupito degli altri passeggeri e dell’autista. Poi il pullman riparte e si allontana
rapidamente su questa autostrada semideserta.
Mi guardo intorno e mi sembra di essere Cary Grant nel film “Intrigo internazionale” in quella
scena in cui si trova da solo in mezzo alla strada nel deserto quando viene attaccato da un piccolo
aereo da turismo e allora per sfuggire agli spari comincia a correre e si nasconde in un campo di
mais. Spero che non succeda anche a me la stessa cosa, perché qui vicino non vedo campi di mais.
Dal bivio parte una stradina secondaria che si inerpica su per una collina e scompare dietro ad
essa subito dopo: oltre non si vede più nulla e così metto a frutto la mia immaginazione per capire
dove sarà l’aeroporto. Il mistero è subito svelato quando l’occhio mi cade su un cartello che dice:
“Aeropuerto 6 km”.
Dopo alcuni istanti di sgomento mi riprendo e mi metto ad aspettare che passi qualcuno per
chiedere un passaggio. Purtroppo, però, in questa zona sembra che nessuno faccia particolarmente
caso ad un povero turista solitario pieno di borse, dato che le poche auto che svoltano da questa
parte per poco non mi portano via la mano che sto agitando. Per non parlare dei pullman
granturismo che trasportano tonnellate di turisti organizzati del tipo “tutto-compreso”.
Arrivano a piedi alcune donne e uomini con l’uniforme blu (devono essere i dipendenti
dell’aeroporto) e anche loro si fermano lì vicino con l’intenzione di chiedere un passaggio. Mi sento
un po’ meglio, se non altro perché sono il primo della lista d’attesa. Ma mi rendo subito conto che
nella mia lista d’attesa ci sono solo io: infatti le auto che passano di qui si fermano, caricano i
passeggeri e ripartono ignorandomi completamente. Mi pare di capire che c’è una convenzione
locale della quale non faccio parte.
La stessa cosa si ripete un paio di volte e quindi capisco definitivamente che anche se rimango lì
tre giorni nessuno mi darà mai un passaggio. Così alle otto circa raccolgo le mie borse e mi metto in
cammino: anche fermandomi più volte per riposare, in due o tre ore dovrei arrivare all’aeroporto, e
siccome il volo è previsto per le 17 posso andare con tutta tranquillità.
La strada è in leggera salita, ma non è faticosa: un rettilineo lunghissimo che arriva in cima ad
una collina. Ogni tanto sento il rombo di un’auto che arriva da dietro, ma ormai non ci faccio più
caso. E invece ecco che una si ferma:
- Salga, le do un passaggio! - mi dice il tipo a bordo di una piccola jeep scassata.
Non posso crederci, forse sto sognando. Comunque salgo, la macchina si muove effettivamente e
quindi deduco che non è un miraggio.
- L’aeroporto è lontano. Non aveva mica intenzione di farsela tutta a piedi?
- Beh, non avevo scelta...piano piano ci sarei arrivato.
Il tipo è cordiale e amichevole (meno male: una nota felice in una mattinata tanto difficile).
- E’ venuto in vacanza a Cuba?
- Sì - tralascio di raccontargli tutta la mia storia perché sarebbe troppo lungo, così gli lascio
credere di essere un normale turista. - Dovevo partire da L’Avana ma non c’era posto. E lei?
Lavora all’aeroporto?
- Sì, nella zona carico merci.
In cinque minuti arriviamo a destinazione.
- Buon viaggio! Magari ci si rivede dentro l’aeroporto...
- Sì! Grazie del passaggio, senza di lei non so come avrei fatto.
Mi incammino verso la sala d’aspetto e cerco una soluzione al problema più grande che mi resta
ora da affrontare: far passare il tempo. Per il momento la prima cosa che mi viene in mente è
sempre la solita: sedermi ed aspettare (anche perché in una sala d’aspetto, come dice il nome, non è
che si possa fare altro).
Intanto osservo il via vai di turisti: pullman che arrivano, aerei che partono... Sono l’unico essere
umano che non è coinvolto in nessuno di quei branchi.
Rifletto un po’ sugli ultimi mesi trascorsi, all’entusiasmo che avevo quando ero partito dall’Italia
e alle cose successe qui. Insomma, mica me l’ero inventato io di essere assunto nel centro di
calcolo, mi avevano chiamato loro! Poi si scopre che a causa di varie trappole burocratiche non
posso essere assunto subito; lavoro pure gratis, volontariamente, ma non ho diritti come gli altri; la
direzione tergiversa ed evita accuratamente di entrate in contatto con me. A tutto ciò si aggiungono
la difficoltà di movimento, di comunicazione e infine anche quella di rendere compatibile lo status
di residente cubano con quello di cittadino italiano: per uscire da Cuba e tornare per qualche
settimana nel mio paese devo chiedere il permesso alla polizia locale, pagare dei quattrini e
attendere settimane! Semplicemente pazzesco. Mi sembra di essere l’agrimensore K. nel romanzo
“Il castello” di Kafka: spero di non fare la stessa drammatica fine. Lasciamo perdere: l’importante è
che, dopo tanto correre di qua e di là per fare e disfare documenti, ora sono qui all’aeroporto, pronto
a partire. Non può succedere più nulla di angosciante: al massimo l’aereo potrebbe essere in ritardo
o potrebbero annullare il volo o potrebbe esserci qualche problema di overbooking, ma sono cose
che succedono normalmente negli aeroporti e penso di esserci psicologicamente preparato. Quando
arriverò in Italia dovrò fare i documenti per Maribel: bisognerà correre ancora per vari uffici, ma
sarà sicuramente meno stressante che qua.
Ad un certo punto di fronte a me si siedono due donne sui cinquant’anni, presumibilmente delle
dipendenti dell’aeroporto. Chiaccherano tra loro e dopo un po’ una si alza e se ne va mentre l’altra
attacca bottone con me:
- Hai l’ora per favore? - mi chiede.
- E’ quasi mezzogiorno.
- Sei argentino?
Negli ultimi tempi mi hanno scambiato per cileno, spagnolo, argentino, meno che per italiano:
segno che mi sono mimetizzato abbastanza bene...
- No, sono italiano.
- Ah, italiano. Però parli bene lo spagnolo! - (come se per rispondere che ora è bisognasse avere
la laurea in letteratura ispano-americana!).
- E’ che mia moglie è cubana. - spiego.
Così cominciamo un dialogo abbastanza amichevole, nel quale racconto un po’ della mia storia.
La tipa si dimostra sorpresa e allo stesso tempo entusiasta di sentire le mie parole, anche perché mi
dice di essere stata una combattente durante la guerra di liberazione e quando le dico che anche mio
suocero lo è stato va in estasi. Quando la sua collega ritorna le fa un riassunto di tutto quello che le
ho raccontato:
- Sai, questo ragazzo è italiano, vive qui a Cuba, è sposato con una compañera e suo suocero si
chiama Luis, è un ex-combattente di Niquero...
L’amica non è da meno in quanto ad affabilità. Si va avanti un po’ a chiaccherare, poi, siccome
ho fame, chiedo se sanno dove si può mangiare qualcosa.
- No, qui non c’è quasi niente, solo il bar ma è in dollari. - dice dispiaciuta. - Ma aspetta, vado a
vedere ché magari riesco a farmi dare qualcosa dalla mensa dove mangiamo noi...
Cosa non si fa per aiutare un compañero! Comunque non avrei avuto problemi a spendere
qualche dollaro per mangiare, ma mi sembrava scortese rifiutare la sua offerta.
Purtroppo però torna a mani vuote, scusandosi perché non è riuscita a trovare niente dato che in
mensa non c’è nessuno.
Poco dopo si congedano, ci salutiamo e mi fanno tanti auguri.
Il tempo continua a trascorrere lentamente, molto lentamente: le ore sono interminabili e mi
sembra che la sera non arrivi mai.
Vado nell’unico bar a mangiare un panino e scambio qualche parola col barista. Esco in strada
dove ci sono alcuni chioschetti che vendono souvenir, libri e giornali: compro qualcosa da leggere,
un genere leggero... come il testo della recente “Legge sugli investimenti stranieri”... che divoro in
pochi minuti e apprendo così che se fossi stato miliardario avrei potuto aprire un’attività in proprio,
assumere dipendenti locali pagandoli quasi niente e portarmi via gli utili di esercizio Ma siccome io
non sono miliardario ora capisco perché la mia presenza in questo paese è abbastanza indifferente
per lo stato cubano. Ritorno nel salone d’attesa e mi accorgo che la mia borsa non ha il talloncino
con il mio nome e cognome, così ne prendo uno dallo stand di una compagnia aerea canadese, lo
compilo e lo applico.
Finalmente si apre il check-in per il mio volo. Mi metto in coda. Gli altri viaggiatori sono tutti
italiani: alcuni in bermuda, altri in tenuta sportiva, tutti abbronzati come dei peperoni, faccia
standard con sorriso a sessantaquattro denti, borse cariche di “souvenir” come sigari e rum. Certi
gruppi si intrattengono fino all’ultimo con il coordinatore cubano del loro villaggio turistico, dove
hanno trascorso gran parte della loro vacanza immersi nel paradiso dei cinque sensi. I discorsi che
sento sono tutti uguali: raccontano di mare, spiaggie, donne, treccine, danze, vestiti, regali,
discoteche, soldi, auto, tiendas, cene; sembra che abbiano visto e fatto un sacco di cose, ma
analizzando i loro racconti mi accorgo che manca qualcosa: oltre al loro accompagnatore, infatti,
sembra che non abbiano conosciuto e visto nessun altro essere umano cubano. Allora mi guardo e
mi chiedo se non ho per caso sbagliato aeroporto: sto veramente a Cuba?
Giunge il mio turno e sono l’ultimo della mia fila. Ma mentre consegno passaporto, biglietto e
borsa alla ragazza del banco il mio sesto senso mi indica che sulla destra due occhi mi stanno
osservando da una distanza compresa tra tre e quattro metri. Mi giro con indifferenza (fischiettare,
in questi casi, è sempre un’ottima precauzione!) e scopro un agente della dogana, appoggiato con
fare indifferente al banco, che mi guarda celando malamente un sorrisetto che sa di sfida, del tipo:
“Adesso che passi nella zona doganale vedremo un po’ cosa trasporti nel tuo bagaglio a mano...”.
Il mio sguardo, invece, celava malamente un’espressione del tipo: “Beh? Che cazzo guardi?” e sono
sicuro che non l’ha capita perché ho evitato accuratamente di fargliela in lingua spagnola.
Passo dunque nella coda successiva, che è quella del controllo passaporti. Dopo circa mezz’ora,
durante la quale mi devo ancora una volta sorbire i discorsi noiosi dei turisti italiani all-inclusive,
arriva il mio turno. Consegno i documenti. Tutto bene: l’agente, che deduce dal mio passaporto che
sono un residente, mi chiede dove abito.
- Niquero. - gli dico.
- Ah, io sono di Manzanillo! - e gli si illuminano gli occhi come se avesse reincontrato un suo
lontano parente. Mi saluta con un sorriso fraterno, come se ci conoscessimo da tanti anni, mi augura
buon viaggio e passo avanti.
Ora resta solo più da fare la radiografia del bagaglio a mano e poi ho finito. Praticamente sono
già sull’aereo. Metto lo zainetto e la borsa fotografica sui rulli e li recupero subito dopo. Ma mentre
mi sto voltando per andare via una voce mi chiama:
- Signore! Può passare da questa parte, per favore?
E’ un agente della dogana che tiene in mano una borsa nera, quasi come la mia....Ma.. È LA
MIA!!! E lui...è...è il tipo di prima, quello che stava nel salone del check-in!
- Questa è la sua borsa? - mi chiede.
- Sì - rispondo, con la poca voce che mi è rimasta dopo lo choc. Ma come avrà fatto ad
impossessarsi della mia borsa? Magia, telecinesi o trasposizione della materia? Deduco, quindi, che
da parecchio tempo ero sotto osservazione: chissà dove stavano le telecamere che mi riprendevano
da stamattina? O forse avevano delle “talpe”? Per esempio, chi era veramente il tipo che mi ha dato
il passaggio in auto? E le due donne? Erano forse delle agenti segrete? E il barista? Mistero.
- Venga da questa parte. Non si preoccupi: è un semplice controllo formale.
Ecco le solite parole: un Semplice Controllo Formale. Se mi avessero detto: “Venga da questa
parte. Non si preoccupi: la sodomizzeremo con una mazza da baseball, le estrarremo due molari a
caso senza anestesia e la obbligheremo a vedere un film di Zeffirelli.” mi sarei agitato di meno.
Invece, il Semplice Controllo Formale ha sempre qualcosa di angoscioso: mi vedo già come
Alberto Sordi in “Detenuto in attesa di giudizio”, con Maribel che supplica le autorità di liberarmi:
- Vi prego, liberatelo! È vero, si mette le dita nel naso e bestemmia in endecasillabi, ma è un
bravo ragazzo e non farebbe male a una mosca!
Seguo quindi l’agente e il suo collega che mi portano in uno stanzino, quello che si vede sempre
nei film di spionaggio, e lì comincia quello che definirlo un Semplice Controllo Formale sarebbe un
eufemismo.
- Può aprire la borsa, per favore?
Apro e resto a guardare. Ma anche loro restano a guardare, così uno dei due rompe il ghiaccio:
- Bisogna tirare fuori tutta la roba...- dice in modo da invitarmi a farlo. L’altro, intanto, si siede e
mi controlla il passaporto:
- Lei è residente qui a Cuba?
- Sì.
- E come mai?
- Beh, sono sposato con una cubana.
- E dov’è adesso sua moglie?
- È rimasta a casa.
- Lei parte per l’Italia e sua moglie non viene all’aeroporto per salutarla? - dice con tono
fortemente dubitativo.
- Sì, ma noi abitiamo a Niquero... (caspita! Speriamo che sappia dove si trova Niquero!) ... e il
viaggio è problematico...sapete, vero?
- Sì, però sarebbe potuta venire con Lei, no? - accentua il tono inquisitorio.
Incredibile! Sembra che le mie risposte non gli piacciano.
- Guardi, il biglietto del treno costa caro ed era inutile che mia moglie venisse qui a perdere
tempo e denaro.
Forse questa volta ho risposto esattamente. E infatti si passa alla prossima domanda:
- E Lei che cosa fa qui a Cuba?
- Ehm, io...sono analista e programmatore informatico e... lavoro nel Centro di Calcolo di
Niquero - bluffo tremendamente, dato che in realtà al Centro di Calcolo non mi hanno mai assunto,
ma confido nel fatto che tanto lui non potrà mai verificarlo in un tempo ragionevole, diciamo...
considerando lo stato delle linee telefoniche... entro due o tre ore. Ed io, per allora, starò già
sorvolando l’Atlantico. Spero.
- Quanto guadagna? - domanda-chiave per vedere se mento.
- Duecentocinquanta pesos.
La risposta pare soddisfarlo.
- Sua moglie come si chiama?
- Maria Isabel Polanco Peregrino.
- E dove lavora? - mentre mi fa le domande prende nota di tutto su un foglio.
- All’Assessorato alla Cultura. È Responsabile del Personale.
Fa una pausa, poi riprende:
- E dov’è adesso?
Un’altra volta? Ma se ho già risposto esattamente poco fa!
- Gliel’ho già detto. A casa.
- Di solito le mogli accompagnano i mariti in viaggio, o perlomeno fino all’aeroporto...
- Be’, la mia no.
Nel frattempo l’altro sta esaminando minuziosamente tutto il mio bagaglio, compresi il tubetto
del dentifricio e gli indumenti sporchi.
- Quando è entrato a Cuba?
- Nove mesi fa.
- Ma qui sul biglietto c’è scritto che è arrivato solo tre settimane fa.
- Sì, perché venni con un volo di sola andata. Nel biglietto che Lei ha in mano, e che hanno
emesso poche settimane fa, hanno indicato una data fittizia... Non mi chieda perché... Forse per
questioni amministrative...
Intanto mi innervosivo sempre di più, perché del mio bagaglio avrei potuto giustificare qualsiasi
cosa, tranne:
a) 100 sigari comprati al mercato nero da un amico di Frank;
b) alcune decine di dischetti per computer contenenti programmi che avevo portato dall’Italia,
pensando che sarebbero serviti al Centro di Calcolo.
Avendo ormai capito di che pasta erano fatti i due agenti e dato che si stava avvicinando il
momento X, il mio sistema nervoso cominciava ad alterarsi e questa cosa fu notata:
- Si sente nervoso?
-Chi? Io? Suvvia, ma che dice... Be’, solo un po’... sa... non sono cose che capitano tutti i
giorni... farsi perquisire... - ma la pozzanghera di sudore ai miei piedi dimostrava proprio il
contrario.
- Non c’è motivo di essere nervosi - dice, ma in realtà voleva dire qualcosa come “Tanto adesso
arriviamo al doppio fondo della borsa dove tieni i cinque chili di cocaina che vorresti esportare in
Europa!” oppure “Lo so che nascondi dei microfilm di importanza strategico-militare dentro gli
obiettivi della macchina fotografica!”
- E questo cos’è? - dice sorpreso, maneggiando una scatola nera con dei fili che fuoriuscivano.
- È l’alimentatore di un registratore.
- E il registratore dov’è?
- In Italia.
- E perché ha portato a Cuba l’alimentatore e ha lasciato il registratore in Italia? - in effetti la sua
domanda, stavolta, è legittima. Ma che ci posso fare io se il registratore non ci stava più nella
valigia?
I due si consultano, poi uno esce con il mio alimentatore.
- Ma... Cosa ne fate? Il mio registratore non può funzionare senza l’alimentatore!
- Non si preoccupi: glielo restituiamo subito. Il mio collega va solo a verificarlo con i raggi X.
Poco dopo il collega ritorna:
- Ok. Tutto a posto. - e mi restituisce il prezioso e innocente apparecchio.
L’ispezione continua:
- Cosa c’è in questa busta? - Era una busta che mi aveva dato un mio amico italiano, studente
all’Università dell’Avana, da consegnare ad una sua amica in Italia.
- Ci sono dei ritagli di giornale e una musicassetta, ma non sono miei, sono di un mio amico.
- Cosa c’è registrato nella cassetta?
- Musica, suppongo. Ma come le ripeto è roba di un mio amico...
Il tipo che conduceva l’interrogatorio... pardon!... volevo dire: il tipo che conduceva il Semplice
Controllo Formale a questo punto si consulta con il collega:
- Che facciamo?
- Mah, non so. Bisognerebbe ascoltarne un pezzo... per vedere cosa contiene...
- Abbiamo un registratore?
- Prova ad andare lì nel duty free shop, chiedi se ti prestano un momento l’impianto di diffusione
sonora.
- Sì ma poi si sente in tutto l’aeroporto!
- Ma no! Abbassi il volume... E poi devi sentirne solo un pezzo....
Il collega esce con la cassetta, mentre l’altro controlla i ritagli di giornale e una lettera che gli
capita tra le mani:
- Questa lettera?
- È sempre del mio amico. Devo consegnarla in Italia...
- Non lo sa che non è permesso portare con se la corrispondenza? Per queste cose bisogna usare
il Servizio Postale. - mi ammonisce.
- Sì, se funzionasse... - rispondo.
- Come, scusi?
- Volevo dire che il servizio internazionale è molto lento... Poi a volte le lettere si perdono.
Ritorna il collega:
- Va bene. C’è solo registrata della musica.
Riprende ad estrarre effetti personali dalla mia borsa e la cosa pare ora interessarli molto, forse
perché non avevano mai visto così tante categorie merceologiche contenute in un solo bagaglio:
- Sigari? Dove li ha comprati?
- Per la strada - (questa risposta fu un ottimo suggerimento dello stesso Frank, e ha funzionato
benissimo).
- Quanto li ha pagati?
- Venti dollari.
I due agenti si guardano per qualche istante in maniera interrogativa, poi annuiscono. Meno
male! Anche i sigari sono in salvo.
Poi appare magicamente un sacchetto di plastica dove tenevo dei ricordi, come delle foto che
avevo fatto in Nicaragua e Salvador anni fa, più alcune cartoline di amici che avevo conservato e
che mi piaceva guardare di tanto in tanto.
- Ah, ma Lei si porta dietro un sacco di corrispondenza! - esclama sorpreso.
- Veramente è corrispondenza che è già arrivata a destinazione... Vede? Ci sono i timbri postali.
- E queste foto, dove le ha fatte?
Che rispondo adesso? Cosa mi invento? Decido di continuare sulla linea della “Verità a tutti
costi”:
- In Centroamerica... Ho partecipato a dei campi di lavoro... di solidarietà con i sandinisti... e il
Fronte Farabundo Martì... È parecchio tempo che collaboro... cioè... con associazioni
internazionaliste... io sono un internazionalista... - farfuglio un po’, perché farmi pubblicità da solo
non mi viene bene.
Pausa lunga. Poi uno dei due agenti improvvisamente mi chiede:
- Lei è comunista?
Se sono comunista? Mi sarei aspettato domande di qualsiasi genere, includendo anche “Quante
volte al giorno si masturba?”, ma a questa proprio non ci sarei arrivato. E poi il maccartismo non è
finito già da un bel pezzo?! Quale sarebbe poi lo scopo di questa domanda? Una statistica per
sapere quanti turisti stranieri sono comunisti e quanti no? Oppure semplice curiosità per invitarmi
poi ai festeggiamenti del 26 luglio? Non ho molto tempo per rispondere. Cosa gli dico? Gli dico la
verità, cioè “Sì”, sperando quindi che il Semplice Controllo Formale si avvii a rapida conclusione?
O gli dico: “E a voi che ve ne frega?” (naturalmente usando una versione più diplomatica). Già, ma
nelle loro grinfie hanno ancora più della metà del mio bagaglio, compresi i dischetti del computer.
Meglio non farli innervosire. Magari gli rispondo di no, tanto se dico di sì non mi crederanno mai.
Però come mi giustifico con quello che ho detto prima riguardo alle foto? No, no...meglio
continuare ancora sulla linea della verità:
- Sì, sono comunista. - Non mi era mai capitato di dover rispondere ad una domanda simile, così
senza preavviso. E infatti mi sento a disagio. Loro apparentemente non fanno una piega ma, chissà
perché, ho la netta sensazione che si stiano trattenendo a stento dallo scoppiare in una fragorosa
risata. Un leggero sorrisino sarcastico compare sulla bocca dell’agente che mi aveva posto la
domanda. Forse crede che di comunisti non ce ne siano più, al di fuori di Cuba. O forse non ce ne
sono più nemmeno a Cuba e il fatto di essersi trovato di fronte ad uno dei pochi esemplari rimasti
sulla Terra lo diverte. Spero che non mi chiedano di esibire la tessera del Partito, perché non sono
mai stato iscritto a nessun partito. Anche questa è un’anomalia difficile da giustificare: come glielo
vai a spiegare a un agente della dogana di Cuba che in Italia si può essere comunisti anche senza
essere iscritti al Partito?
Altra pausa. Le pause sono estenuanti, perché la loro durata è direttamente proporzionale
all’assurdità della domanda che ti sta per essere posta:
- È mai stato in Canada?
- In Canada? Perché sarei dovuto andare in Canada?
- Allora come mai sulla sua borsa c’è l’etichetta di una compagnia canadese?
- Ma...veramente...l’ho presa qui fuori...io...cioè...non vedo cosa ci sia di strano...
Pausa breve.
- Queste scatole cosa contengono?
- Ci sono dischetti per computer.
- E che tipo di programmi si sta portando via?
- Veramente non li sto portando via, li ho portati qui dall’Italia...per il Centro di Calcolo di
Niquero dove lavoro - dico.
Sono soddisfatti anche di questa risposta e perciò i dischetti sono salvi. Ciò che non so se si
salverà è il mio sistema nervoso centrale.
Il contenuto della borsa nera si è finalmente esaurito. Passiamo ora al bagaglio a mano. Vengono
estratti dei pezzi di giornale che mi ero portato da usare come carta igienica se per caso nel treno ne
avessi avuto bisogno. Il caso volle che quelle pagine contenessero un lungo discorso del
Comandante, ma giuro che non l’avevo fatto con nessuna intenzione oltraggiosa...
Pausa lunga.
- Cosa se ne fa di tutti questi ritagli di giornale?
- Ah, quelli? Mi servono se per caso devo andare al gabinetto...
Li guardano con aria dubbiosa.
- Voi invece con cosa vi pulite, di solito? - avrei voluto chiedere. Non vorranno mica farmi
credere che riescono a trovare la carta igienica in pieno periodo especial! E poi quella è la fine
naturale dei giornali cubani. Non c’è famiglia che nel proprio bagno non abbia i suoi bei fogli di
quotidiano appesi con un chiodo al muro. A volte alcuni parenti un po’ scaltri, quando sono in visita
a casa tua e vanno al bagno, te li rubano pure.
Intanto uno degli agenti ha trovato la busta nella quale tenevo i soldi, sia dollari che pesos.
- I pesos cubani non si possono esportare. - mi ammonisce.
- Ma mi servono per il ritorno, per pagare il treno.
- Voi stranieri dovreste pagare in dollari. I servizi pagabili in pesos sono solo per i cubani.
- Sì, ma io vivo qui! E le tariffe in dollari sono altissime...dobbiamo anche risparmiare, no?
L’agente che prendeva nota di tutto si annota anche la somma di denaro trovata.
L’ispezione del bagaglio sta per finire: un’occhiata a un flacone di Colonia, che avevo comprato
per fare un regalo a mia madre, e agli astucci della macchina fotografica. Tutto a posto.
Di solito, però, un’ispezione che si rispetti non può concludersi senza una perquisizione
personale (anche perché finora non hanno trovato niente di compromettente, ma sotto la t-shirt
potrei anche nascondere qualcosa come, per esempio, un lanciamissili terra-aria o un satellite-spia
gonfiabile).
- Ha qualcosa nelle tasche?
- Il portafoglio - rispondo.
- Vediamo.
Tirano fuori tutto, compresi altri soldi e alcuni biglietti da visita:
- Chi è questo Frank Puerto?
- Un mio amico de L’Avana.
- Va bene. Può rimettere tutto a posto.
La perquisizione finisce qui. Per loro sembra tutto in regola (o forse, semplicemente, ho risposto
esattamente a tutte le loro domande) così mi lasciano andare. Riassetto i bagagli e uno dei due
agenti si riprende la mia borsa nera e la riporta dove l’aveva presa, al check-in.
Esco dallo stanzino e mi sento abbastanza frustrato. Ormai qualsiasi altra cosa dovesse succedere
non mi farebbe più nessun effetto: il mio cervello si è scollegato, non pensa più a niente. Sono solo
un corpo che cammina e non vede l’ora di salire su quel benedetto aereo.
La sala d’aspetto è piena di gente, c’è un brusio incredibile che contrasta con il silenzio di poco
fa, c’è un trio musicale che intrattiene i turisti cantando “Guantanamera” e “Arrivederci Roma” (mi
sfugge il nesso...sarà che la maggior parte dei turisti in partenza sono italiani... Allora se erano
svizzeri che cosa gli cantavano, “Lugano addio”? ).
Vado verso il bar, con l’intenzione di ordinare qualcosa di veramente forte, per tentare
dimenticare ciò che è accaduto nell’ultima mezz’ora. Cosa c’è di meglio che affogare tutto in un
buon bicchiere d’alcol? Guardo gli scaffali dove c’è di tutto: whisky scozzese e bourbon, rum,
tequila, cointreau e porto. Ho solo l’imbarazzo della scelta. Si avvicina il cameriere e mi chiede:
- Desidera, signore?
Esito un momento, poi sommessamente dico:
- Una birra. Piccola.
L’arrivo in Italia dopo nove mesi è impressionante. Quando salgo sul pullman che dall’aeroporto
mi porta alla stazione del treno mi sembra di essere entrato in un’astronave e l’autostrada somiglia
ad un videogame. Nove mesi a volte sembrano nove anni.
Arrivo a casa dove mia mia madre mi sta aspettando ansiosa:
- Ciao, mamma. Sono tornato!
- Oh, tesoro, come stai? Guarda come sei magro!
- Veramente sono sempre uguale...
- Eh no, ti vedo io che sei più pallido... Ma mangiavi là?
- Senti, volevo dirti... che io e Maribel abbiamo deciso di venire a vivere qui in Italia.
- Oh, davvero? Come sono contenta!
- Ah, dimenticavo. Ti ho portato un regalino.
Vado ad aprire la borsa per prendere il flacone di Colonia e... non c’è più!
- Me l’hanno fottuto! Incredibile! Me l’hanno fottuto! Che stronzi! - esclamo arrabbiato.
- Cosa? Chi?
- Mi dispiace: ti avevo portato un flacone di Colonia ma qualcuno me l’ha rubato dalla borsa!
- Va be’, non ti preoccupare, fa lo stesso. Cosa ti preparo da mangiare? Sarai affamato!
Successivamente mi sono messo a riflettere su questa simpatica esperienza appena raccontata.
Avrei voluto trovare la risposta a molte domande, ma sinceramente non ci sono risucito. In
compenso ho potuto trarre alcuni insegnamenti. In realtà sarebbero parecchi, quindi mi limiterò a
enunciare solo i tre più importanti:
1) non giungete mai all’aeroporto con un anticipo superiore alle otto ore, in quanto potreste dare
nell’occhio. All’uopo ricordate anche che chi non viaggia in un gruppo numeroso (dove per
numeroso si intende due o più persone) farebbe bene a fingere di far parte di uno di essi, per
esempio aggregandosi ad una conversazione o chiamando qualcuno ad alta voce;
2) non date troppa confidenza agli estranei che incontrate nei dintorni dell’aeroporto; un
semplice barista o un’innocente donna delle pulizie potrebbero nascondere in realtà il capo dei
servizi segreti in uno dei suoi migliori travestimenti;
3) se volete fare un regalo a vostra madre non pensate ad una Colonia o a qualcosa del genere,
poiché potreste “perderla” durante il viaggio; meglio scegliere dei buoni sigari, magari comprati al
mercato nero, e sarete sicuri che arriveranno a destinazione.
02/06/2009 10:17
 
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Post: 1.229
E' un tipo molto ironico e sarcastico.

Invidio la sua titanica pazienza x sopportare tutto ciò.

Se deciderà di dare un titola a questa sua esperienza, gli consiglio "L'Odissea" [SM=x1465775]
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º¤ø,¸¸,ø¤º°'°º¤ø,¸¸,ø¤º°'°º¤ø
lo que digo es lo que pienso
lo que pienso es lo que siento
º¤ø,¸¸,ø¤º°'°º¤ø,¸¸,ø¤º°'°º¤ø



02/06/2009 11:34
 
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Re:
el mono loco, 02/06/2009 10.17:

E' un tipo molto ironico e sarcastico.

Invidio la sua titanica pazienza x sopportare tutto ciò.

Se deciderà di dare un titola a questa sua esperienza, gli consiglio "L'Odissea" [SM=x1465775]



Oggi le cose sono un pelino piu' semplici,all'epoca eravamo noi yumas una sorta di marziani sconosciuti...


02/06/2009 23:42
 
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Niquero-Manzanillo-Bayamo-Manzanillo-Bayamo-Habana-Manzanillo-Niquero-Manzanillo-
Bayamo…


Quel mese di agosto in cui rimasi in Italia in “vacanza” dovetti fare un giro al Consolato di Cuba
a Milano per prorogare il mio permesso di viaggio; cioè, siccome ero residente a Cuba mi avevano
gentilmente concesso 30 giorni per stare in Italia e se intendevo prolungare il soggiorno dovevo
prorogare il permesso, dietro pagamento di 57 mila lire per ogni mese in più. In altre parole, per
qualche oscuro motivo dovevo pagare al governo cubano un pedaggio per stare a casa mia nel mio
paese. Mi rassegnai a questo fatto, tanto non c’era alternativa. Mi consolai del fatto che almeno
sarei riuscito a fare tutto in una giornata prendendo un treno di solito abbastanza puntuale, mentre
per fare la stessa cosa a Cuba avrei dovuto alzarmi alle 4 del mattino e probabilmente viaggiare su
un camion.
Al Consolato c’era il solito genere di clientela: ragazzi italiani che invitavano le fidanzate
cubane, ragazze cubane che rinnovavano il passaporto, altri cubani che chiedevano il permesso di
poter tornare temporaneamente nel loro paese per fare visita ai familiari dopo essere stati privati di
tale diritto per avere infranto le regole dell’emigrazione. Io credo di essere stato l’unico essere
umano che, invece, era lì per una richiesta completamente diversa e forse mai avanzata prima d’ora.
E infatti, dopo avere consegnato il mio passaporto, la segretaria di turno si recò nella stanza
adiacente e quando tornò da me disse:
- Prego, passa da questa parte: il Console ti vuole ricevere.
Il Console di Cuba a Milano vuole ricevere me? E perché mai, pensai.
- Buongiorno, Alessandro, come stai? - disse come se mi conoscesse da tempo. Si alzò e mi
strinse la mano.
- Bene grazie.
Cosa significa tutta questa confidenza? Avevo già visto alcune volte il Console in fotografia e
non mi era mai stato simpatico; e ora, vedendolo di persona, ebbi un’ulteriore conferma della mia
sensazione. Era un bianco di statura piuttosto alta e corporatura robusta, dallo sguardo severo che
mal si accompagnava col sorriso forzato, usato probabilmente per fingere una cordialità che non
possedeva.
- Così tu vivi a Cuba, Alessandro?
- Già.
- E sei sposato?
- Sì, con una cubana.
- E che cosa fai a Cuba? Lavori?
- Sì, lavoro al Centro di Calcolo di Niquero. - (in realtà non era vero, ma non era mica così pazzo
da andargli a raccontare tutta la mia storia!)
- Ah, interessante. E come va? Ti trovi bene?
- Sì, abbastanza bene.
- Quindi adesso sei venuto qui in vacanza...
- Eh sì, mi fermo un mese e mezzo, poi torno là - (e non gli andavo certo a dire che in realtà
avevamo già deciso di emigrare e venire a stabilirci qui in Italia!)
- Va bene, Alessandro - disse sedendosi per firmare la proroga sul mio passaporto - Fai buon
viaggio!
- Grazie. - dissi e me ne andai.
Non so se lui si avesse creduto alle mie risposte e pensai comunque che in realtà sapesse di me
più di quanto mi facesse credere. Ma l’importante era avere ottenuto la proroga del soggiorno.
I quarantacinque giorni in Italia trascorsero tranquilli e sereni. Riuscii anche a lavorare per
qualche settimana e a guadagnare un po’ di soldi. Una sera uscii con degli amici e andai a vedere
uno straordinario concerto di “John Lurie and The Lounge Lizards”, preceduto da Vinicio
Capossela: due fuoriclasse in un colpo solo e al prezzo di uno. Mica male.
L’unico turbamento fu quello di farmi mandare da Cuba via fax la fotocopia del passaporto di
Maribel: me l’ero dimenticata e serviva per preparare i documenti per farla venire in Italia. Ci
riuscii solo dopo tre giornate di tentativi: il primo giorno il fax del Museo di Niquero dove lei si era
recata non funzionava perché c’era un apagón. Ci demmo appuntamento qualche giorno dopo, ma
dopo diverse chiamate fatte da me non riuscivamo a trasmettere nulla: prima il fax non partiva, poi
la linea cadeva. Riprovammo alcuni giorni dopo, questa volta però stabilimmo che doveva essere lei
a chiamare (a carico del destinatario, ovviamente, perché da Cuba non era possibile fare
diversamente): ci vollero ben sei chiamate perché cadeva sempre la comunicazione, ma alla fine
riuscii ad ottenere dei fogli leggibili, a parte la fotografia che era completamente nera... Tutto
questo lavoro mi venne fatturato dall’azienda telefonica per la “modica” cifra di 400.000 lire, Iva
inclusa. Praticamente mi sarebbe costato meno e avrebbe fatto più in fretta un corriere espresso
internazionale... se solo i corrieri espressi internazionali sapessero dove si trova Niquero.
Alla fine di agosto ero nuovamente a Cuba. C’erano ulteriori formalità da sbrigare prima del
nostro viaggio per l’Italia che avevamo pianificato per novembre. Mancavano quindi ancora tre
mesi circa e sembravano abbondanti, ma non lo erano affatto, perché bastava un piccolo intoppo per
farci perdere una settimana in spostamenti non preventivati tra Niquero, Manzanillo, Bayamo e
anche L’Avana.
A Manzanillo, la cittadina più importante nel raggio di sessanta chilometri, c’era l’”Ufficio
Stranieri e Immigrazione”. Anche a Niquero c’era l’”Ufficio Stranieri e Immigrazione” ma di fatto
non serviva a niente dato che di stranieri residenti non ce n’erano molti, così era sempre chiuso;
solo saltuariamente mandavano da Manzanillo un agente di polizia a presidiare l’ufficio, ma non si
poteva sbrigare nessun tipo di pratica. Per queste cose bisognava andare almeno fino a Manzanillo e
a volte nemmeno lì avevano l’autorità per certe cose, così in quei casi occorreva andare sessanta
chilometri oltre, fino a Bayamo, il capoluogo della provincia Granma.
L’attività di sbrigare pratiche burocratiche sarebbe molto remunerativa, se qualcuno decidesse di
pagarti per questo. Invece di solito il denaro io lo perdevo in marche da bollo e biglietti
dell’autobus, anzi del camion, dato che di pullman tra Niquero e Manzanillo non ce n’era nemmeno
l’ombra e quindi dovevamo prendere un passaggio con los amarillos, quegli agenti del traffico
vestiti con la caratteristica uniforme di colore giallo ocra. Questi sostavano in alcuni punti strategici
e fermavano i mezzi statali (di solito camion, appunto) e vi facevano salire un certo numero di
persone che erano in coda da ore: era un modo come un altro per surrogare la mancanza di mezzi di
trasporto pubblici. Solo che ogni volta che salivo sul cassone di un camion mi veniva un po’ di
angoscia al pensare cosa sarebbe successo, in caso di incidente, a tutti quelli che eravamo lì sopra:
avrei voluto essere credente, per poter recitare una preghiera ogni volta. Un po’ di spirito
d’avventura ci vuole, è vero, ma vorresti anche un po’ di tempo per prepararti psicologicamente.
Insomma, puoi anche decidere di andare in cima all’Everest senza bombole d’ossigeno, oppure di
attraversare il circolo polare artico a piedi, ci puoi anche riuscire e scopri anche che ti è piaciuto un
sacco, se ti sei preparato prima. Ma quando sei alla fermata dell’autobus e aspetti un veicolo con
una cabina, con dei sedili su cui sederti comodamente all’ombra e dei finestrini dai quali entra una
brezza tropicale, ma comunque rinfrescante, e arriva invece un camion sul quale viaggerai in piedi
per due ore, sotto il sole tropicale d’agosto, respirando polvere e monossido di carbonio, ti viene
voglia di piangere.
Perdevo parecchi soldi in burocrazia, ma non solo: perdevo anche molto tempo e salute, se si
considera lo stress causato da snervanti attese e informazioni incomplete, errate o mendaci che ci
venivano date certe volte. Come quella volta, alcuni mesi addietro…
Dovemmo andare a Manzanillo per presentare la mia richiesta del permesso di uscita per
andare in vacanza in Italia. Naturalmente, quando qualche giorno prima avevamo telefonato per
sapere cosa serviva, avevano trascurato un sottile dettaglio e cioè che dovevo portare due foto
tessera. Tutto sommato meglio così: era più facile (relativamente!) trovare un fotografo a
Manzanillo piuttosto che a Niquero.
Camminavamo, io e Maribel, per le strade della città alla ricerca di un fotografo e non fu
difficile trovare dopo pochi isolati un negozio di quelli statali che fornivano, in dollari, la
possibilità di fare delle foto tessera immediate, oltre a vendere e sviluppare i rullini. L’aspetto
esteriore dei negozi che lavoravano con la valuta straniera si notvaa subito per la particolare cura
della vetrina, corredata di scritte luminose e varie pubblicità di note marche di fama mondiale. E
quando vi si entrava anche l’impatto interiore non era da meno: scaffali e vetrinette di tipo
moderno esponevano prodotti che non si vendevano da nessun’altra parte. Tutto questo dava al
potenziale cliente un’impressione rassicurante sul fatto che la qualità e l’efficienza del servizio non
avrebbero tardato a farsi sentire. Peccato, però, che (come spesso accadeva) ci fosse sempre una
persona sbagliata nel posto giusto a capovolgere il senso delle cose. Entrammo quindi nel negozio.
C’era un cliente che aveva appena terminato e stava uscendo. Dall’altra parte del banco stava un
commesso, seduto, sistemando nella cassa i soldi che gli aveva dato il cliente. Io attesi il mio turno,
cioè intendo dire che attesi che lui sollevasse gli occhi per guardarmi in faccia e mi chiedesse cosa
desideravo. Invece il tizio continuava tranquillamente a farsi gli affari suoi e a chiacchierare con
un altro nullafacente seduto al suo lato. Così dovetti “disturbare” il loro lavoro per farmi
ascoltare:
- Scusi! Senta! Fate le foto tessera? – dissi.
Il tizio alzò lo sguardo da idiota, come se fosse stupito che un cliente fosse entrato nel negozio.
- Sì. – rispose laconicamente. Poi si voltò verso l’amico e continuò a parlare con lui.
- E quanto costano? – (dovevo tirargli fuori le parole di bocca?)
- Un dollaro l’una.
- Quanto tempo ci vuole? – domandai, per sapere se nel frattempo potevamo andare a
mangiare un panino e bere una birra.
- Due giorni.
- Due giorni?!?! Ma non sono a sviluppo istantaneo?!? – dissi sbigottito.
- No, le facciamo adesso, poi venga a ritirarle dopodomani. – disse con estrema naturalezza.
Mi girai verso Maribel irritato e uscimmo da quel luogo inutile.
- Due giorni! – ripetevo tra me – Figurati dove trovo un altro posto che faccia le foto in meno
di due giorni!
Sul marciapiedi appena fuori dal negozio trovammo il cliente che poco prima avevamo visto
all’interno e che aveva sentito i nostri dialoghi.
- Guardi, questi tipi qui sono impossibili! – disse quasi sottovoce, per non farsi sentire – Non
servono a niente! Lei cosa deve fare? – mi chiese.
- Delle foto tessera.
Pensò un momento, poi mi disse, sempre a mezza voce, come se mi stesse confidando un grande
segreto e temesse di essere ascoltato da qualcuno:
- Qui, dietro questa via, c’è un fotografo privato. Non costa molto e lavora bene. Provi da
lui!
- Va bene! Grazie!
Andammo nella direzione da lui indicata e trovammo, al piano terreno di una casa coi muri
scrostati, la sede di un fotografo privato.
- Buongiorno – dissi – Abita qui il fotografo?
- Sì sono io – rispose il tizio che ci venne incontro – Cosa desidera? – disse con tono
cordiale.
- Devo fare delle foto tessera, però mi servono entro stamattina.
- Sì, non c’è problema. Però mi ci vuole una mezz’ora, quarantacinque minuti – disse
rammaricato, come per scusarsi del fatto che non poteva fare più veloce.
- Va bene, va benissimo! – dissi sorpreso.
Finalmente avevamo trovato il tipo giusto. Lo studio fotografico era ricavato nell’abitazione, o
meglio, era l’abitazione stessa che serviva da sala di posa. Nel salotto, infatti, una parete (scrostata
come quella all’esterno della casa) era usata come fondale; uno sgabello veniva usato per far
accomodare i soggetti e su un tavolo c’erano la macchina fotografica, il flash e altri accessori.
Intanto lui stava preparando la macchina. Poi andò nella stanza adiacente e poco dopo tornò:
- Ecco la giacca. Dovrebbe essere della sua misura. – disse porgendomi l’indumento.
La giacca? Rimasi alquanto stupito. Non gliela avevo mica chiesta.
- No, non c’è bisogno. – dissi, rifiutandola gentilmente. (Odio le foto formali.)
- No, non si possono fare le foto senza giacca e senza cravatta! – mi ammonì – Gliele
rifiuterebbero!
Pure la cravatta?!?! Roba da pazzi! In un paese dove non c’è un solo abitante maschio che
indossi la giacca e la cravatta oltre il giorno del suo matrimonio, dove nei luoghi di lavoro, nei
luoghi di culto e nelle feste anche molto importanti il massimo dell’eleganza è indossare un
camiciotto sopra i pantaloni, dove anche i ministri della repubblica compaiono in pubblico con
abbigliamento informale, mi fanno fare la foto tessera con giacca e cravatta? Ma sarei
irriconoscibile!
Per non urtare troppo la gentilezza del fotografo mi rassegnai; presi la cravatta e me la annodai
al collo (meno male che quel giorno non indossavo la T-shirt…), poi presi anche la giacca, che era
di due taglie più piccola della mia, e la indossai.
- Venga da questa parte. C’è lo specchio. – mi disse.
Mi guardai e, a parte le maniche alle quali mancavano almeno cinque centimetri, devo dire che
non ero così male come pensavo.
Mi fece tre foto, dopodiché uscimmo a fare un giro. Quando tornammo le foto erano pronte:
pagammo 15 pesos, ringraziai calorosamente il fotografo che ci salutò felice di averci aiutato e
tornammo all’Ufficio Stranieri per consegnarle.
A Manzanillo ci recammo nuovamente qualche tempo dopo, per presentare la mia richiesta di
rinuncia alla residenza. Ci eravamo dovuti alzare, come al solito, molto presto, intorno alle cinque,
per avere qualche probabilità di trovare un mezzo di trasporto. Ci incamminammo a piedi verso la
terminal degli autobus di Niquero; era ancora buio e per la strada principale non c’era quasi
nessuno, esattamente come la sera dopo le nove nei giorni in cui in TV c’è la novela. Anche alla
terminal non c’era nessuno, solo un’impiegata con il compito di distribuire dei bigliettini numerati,
per evitare che i viaggiatori creassero dei tafferugli nel momento in cui fosse arrivato un mezzo di
trasporto. A noi diede il numero uno. Non passò molto tempo e arrivò altra gente. Dopo nemmeno
un’ora eravamo già una ventina di persone, ma io e Maribel non avevamo di che preoccuparci, con
il numero uno in mano. Così stavamo tranquillamente seduti sulle poltroncine. Anche gli altri,
ognuno col proprio numero, stavano tranquillamente seduti poiché non c’era motivo di stare in piedi
a fare la fila. Fantastico, pensai, finalmente non devo litigare affinché i soliti furbi non mi passino
davanti e non devo nemmeno farmi comprimere come una sardina tra queste due grassone con i
pantaloni di lycra sedute qui dietro. Ma quando da una porticina comparve un tizio dicendo “Per
Manzanillo da questa parte!” tutti si alzarono di corsa e si precipitarono verso di lui gridando
“Permesso! Permesso!”, “Compañera, non spinga!”, “Senta, io ero prima di lei!”. Anche Maribel,
d’istinto, si alzò e corse verso la folla:
- Dài, sbrigati! - mi disse.
- Ma scusa, che fretta c’è? Abbiamo i bigliettini numerati!
Ma ormai capii che per riuscire a varcare la soglia della porticina dovevo anche questa volta
farmi comprimere tra le due grassone con la lycra.
- Scusi, lei che numero ha? - chiesi ad una signora che spingeva più degli altri.
- Ventitré.
- E allora perché non si sposta e non lascia passare gli altri?
A colpi di “Permesso!” riuscii ad arrivare alla porta, dove un’altra donna ci impediva il
passaggio:
- Permesso! Scusi, dobbiamo passare! - le dissi.
- Sì, ma io ho il numero sei! - rispose lei con tono deciso.
- Embé? Io ho il numero uno
Rimase stupita del fatto straordinario che prima del numero sei ci fosse un altro numero. Non
vidi la faccia che fece quando scoprì che anche quelli con i numeri due, tre, quattro e cinque
avevano diritto a passarle davanti. Probabilmente svenne.
Alla fine, strisciando come delle anguille, potemmo oltrepassare la porticina, proprio quando il
tizio annunciò “Passino i numeri dall’uno al venti!” e salimmo su un autobus che aveva visto tempi
migliori.
Giunti all’Ufficio Stranieri di Manzanillo facemmo una breve coda, consegnammo i documenti e
tornammo a casa. In pratica, impiegammo diverse ore per una questione di pochi minuti.
Una sera decidemmo, io e Maribel, di uscire per andare al “Nocturno”, una sorta di “night”, un
locale per innamorati dove mettevano musica mielosa, dove le luci erano cosi fioche che non
riuscivi nemmeno a vederti le mani e dove il condizionatore d’aria era bloccato sulla posizione
massima probabilmente da un quinquennio, a giudicare dalla temperatura che trovavi e che
rischiava di farti venire una polmonite appena entrato. Non era un locale da ballo: c’erano solo
tavoli da quattro persone ciascuno e il bar, dove servivano rum o birra e, se era la serata fortunata,
qualche salatino. Almeno questo era ciò che ricordavo di avere visto quel paio di volte che ero
riuscito ad entrarvi. Quella sera, infatti, non potemmo accedervi:
- Buonasera – dissi al tipo che presidiava l’ingresso – Possiamo entrare?
- No, mi spiace. Stasera non apriamo. Abbiamo il frigorifero rotto. Non serviamo niente.
Io e Maribel ci guardammo delusi e tornammo a casa. Ci sedemmo sulle sedie a dondolo nel
porticato di casa a chiacchierare e ammazzare zanzare.
Qualche settimana dopo andammo di nuovo all’ufficio di Inmigración di Manzanillo per
consegnare i documenti per l’espatrio di Maribel, cioè la cosiddetta Carta de Invitación e il visto
dell’ambasciata italiana, che avevamo fatto qualche giorno prima a L’Avana.
Era il primo ottobre. Arrivati a Manzanillo consegnammo i documenti di Maribel e ci sentimmo
dire dall’agente dell’Inmigración che mancava il certificato di matrimonio:
- Scusate, ma per telefono non ce l’avevate detto che serviva anche il certificato di matrimonio! –
replicammo.
- Mi spiace, ma dovete portare una copia del certificato di matrimonio - ripeté l’agente. - Tornate
domani.
Alzarsi alle cinque del mattino e fare sessanta chilometri con dei mezzi di fortuna per sentirsi
dire da qualcuno “Tornate domani” ti fa venire improvvisamente voglia di fare cose strane e
inconsuete, tipo usare il ventilatore per disperdere nel vento tutti i documenti dell’ufficio o
rovesciargli la scrivania sulla testa. Non facemmo, invece, niente di tutto questo e decidemmo di
tornare a casa. Prima però l’agente mi disse:
- Mi devi dare anche il tuo passaporto.
- Perché? – chiesi stupito.
- Avevi fatto domanda di annullamento della residenza vero?
- Sì.
- E anche richiesta di Regreso Definitivo, giusto?
- Sì.
- Dobbiamo applicarci sopra il Permesso di Uscita. Appena sarà pronto te lo consegneremo a
casa.
Lasciare il mio passaporto a Manzanillo per un tempo indeterminato in un ufficio come quello,
che cambiava gli impiegati e gli orari d’apertura in continuazione, mi faceva preoccupare parecchio.
Comunque non avevo scelta e obbedii. Sul fatto che me lo avrebbero consegnato a casa non ci avrei
scommesso una lira e misi in preventivo l’ennesimo viaggio fino qua per venire a prenderlo.
Camminando sotto il sole delle undici del mattino giungemmo fino al bivio per Niquero, dove
era situata la fermata dei pullman; non era una vera e propria terminal (in questo caso ci sarebbe
stata una biglietteria), era solo un sito all’aria aperta con delle panchine che qualche anima pia
aveva deciso di sistemare all’ombra di alcuni alberi e non c’erano nemmeno gli amarillos a gestire
il traffico. Bisognava arrangiarsi da soli. Quella strada portava solo verso Campechuela, Medialuna
e Niquero, con una deviazione verso Pilón, una sessantina di chilometri in tutto e poi basta: oltre
non c’era più niente e proprio per questo motivo era molto difficile che qualche mezzo di trasporto
decidesse di praticare quella strada. C’era parecchia gente che aspettava da chissà quanto tempo e
chissà quanto avremmo dovuto aspettare ancora. Un tale vendeva granizado aromatizzato alla
frutta: era quello che ci voleva per dissetarsi. Con una raspa d’acciaio che non aveva mai visto il
sapone grattava un blocco di ghiaccio delle dimensioni di una mortadella, faceva scivolare la
“limatura” in un cartoccio di carta e ci colava sopra lo sciroppo del gusto che avevi scelto.
Evidentemente i batteri della raspa, del ghiaccio-mortadella e quelli del cartoccio appartenevano a
razze antagoniste che si eliminavano a vicenda, giacché il granizado era veramente buono e non ci
diede mai nessun problema gastrointestinale.
Ogni tanto si fermava un automezzo, che poteva essere un autobus o un pick-up statale,
dichiarava la propria destinazione e caricava qualcuno. Peccato che nessuno si inoltrasse fino a
Niquero: si fermavano tutti prima e Maribel mi disse che non conveniva prenderli perché sennò
saremmo rimasti abbandonati in mezzo a qualche minuscolo peasino e sarebbe stato ancora più
difficile trovare un mezzo di trasporto per arrivare a casa.
Ci sedemmo sulle panchine e, nella noia e nella calura generale, assistemmo passivi alla scena di
due loschi figuri che, praticando il vecchio “gioco delle tre carte”, fregarono venti pesos ad un
povero viandante con la promessa di fargliene guadagnare altri venti se avesse indovinato dove si
trovava l’asso di cuori. Il viandante ci rimase alquanto male quando scoprì di essere stato
imbrogliato, protestava e avrebbe voluto ottenere giustizia, ma i due tipi si allontanarono
indisturbati e con calma raggiunsero il ciglio della strada dove nel frattempo un agente della polizia
si era fermato con la propria auto e si intrattenne a conversare amichevolmente con loro.
Poi, finalmente, arrivò un camion diretto a Medialuna; salimmo assieme ad altre trenta persone e
dopo un’ora circa di sole, aria e polvere arrivammo in quella cittadina, che di famoso non aveva
nulla tranne che essere la città natale di Celia Sanchez Manduley, un’eroina della rivoluzione
cubana che da queste parti tutti conoscevano e ammiravano. Quindi, giunti alla terminal di
Medialuna, cambiammo facilmente automezzo ed in meno di mezz’ora arrivammo a casa.
Il giorno dopo, 2 ottobre, tornammo dunque a Manzanillo per consegnare il certificato di
matrimonio. Solita levataccia mattutina, solito viaggio stancante:
- Va bene, ora è tutto a posto – disse l’agente di polizia – Adesso dovete aspettare l’arrivo
della carta blanca con la quale vi recherete a Bayamo per pagare i 150 dollari del permesso d’uscita
dal paese, poi tornerete qui con la ricevuta. Tu sei anche iscritta alla Federación de Mujeres
Cubanas, Juventud Comunista, Milicias, ecc…? – chiese rivolto a Maribel.
- Sì – rispose lei.
- Allora mi devi anche portare i certificati di dimissione da questi organismi.
Avevamo capito che la trafila non era ancora terminata. Come se non bastasse circa una
settimana più tardi venne a casa nostra un agente:
- C’è un avviso di comparizione per te – disse a Maribel che era andata ad aprirgli la porta.
- COSA?! Un avviso di comparizione?! E per quale faccenda? – chiese stupita.
- Non saprei. Non mi hanno detto nulla. Me l’hanno dato ieri dicendomi di consegnarvelo.
Figuratevi che io vengo da Pilón e sono partito da laggiù apposta per questo.
Maribel lesse nervosamente il foglio che ordinava, appunto, di presentarsi il giorno dopo 8
ottobre all’ufficio di polizia di Manzanillo per comunicazioni importanti. Un avviso di
comparizione è una cosa piuttosto seria e di solito significa essere implicati in qualche caso
giudiziario. Andammo a casa di un nostro parente che aveva il telefono e provammo a chiamare
l’ufficio di Manzanillo per chiedere spiegazioni, ma le condizioni delle linee telefoniche da queste
parti permettevano di utilizzare il telefono in maniera accettabile solo se chiamavi un vicino di casa
(e sarebbe bastato quindi anche solo un interfono); se pensavi di fare una chiamata intercomunale
dovevi aspettare una giornata soleggiata, senza vento e senza pioggia. Siccome, invece, quel giorno
tirava un vento forte non si riusciva a prendere la linea con Manzanillo, nemmeno dopo ripetuti
tentativi.
Così il giorno dopo ci toccò di nuovo, in meno di una settimana, un faticoso viaggio di sessanta
chilometri. Io ne avrei anche fatto a meno, ma visto com’era nervosa Maribel accettai di
accompagnarla. All’ufficio di Manzanillo un agente ci illuminò sul motivo dell’avviso:
- Ti abbiamo convocata perché dobbiamo darti questo documento da consegnare all’ufficio di
polizia di Niquero.
- E ci avete fatto venire fin qua solo per questo? Non potevate mandarlo voi direttamente là?
- Mi spiace, è la prassi. E’ un documento che deve portare Maribel personalmente.
Mi pentii di non aver usato il ventilatore la volta prima per sparare in aria tutti i documenti
dell’ufficio. Se uno si mettesse ad analizzare fatti di questo tipo o diventerebbe pazzo o
diventerebbe pregiudicato, dato che risulterebbe piuttosto difficile resistere alla tentazione di
proferire parole alquanto oltraggianti a chi si era inventato tutta questa complicazione dell’avviso di
comparizione: avevano mobilitato un agente di Pilón per andare a Manzanillo a prendere un avviso
da consegnare a Niquero a Maribel che doveva andare a Manzanillo a prendere un documento da
portare a Niquero. Cos’era? La versione caraibica di “Giochi Senza Frontiere”?
Un sabato sera, dopo cena, ci preparammo per andare al “Nocturno” a bere qualcosa. Siccome lì
si pagava in moneta nazionale, anziché in dollari, era più conveniente che comprare birra o rum al
supermercato. Non avevo entrate e ogni spesa, anche la più piccola, andava misurata oculatamente,
tanto più che qualche imprevisto saltava sempre fuori: viaggi a Manzanillo o a Bayamo, marche da
bollo, ecc…
Come noto le donne ci mettono sempre parecchio tempo per vestirsi e truccarsi, così nel
frattempo stavo seduto sulla sedia a dondolo nel porticato, respirando aria fresca e ammazzando le
zanzare che volavano intorno alla mia testa. Dalle finestre delle case filtrava la luce dei neon che si
rifletteva sui marciapiedi: unica fonte di illuminazione in una notte buia e in una via dove
l’illuminazione pubblica era assente da anni. Si poteva persino sentire l’audio dei televisori
provenire dalle case dei vicini, i quali erano tutti sintonizzati sullo stesso canale, e si aveva quindi
l’impressione che provenisse in realtà dal cielo o da un impianto di diffusione sonora di dimensioni
colossali.
Finalmente, dopo circa venti minuti, Maribel mi raggiunse:
- Andiamo – disse.
Salutammo sua madre che restava a casa a guardare la televisione con sua sorella e la nipote.
Camminavamo lungo la strada principale di Niquero e passando di casa in casa era possibile seguire
comodamente i dialoghi del film che stavano dando in TV. Come ogni sera non c’erano molti
passanti: qualcuno si soffermava sulla porta della casa di un amico e dava un’occhiata alla
televisione; altri andavano in bicicletta senza luci; qualche massaia in ciabatte e bigodini rientrava
in casa col figlioletto in braccio che si era addormentato.
Dopo qualche isolato giungemmo nel quartiere dove c’era il “Nocturno”. L’oscurità era più
accentuata che dieci metri più indietro e intuimmo che quella sera proprio lì c’era un apagón:
- Buonasera – dissi al tipo che presidiava l’ingresso – Possiamo entrare?
- No, mi spiace. Stasera non apriamo. C’è l’apagón. Non serviamo niente.
Io e Maribel ci guardammo delusi e tornammo a casa ripercorrendo la stessa strada dell’andata.
Ci mettemmo abiti più comodi e ci sedemmo sulle sedie a dondolo nel porticato a chiacchierare e ad
ammazzare zanzare.
Passavano i giorni e temevamo sempre che qualche pessima novità comparisse sulla soglia di
casa nostra nelle vesti di un agente di polizia venuto dallo spazio e che ci ordinasse di andare su
Marte a ritirare importanti documenti…
Circa quindici giorni più tardi venne a casa nostra uno degli agenti che ormai conoscevamo,
quello che assomigliava al sergente Garcia della serie di telefilm “Zorro”: questa volta portava una
notizia buona e una cattiva. Quella buona era che il mio passaporto era pronto e (incredibile!) me lo
aveva portato con le sue mani. Me lo consegnò e gli restituii (a dire il vero con un pizzico di
malinconia) la mia carta d’identità cubana. La notizia cattiva era che nella cartolina che consegnò a
Maribel per presentarsi a Bayamo a pagare i 150 dollari del permesso d’uscita c’era anche scritto, in
una minuscola nota sul retro, che avrebbe dovuto sottoporsi ad una visita medica obbligatoria del
costo di 400 dollari. Nei quindici minuti che seguirono rischiai di fratturarmi una mano quando, in
preda all’ira, tirai un violento cazzotto contro la porta d’ingresso. Quattrocento dollari da buttare in
una nuova e inattesa tassa? Mi ci vollero un paio di giorni per rassegnarmi a quest’idea e avremmo
dovuto ridurre ulteriormente le spese per poter arrivare al 19 novembre, data della partenza per
l’Italia, sperando sempre che non venisse fuori qualche altra novità.
Un mattino ci recammo a Bayamo, con i soliti mezzi di trasporto improvvisati. Siccome là
viveva Andy, una sorella di Maribel, decidemmo di prendere il viaggio con calma e di fermarci a
Bayamo due giorni.
La prima cosa che facemmo fu di recarci all’ufficio di polizia per chiedere informazioni sulla
visita medica. Per fortuna ci dissero che non era richiesta nessuna visita medica e che non
bisognava pagare quei 400 dollari: quella nota sul retro della cartolina era riferita solo ai cubani che
emigravano per gli Stati Uniti. Meno male! Avevamo risparmiato 400 dollari. Era assurdo
constatare come l’unico modo per ricevere delle buone notizie era che ti annullassero delle cattive
notizie. Il giorno dopo andammo in banca a pagare i 150 dollari e tornammo a Niquero. Ora
avevamo tutti i documenti di Maribel pronti da consegnare a Manzanillo, ultima tappa prima di
ricevere il tanto agognato permesso di uscita.
Una sera ci preparammo per andare al “Nocturno”. Avevo appena finito di ammazzare una
ventina di zanzare, Maribel aveva finalmente scelto cosa mettersi e in televisione stavano dando un
film noioso. Salutammo i soliti familiari che si trovavano a casa nostra il sabato sera (una dozzina di
persone circa) e ci incamminammo.
Un tizio che conosceva Maribel e che era al corrente di tutta l’organizzazione logistica dei locali
di Niquero (non è che fossero poi molti) ci aveva informati nel pomeriggio che al “Nocturno”
sicuramente quella sera avrebbero servito birra in bottiglia. Un fatto piuttosto raro.
- Buonasera – dissi al tipo che presidiava l’ingresso – Possiamo entrare?
- Sì, certo – rispose.
- Avete birra? – chiesi per precauzione.
- No, stasera solo rum.
- Ma ci avevano detto che stasera sicuramente c’era la birra – intervenne Maribel con
decisione.
- Sì, ma siccome al “Tropical” c’è lo show abbiamo dovuto mandare le nostre scorte là.
Il “Tropical” era l’altro cabaret del paese, quello un po’ più importante, dove si davano spettacoli
veri e propri con tanto di corpo di ballo, orchestra musicale, cantanti di musica leggera e comici in
erba. Ma quella sera non avevo voglia di vedere ballerine con le calze a rete smagliate e sentire
battute che non avrei capito e non avevo nemmeno voglia di bere rum, che mi avrebbe fatto venire
ancora più sete di quella che avevo. Anche Maribel era della stessa idea, cosi decidemmo di tornare
a casa.
Il 5 novembre andammo a Manzanillo a portare tutti i documenti richiesti: passaporto, ricevuta
del pagamento dei 150 dollari, dimissioni da Federazione delle Donne Cubane, Milizia, CDR,
Gioventù Comunista e libreta (la tessera per gli alimenti). Non fu un grande giorno per Maribel
dover rinunciare, contro la propria volontà e non si sa bene per quale motivo, all’affiliazione a
questi organismi nei quali aveva sempre creduto e militato con passione. In pratica l’obbligarono a
rendersi uguale a molti altri compatrioti che, anch’essi emigrati all’estero, di appartenere a questi
organismi invece non gliene era mai fregato niente. Come se non bastasse le chiesero anche di
restituire, inaspettatamente, la carta d’identità cubana:
- Non ti serve più; all’estero ti basta il passaporto - le disse l’agente. – Vieni a ritirarlo la
prossima settimana.
Nessuno ci aveva mai informato di questo fatto della restituzione della carta d’identità; poi in
Italia scoprimmo che praticamente tutti i cubani che vivevano là questa cosa la sapevano molto
bene, tanto che prima di uscire da Cuba si facevano fare un duplicato della carta d’identità
(fingendo di averla smarrita) e consegnavano quella vecchia. In tal modo quando tornavano a Cuba
per le vacanze potevano simulare facilmente di essere ancora residenti cubani e godere di alcuni
vantaggi, come per esempio viaggiare su treni, pullman e farsi fare certificati all’anagrafe pagando
in moneta nazionale anziché in dollari. Maribel, invece, la sua “carta d’identità” l’aveva ormai
irrimediabilmente “persa”… e non solo quella; forse aveva perso anche la sua “identità”. Come
dire: dare tutto per la rivoluzione e non ricevere in cambio nemmeno un “Grazie per essere stata con
noi tutti questi anni”.
Una sera volli provare ancora un’ultima volta l’entrata al “Nocturno”. Chissà quale sarà il
motivo dell’impedimento questa sera? pensai.
Arrivammo davanti all’ingresso, bussammo alla porta ma nessuno apriva. Guardammo in alto (il
locale era situato al primo piano), si scorgevano le leggere luci accese, si poteva anche sentire la
musica, piuttosto ovattata, segno che il locale era aperto e stava funzionando. Ma forse erano solo
fantasmi, dato che ci stancammo di bussare senza che nessuno venisse ad aprire. Attendemmo
alcuni minuti, sperando che qualche cliente uscisse, invano. Alla fine capimmo che al “Nocturno”
non saremmo entrati forse mai più.
Tornammo indietro ma prima di arrivare a casa decidemmo di provare un altro locale. L’unico
che poteva ancora essere aperto dopo le nove di sera era il “Bodegón”, una bettola sulla strada
principale, all’angolo con la Plaza del Pueblo, dove il primo maggio di ogni anno si radunava la
popolazione per assistere al comizio di qualche funzionario di partito. Il “Bodegón” era
normalmente frequentato da pochi avventori solitari: bevitori accaniti e fumatori di “Popular”. Ci
sedemmo ad uno dei tavolini, quello più illuminato dalla debole luce dell’unica lampadina esistente.
Altri tavolini erano situati nell’ombra, occupati da qualche cliente. Quella sera per fortuna c’era
birra e ne ordinammo due, finalmente. Chiacchierammo un po’, io terminai rapidamente la mia birra
e ne ordinai un’altra. Uno dei clienti sputò per terra, su un pavimento che non mostrava differenze
particolari tra prima e dopo lo sputo. Ogni tanto entrava un nuovo cliente e si soffermava in piedi al
banco per comprare le sigarette oppure per bere rapidamente un bicchierino di rum. Nessuno faceva
caso a noi, nemmeno il barista. Non rimanemmo lì più di una mezz’ora, poi andammo a casa.
L’ultima volta che andammo a Manzanillo fu per ritirare il passaporto di Maribel. Era tutto a
posto, avevano applicato il permesso di uscita ed eravamo giunti al termine della lunga maratona
preparatoria per l’espatrio. Mancava una settimana alla partenza; sarebbe potuto andare anche
peggio, considerando che nessuna vera catastrofe si era ancora abbattuta su di noi fino ad ora.
Maribel alternava periodi di euforia con altri di malinconia. Ci credo, dovendo andare incontro
ad un nuovo futuro che non si sapeva ancora cosa ci avrebbe riservato. Ma ormai eravamo in ballo e
bisognava ballare… anche se a me, a dire il vero, ballare non è mai piaciuto.

CONTINUA....
03/06/2009 08:45
 
Quota
Come fare la guardia del CDR e incontrare Breznev

Una sera, intorno a mezzanotte, stavo facendo la guardia con Tino. Tino era un tipo sui
sessant’anni, alto e magro, con un’espressione che ricordava molto Clarke Gable, e un cappello
tipico cubano a tese larghe, che ricordava invece Clint Eastwood, ma (a differenza di questo) per
fare la guardia non portava la pistola né nessun altro genere di arma. Fare la guardia per il CDR (il
Comitato di Difesa della Rivoluzione) significava passare un paio d’ore, tra mezzanotte e le due,
oppure tra le due e le quattro del mattino, passeggiando in tra le vie del proprio quartiere e fare in
modo che la propria presenza servisse da deterrente contro eventuali ladruncoli che intendessero
infilarsi in qualche casa. Se per caso una notte avessimo dovuto affrontare una simile evenienza e
fossimo riusciti a sventare un tentativo di furto saremmo sicuramente divenuti famosi e la
popolazione locale ci avrebbe ricoperto di onorificenze di ogni tipo, ma tutto sommato io pensavo
di essere troppo umile e modesto per meritare tutto ciò e quindi speravo sempre che le nostre due
ore di turno passassero il più in fretta possibile e con la calma più assoluta.
Spesso fu così, nel senso che di calma ce n’era anche troppa, al limite della noia. Tra l’altro Tino
non era un gran chiaccherone, e in questo ci somigliavamo; oltretutto non ci conoscevamo
nemmeno tanto bene, benché fosse il padre di una nostra parente acquisita, e quindi era ben difficile
trovare qualche argomento di conversazione. Così Tino ed io facevamo trascorrere due ore
impegnando nella conversazione sì e no cinque minuti in tutto; e in quei cinque minuti riuscivamo a
parlare di:
- fatti importanti avvenuti nell’ultimo mese a Cuba;
- congiuntura economica mondiale;
- ripercussioni sul mercato interno a causa della diminuzione del prezzo dello zucchero da
esportazione;
- tipi di zanzare e altri insetti inutili e modi per sterminarli;
- bevande alcoliche ed effetti sul metabolismo umano;
- donne.
Per fare la guardia per il CDR mi avevano arruolato d’ufficio, così come accadde a tutti gli altri
abitanti maschi del quartiere. A Niquero, cittadina dalle radici rivoluzionarie, fare la guardia per il
CDR era considerato quasi un onore, una responsabilità verso il vicinato; ma a L’Avana, e credo
anche in altre città, appartenere al CDR o, ancora peggio, fare la guardia per conto del CDR
significava appartenere sicuramente al giro di quelli “che fanno la spia” per conto del partito e che
andavano a riferire ai funzionari di turno eventuali violazioni delle “regole”, come ad esempio:
“Tizio ospita in casa sua, senza autorizzazione, dei turisti stranieri” oppure “Caio vende al mercato
nero aragoste e sigari” oppure “Sempronio si sta preparando per espatriare illegalmente” e altre cose
simili. Direi che, ovunque a Cuba, non ci sarebbe stato bisogno di inventare i CDR per questo
scopo, poiché il normale passaparola assolveva efficacemente la medesima funzione (in altre parole,
c’era sempre qualcuno che non si faceva gli affari suoi né dentro né fuori del CDR).
A Niquero il CDR esercitava né più né meno le funzioni per le quali era stato concepito e cioè,
essendo l’organizzazione di base più importante, si occupava di gestire vari aspetti di vita
quotidiana della popolazione, dalla raccolta dei rifiuti riciclabili, all’organizzazione delle feste
locali, alla donazione del sangue, agli interventi di assistenza sociale alle famiglie più povere e così
via. A me venne abbastanza naturale, vivendo a Cuba, di iscrivermi al CDR; nessuno venne mai a
ordinarmi che dovevo fare la “spia”.
La prima volta che mi mandarono l’avviso per fare la guardia arrivò a casa mia un membro del
CDR con un foglietto:
- Ale, qui c’è la convocazione per questa sera – mi disse.
Sul foglietto c’era scritto pressappoco così: “CDR n. 3, zona 4, ‘Carlos M. Cespedes’, Niquero,
si convoca il signor Alessandro a fare la guardia con Tino per il giorno 4 febbraio dalle ore 0.00 alle
ore 2.00”. Dal punto di vista prettamente formale il fatto che la convocazione fosse per il giorno 4
alle ore 0.00 faceva pensare: “Devo fare la guardia la notte tra il giorno 3 e il giorno 4, poiché se chi
ha scritto il biglietto avesse voluto dire la notte tra il giorno 4 e il giorno 5 avrebbe scritto: giorno 4
ore 24.00, oppure giorno 5 ore 0.00”. Però dato che a Cuba si usa esprimere le ore solo con le cifre
da 1 a 12 (non date appuntamenti alle ore 20 poiché nessuno vi capirebbe) e dato che le formalità
raramente sono rispettate, tranne quando si ha a che fare con l’Ufficio Immigrazione, si può
facilmente immaginare che la convocazione era in effetti per la notte tra il giorno 4 e il giorno 5.
Ormai avevo imparato a capire come ragionavano i cubani, quindi non mi feci cogliere in fallo e mi
presentai all’appuntamento con Tino nel giorno giusto e all’ora giusta.
Passeggiavamo per le strade poco illuminate della zona di nostra competenza, quattro isolati in
tutto, in cui a quell’ora il silenzio regnava sovrano o quasi, ad eccezione di qualche cane che al
nostro passaggio cominciava a ringhiare e poi ad abbaiare rabbioso, attirando così l’attenzione di un
altro cane due case più in là il quale a sua volta iniziava ad abbaiare anche lui e tutti e due in un
coro scoordinato risvegliavano altri cani nel raggio di cento metri e poi altri e altri ancora e in pochi
secondi in un’area di quattro ettari avevamo scatenato l’ululato incontrollato di un branco di cani
idioti che evidentemente non avevano nient’altro da fare a quell’ora della notte, esattamente come
me e Tino che facendo finta di niente continuavamo a camminare indisturbati. Il grande ululato
durava per fortuna solo un paio di minuti, poi il silenzio tornava come prima, sia perché qualche
padrone usciva in cortile a prendere a calci il suo miglior amico, sia perché anche l’intelligenza del
cane suggeriva che era meglio smettere, dato che a Niquero dopo mezzanotte anche ladri, assassini
e stupratori desideravano riposare. Così il canile a cielo aperto tornava ad essere una tranquilla
cittadina di periferia.
Dopo quella prima volta feci ancora la guardia con Tino, un mese dopo, ma questa volta dalle 2
alle 4 del mattino. Facevamo il nostro solito giro. Cercavamo di non disturbare i vicini con il nostro
chiacchiericcio, ma soprattutto cercavamo di non svegliare qualche cane. Tuttavia imparammo
presto che esistevano anche i galli, i quali, essendo parenti stretti delle galline e avendo quindi
pressappoco le loro stesse capacità intellettive, notevolmente inferiori a quelle del più stupido dei
cani, iniziavano a cantare senza nessun motivo, magari anche a distanza di due o tre minuti dal
nostro passaggio. Se già un cane che abbaia, a qualsiasi ora, rende nervosi, un gallo che canta alle
tre e un quarto del mattino mentre state dormendo tranquillamente nel vostro letto fa
immediatamente venire voglia, chissà perché, di accendere il barbecue. Inoltre scoprii che anche tra
i galli esisteva la stessa solidarietà che c’era tra i cani, per cui iniziato uno partivano tutti gli altri. Se
si considera che un gallo emette il suo gorgheggio ripetendolo almeno quattro volte a distanza di
circa dieci secondi e che poco prima che egli termini l’ultima ripetizione un altro gallo ha già
iniziato il suo ciclo canoro è facile capire che la durata totale del concerto non era inferiore al
quarto d’ora, ipotizzando che l’orchestra fosse composta di soli otto o nove elementi (ma è una
stima approssimata per difetto). Il risultato sonoro era qualcosa di veramente spaventoso per la sua
vastità: si sentivano canti di galli provenire da distanze inverosimili, forse addirittura qualche
chilometro da dove ci trovavamo noi. A differenza dei cani non c’è modo di far interrompere un
gallo che canta; è qualcosa di stranamente incomprensibile, architettato da madre natura, come il
formarsi di un uragano, o il distacco di una valanga, o il momento topico prima dell’orgasmo: è
impossibile arrestarlo, tanto meno tornare indietro. Quando un gallo inizia il suo gorgheggio non
s’interrompe neanche se lo ammazzi; e se ne fa uno ne seguiranno almeno altri tre o quattro.
In questo caso non restava che attendere la fine naturale del concerto. La notte trascorreva
tranquilla e io e Tino scambiavamo poche parole sperando che quelle due ore passassero il più in
fretta possibile per tornarcene a dormire. Niente era successo anche stavolta, avevamo incrociato
per strada solo qualche ubriaco nottambulo e un tizio in bicicletta che tornava a casa dal lavoro
straordinario notturno (o forse dall’amante, o da entrambi i posti). Nella notte fresca di marzo
salutai Tino, entrai in casa mia e mi addormentai subito.
Il mese successivo mi toccò il turno da mezzanotte alle due, però stavolta non era Tino il mio
compagno, bensì un certo Julio che nemmeno conoscevo e che abitava due case più in là della mia.
Bussai alla sua porta ma non rispose. Sbirciai dalla persiana semiaperta e intravidi una luce fioca
provenire dalla cucina e quindi immaginai che qualcuno doveva essere in casa. Lo chiamai per
nome discretamente un paio di volte, bussai ancora, ma nessuno si fece vivo. Mi decisi allora a fare
la guardia da solo, tanto ormai conoscevo benissimo il mio compito e sapevo che non sarebbe
potuto capitarmi niente di pericoloso. Giunsi in una zona molto buia, davanti a quello che una volta
era il supermercato di Niquero, ora adibito a magazzino, e nell’oscurità riconobbi la voce di uno dei
miei vicini di casa, tale Serrano, un tizio attempato, gran chiacchierone, dai modi sempre molto
ossequiosi:
- Ah, salve! – esclamò.
- Salve! – risposi.
- Sta facendo la guardia? – domandò stupito.
- Sì.
- Da solo?! Ma non è mica bello fare la guardia da solo – disse preoccupato – Come mai?
- Il mio compagno ha il sonno duro.
- Chi è il Suo compagno?
- Julio, quello che abita vicino a casa mia.
- Strano. Però a volte la gente… Sa com’è… Magari fanno finta di non sentire… Non hanno
proprio il senso della responsabilità. Vorrà dire che La accompagnerò io a fare la guardia stanotte.
Ci intrattenemmo a chiacchierare del più e del meno con un altro tale, seduto su un gradino, il
quale stava facendo la guardia al magazzino: a lui toccava stare tutta la notte lì. Serrano non si
stancava mai di parlare; io avrei anche risparmiato il fiato e probabilmente l’altro avrebbe fatto
altrettanto e se non ci fossimo stati noi a disturbarlo si sarebbe anche fatto volentieri un sonnellino.
Poco dopo Serrano decise che dovevamo andare a fare un giro di ronda. Ancora non avevo
capito cosa ci facesse lui in giro a quell’ora della notte, invece di essere a casa a dormire.
Giungemmo sulla strada principale ben illuminata e ci soffermammo alcuni istanti sul marciapiede.
- Qui finisce la nostra zona, possiamo tornare indietro – disse Serrano.
Erano ormai quasi le due. Proprio in quel momento passò di lì un tale in bicicletta.
- Salve Serrano!
- Oh, salve Breznev! – esclamò il mio compagno.
Breznev? Chi è, il segretario del PCUS? Ma non era già morto da un bel pezzo? Il tale si fermò,
aveva più o meno la mia stessa età, un tipo molto cordiale e sorridente. Salutò Serrano con una
stretta di mano e fui presentato:
- Questo è Ale, l’italiano, forse hai già sentito parlare di lui, vive qui a Niquero, è sposato con
una compagna del nostro barrio. Ale, lui è Breznev, il direttore dell’ospedale.
- Piacere. – disse stringendomi la mano.
Direttore dell’ospedale a trent’anni? Complimenti, pensai.
- Come mai in giro a quest’ora? – gli domandò Serrano.
- Ho avuto da fare in ospedale, un sacco di problemi. Guarda che ore sono!
Parlava con entusiasmo e si vedeva che era appassionato al suo lavoro. Poi si rivolse a me.
- Tu lavori al centro di calcolo, vero?
- Sì.
- Mi pareva di ricordarmi di te, ti avevo visto l’altro giorno quando sono passato di là. Senti,
devo chiederti una cosa: il gruppo di italiani che è venuto l’anno scorso qui a Niquero, e che tu
conosci bene, ha portato una donazione…farmaci, strumenti per l’ospedale, eccetera… Adesso ho
un problema: c’era anche un apparecchio elettronico per misurare la glicemia che è stato dato in uso
domiciliare a una nostra paziente, solo che non riusciamo più a farlo funzionare perché mancano
delle striscioline.
- Striscioline? – domandai stralunato, non sapendo di cosa stesse parlando.
- Sì, sono delle piccole striscioline di carta. Funziona così: la paziente deve prelevare una
goccia del suo sangue, metterla sulla striscia di carta e inserirla nell’apparecchio, il quale misura la
glicemia e fornisce il risultato del test. Però senza le striscioline penso che non ci sia altro modo di
farlo funzionare. Abbiamo il manuale d’uso, però è in italiano. Allora volevo chiederti se potevi
venire a dare un’occhiata, magari c’è scritto come farlo funzionare anche senza le strisce.
- Va bene. Quando?
- Vieni domattina in ospedale. Chiedi di me: mi chiamo Ernesto, ma qua mi conoscono tutti
come Breznev.
- D’accordo. – Ci stringemmo la mano. Poi io e Serrano, vista l’ora, tornammo ognuno a casa
propria.
Quella notte, a differenza delle altre notti noiose in cui avevo fatto la guardia, non potei dire che
non fosse successo niente di insolito: conobbi un tale che si faceva chiamare con l’altisonante
cognome di un ex-capo di stato sovietico e fui interpellato per trovare soluzione ad un complicato
problema di bioingegneria medica.
Il mattino dopo mi presentai all’ospedale “Helasio Calaña” di Niquero. Mi faceva un certo
effetto dover chiedere di un certo Breznev: pensai che mi avesse preso in giro e che adesso avrei
fatto morire dal ridere tutti i presenti. Invece la donna cui feci la domanda mi rispose seriamente:
- Sì, aspetti, ora glielo chiamo.
Breznev arrivò quasi subito. Mi salutò cordialmente e mi portò in un laboratorio dove era
custodito quell’apparecchio di cui mi aveva parlato il giorno prima.
- Vedi – disse – quest’apparecchio fa parte di una donazione che ha portato qui un gruppo di
italiani, quelli che conosci anche tu.
Era un apparecchio elettrico portatile, di dimensioni ridotte, moderno, bello da vedere,
probabilmente l’ultimo ritrovato della tecnologia; ma non poteva funzionare lì, né ora né mai,
perché aveva bisogno di materiale di consumo costituito da una banalissima strisciolina di carta di
determinate dimensioni, almeno così mi spiegò Breznev. Il gruppo di italiani che generosamente
aveva donato quello strumento forse non aveva immaginato cosa sarebbe successo quando fossero
finite le poche striscioline a disposizione. In effetti avevo conosciuto quegli italiani: facevano parte
di un’associazione di solidarietà con la quale feci il mio primo viaggio qui a Cuba. Ma non era
colpa loro se l’apparecchio ora non poteva funzionare: era colpa della tecnologia moderna che non
teneva conto di tante cose, tra le quali il fatto che un paese come questo fosse sottoposto a embargo
commerciale da più di quarant’anni, oppure che gli apagones (i black-out) fossero quotidiani e
quindi non ci fosse corrente elettrica per diverse ore al giorno.
- Qui c’è il manuale, è in italiano: vuoi provare a leggerlo? Magari ci capisci qualcosa.
Lessi il piccolo manuale, ma non trovai nessuna soluzione. Rigirammo l’apparecchio tra le mani
per un po’: a dire il vero non è che io sapessi esattamente come funzionasse e non ne avevo mai
visto uno prima d’ora. Poi notai che sulla copertina posteriore era riprodotto esattamente il disegno
della strisciolina da mettere nell’apparecchio. Così, istintivamente, proposi a Breznev di utilizzare
quell’immagine, ritagliandola, per provare a far funzionare l’apparecchio.
- Sì, sembra una buona idea – disse – Pensi che funzionerà?
- Non saprei – risposi. – Forse sarebbe meglio fare delle fotocopie, così non sciupiamo
l’originale.
- Sì, ma dove? A Niquero non ci sono fotocopiatrici.
- Sì lo so.
Mi soffermai a pensare un momento.
- Però forse so anche come ovviare a questo inconveniente.
- E come?
- Al Museo Municipale. Lì c’è un apparecchio per mandare i fax e so che può essere usato anche
per fare delle copie. Prestami il manuale: vedo se riesco a fare qualcosa.
Andai al Museo, dove mi conoscevano tutti, esposi il caso e con la collaborazione solidale dei
dipendenti non ebbi problemi a farmi prestare il fax per fare delle copie della copertina del manuale.
Tornai all’ospedale, ritagliammo le striscioline e provammo l’apparecchio. Niente da fare. Non
c’era modo di farlo funzionare. Evidentemente, nella nostra ingenuità, ignoravamo che quelle
striscioline non erano di semplice e volgare carta per scrivere ma (come scoprii molto tempo dopo)
ricoperte di uno speciale materiale reattivo. Insomma, l’apparecchio era totalmente inutilizzabile
senza le sue preziose striscioline originali.
- Peccato – disse Breznev.
- Già, sarebbe stato troppo bello – risposi.
- Senti, se posso disturbarti volevo ancora mostrarti un’altra cosa.
Mi portò in un laboratorio dove c’era un’apparecchiatura per eseguire l’elettrocardiografia.
- Vedi questo? Serve per fare l’elettrocardiogramma. Il problema è che funziona solo se
collegato a questa stampante – disse indicandomela. – La stampante è rotta e comunque anche
quando funzionava non c’era la carta per alimentarla, quindi da tempo non possiamo più fare
elettrocardiogrammi.
Ecco un altro caso impossibile, pensai. Chissà cosa rimuginava ora la mente di Breznev? La mia
curiosità fu soddisfatta quasi subito.
- Quello che io pensavo... siccome l’apparecchio non è altro che un computer... vedi qui? Esce
un cavo che va alla stampante... Allora, se il segnale che esce di qui invece di mandarlo alla
stampante lo mandiamo, dopo averlo eventualmente trattato, ad uno schermo possiamo ovviare al
problema della stampante rotta e persino al problema dell’approvigionamento della carta.
- Idea eccellente... – risposi. – Quindi si tratterebbe di capire come è fatto il segnale che esce
dall’apparecchio e va alla stampante.
- Esattamente! Guarda: qui ci sono due dischetti che servono per far funzionare l’apparecchio:
credo che su uno ci sia il programma o il sistema operativo, non so, mentre sull’altro ci sono i dati
della misurazione rilevata. Se te li presto pensi di riuscire a leggerli con il tuo computer per capirci
qualcosa?
- Va bene, dammeli. Vediamo cosa contengono. Se i dati misurati sono stati registrati in un
formato facilmente decifrabile siamo a posto: basta scrivere un programma che li interpreta e li
disegna sullo schermo nel formato voluto, esattamente come faceva la stampante.
- E’ proprio quello che mi aspettavo che mi dicessi!
- Ve bene. Tra qualche giorno ti faccio sapere.
Ci congedammo e tornai a casa dove avevo il mio computer portato dall’Italia e mi misi subito al
lavoro. Inserii il primo dischetto ma il programma contenuto non era possibile eseguirlo; inserii
l’altro dischetto, quello contenente i dati, sperando che almeno quello (che era il più importante) si
potesse utilizzare, ma andò peggio: non si riusciva nemmeno a leggerlo, probabilmente perché era
stato scritto in un formato non decifrabile dal sistema operativo del mio computer. Ci rimasi male
perché l’idea di Breznev era davvero buona. Non volendo deluderlo così facilmente ed essendomi
appassionato al caso mi misi lo stesso a scrivere un programma per visualizzare una forma d’onda
sullo schermo del monitor, con una grafica che somigliasse a quella dell’elettrocardiogramma, così
come lo ricordavo io. Se poi, un giorno, fossimo riusciti a leggere quel maledetto dischetto sarebbe
stato semplice sostituire la forma d’onda con i dati della misurazione effettuata sul paziente.
Dopo poche ore avevo già creato il “motore” principale; il giorno seguente apportai delle
modifiche e dei miglioramenti per renderlo “presentabile”. Andai finalmente a trovare di nuovo
Breznev: gli dissi che purtroppo i dischetti non erano stati utili ma che avevo preparato comunque
un prototipo di programma per visualizzare l’elettrocardiogramma sul monitor, come ipotizzava lui.
Volle vedere subito la mia invenzione, venne a casa mia e gliela mostrai: gli piacque, ma
rimanemmo entrambi con l’amaro in bocca, dato che non se ne poteva fare niente.
- Peccato per questi dischetti – disse – Vedo se riesco ad averne altri, magari da qualche
apparecchio simile in un altro ospedale...
- Prova. Magari sono solo questi che non si riescono a leggere. Chissà che non siamo più
fortunati...
Ma la fortuna non fu dalla nostra parte. Non trovammo nessun altro dischetto utile allo scopo e
l’elettrocardiografo dell’ospedale rimase inutilizzato, così come il mio prototipo. Dell’apparecchio
per la glicemia non seppi più nulla.
Feci la guardia notturna del CDR ancora qualche volta con Tino, prima di tornare
definitivamente in Italia come avevamo da tempo deciso io e Maribel.
Poi un pomeriggio di un sabato qualunque del mese di ottobre si svolse, in strada di fronte alla
casa del nostro vicino, come di consueto, la riunione periodica del nostro CDR al quale eravamo
tutti invitati a partecipare. Io quella volta non ne avevo voglia, ero troppo frustrato da una serie
interminabile di corse a Manzanillo e Bayamo che dovemmo fare per preparare i documenti per
l’emigrazione di Maribel in Italia e mi sentivo abbastanza fuori luogo a partecipare a quella
riunione. Rimasi seduto nel salotto di casa mia a leggere il giornale, mentre sentivo di sottofondo la
voce del presidente del nostro CDR che parlava ai presenti. Evidentemente, per qualche motivo, la
mia assenza fu notata e qualcuno venne a chiamarmi:
- Ale, c’è la riunione del CDR! Il presidente vorrebbe che anche tu partecipassi!
Colto da un senso di responsabilità verso i miei vicini di casa con i quali avevo sempre avuto
ottimi rapporti e che non erano certo colpevoli delle mie traversie con ambasciate, questure e uffici
d’immigrazione, posai il giornale, mi alzai e andai in strada a sedermi tra il pubblico.
Il presidente iniziò con i soliti convenevoli, poi proseguì mostrando i risultati raggiunti in certi
campi in cui la popolazione era stata coinvolta, come la raccolta differenziata dei rifiuti e
l’abbellimento delle strade del quartiere in occasione delle feste importanti, dopodiché illustrò i
prossimi compiti del CDR. Infine procedette alla consegna di alcune onorificenze:
- Quale migliore donatore di sangue del nostro CDR consegno questo diploma a Rogelio
Rodriguez!
Seguì immediatamente un applauso caloroso del pubblico. Rogelio, il venditore ambulante che
abitava di fronte a casa nostra, apparentemente burbero e qualunquista, era invece colui che più di
tutti si era prodigato nel corso dell’anno a farsi prelevare il sangue da donare: si alzò e ritirò il suo
bel certificato. Lo stavo ancora osservando con ammirazione mentre tornava a sedersi e quasi non
sentivo le parole del presidente che nel frattempo continuava:
-...e quindi come migliore guardia del CDR consegnamo questo diploma a Alessandro Pilotto...
Appena sentii pronunciare il mio nome sobbalzai sulla sedia. Colto inaspettatamente mi alzai e
con l’emozione di un bambino mi avvicinai al presidente a prendere il certificato, il quale recitava:
C.D.R.
SE OTORGA EL PRESENTE
CERTIFICADO
AL COMPAÑERO
ALESSANDRO PILOTTO
POR HABER RESULTADO
DESTACADO
EN LAS TAREAS DE LA VIGILANCIA
DURANTE EL AÑO 1996
Il mio nome e cognome erano scritti addirittura a mano in stile gotico... Non sapevo cosa dire e
meno male che non mi diedero la parola. Mi chiedevo se l’avevo meritato più per tutte quelle ore di
guardia notturna con Tino o più per l’impegno profuso con Breznev tentando di far funzionare quei
dannati apparecchi. Un applauso mi accompagnò mentre tornavo a sedermi e percepii chiaramente
che era la dimostrazione sincera d’amicizia del vicinato.
P.S.
Attualmente, vivendo in Italia, quel certificato è appeso ad una parete nell’entrata di casa; le
persone che vengono a visitarmi si soffermano a guardarlo e, a parte poche eccezioni, si dividono in
due categorie: la prima è quella degli italiani che non sanno che cos’è un CDR e cosa significhi
“DESTACADO” e quindi con seria attenzione mi chiedono spiegazioni, che io volentieri do, ma
alla fine di solito annuiscono dando la sensazione di avere capito tutto e invece non hanno capito
niente; la seconda categoria è quella dei cubani che facendosi una grossa risata e pronunciando frasi
come “Facevi lo spione, eh?!” dimostrano anch’essi di non avere capito niente.

CONTINUA...
04/06/2009 08:41
 
Quota
Estás empachado? ¡Hay que sobarte!

Un giorno di marzo decidemmo, io e Maribel, di andare a Bayamo a far visita a sua sorella. Poco
prima di partire avevo accusato dei dolori di stomaco e un po’ di nausea. La cosa strana era che
ruttavo al gusto di uovo senza aver mangiato uova quel giorno. Ad essere precisi erano diverse
settimane che non mangiavamo uova, perché con la libreta ne davano solo due o tre a testa al mese,
se andava bene. Riso e zucchero, invece, venivano distribuiti più generosamente, anche se farli
durare per tutto il mese non era mai facile. Veramente non ho mai capito come facessero a svanire
tre chili di zucchero a persona ogni mese solo per addolcire il caffé. Il riso spariva velocemente per
diversi motivi: prima di tutto perché veniva preparato tutti i giorni sia a pranzo che a cena, come
d'abitudine in un paese dove la pasta si mangia solo occasionalmente e dove il pane, in pieno
periodo especial, è razionato; poi perché la qualità scadente di questo cereale costringeva a buttarne
quasi un decimo, costituito da grani frantumati e pietrisco; infine perché ne veniva cucinato sempre
molto di più di quello che era il nostro fabbisogno quotidiano e quindi una buona parte finiva nel
secchio degli avanzi destinati al maiale. A volte toccava anche a me dedicarmi alla pulizia del riso,
prima della cottura: un'operazione per niente facile, che richiedeva doti particolari come vista acuta,
manualità, velocità e pazienza. Una volta prelevata dal sacco e rovesciata sul tavolo la quantità di
riso che si voleva preparare si dovevano infatti passare ad una analisi manuale tutti i granelli,
separandoli dalle pietruzze sempre presenti e scartando quelli frantumati, troppo piccoli per essere
di qualche utilità.
Le donne di casa erano molto abili in questo lavoro e potevano pulire in pochi minuti anche due
libbre di cereale a testa, con l'uso di una sola mano, tenendo l'altra comodamente appoggiata al
tavolo e chiaccherando tranquillamente con l'amica, la cugina, la vicina di casa che era nel
frattempo sopraggiunta. Io, invece, ero decisamente inadatto a questo ruolo: se, da un lato, scartare
una pietruzza era semplicissimo, dall'altro lato non sapevo mai come comportarmi di fronte ad ogni
chicco di riso. Non sapevo mai valutare, con sufficiente abilità, se un chicco era piccolo o grande,
se era intero o spezzato, se era pulito o sporco: il risultato era che per pulire una libbra di riso ci
mettevo almeno un'ora, causando giustamente i rimproveri della massaia di turno:
“Ale, figlio mio, sei ancora lì? Di questo passo mangeremo domani!”
“Questo riso è quasi inutilizzabile. Guarda quanto scarto!” dicevo per giustificarmi.
“Sì, ma tu scarti anche le parti buone! Tutto questo si può mangiare” esclamava, riabilitando i
chicchi che io avevo messo da parte e vanificando il mio lavoro.
Il pane veniva distribuito esclusivamente con la libreta e avevamo diritto ad un panino a testa.
Le dimensioni del panino erano quanto di più vago e incerto si potesse immaginare: benché fossero
stabilite, quasi per legge, uguali per tutti in tutto il paese, la realtà era ben diversa. A parte il fatto
che i panini che davano a Niquero erano grandi la metà di quelli che davano a L'Avana, c'era anche
una notevole differenza tra i vari panini della stessa panetteria. Nella nostra panetteria (intendo dire
quella presso cui eravamo registrati) il pane veniva distribuito verso le quattro e mezza del
pomeriggio. Ora, uno potrebbe giustamente chiedersi cosa se ne faceva del pane a quell'ora della
sera e infatti me lo sono chiesto anch'io, dato che ne avrei fatto un uso migliore a colazione e a
pranzo; ma non era a me che dovevo chiederlo, bensì a qualche burocrate del partito che,
probabilmente in un momento di distrazione, aveva deciso che in quel piano quinquennale il pane
dovesse essere distribuito a quell'ora. Oltretutto, considerando che il pane veniva preparato e
sfornato al mattino presto, si può anche facilmente immaginare quale livello di freschezza avesse
raggiunto nel momento in cui mi recavo a ritirarlo. Alla bodega alle quattro e mezza del pomeriggio
non c'era mai molta confusione, quindi ci andavo volentieri e di buon umore. Peccato che l'umore
della commessa di solito fosse opposto al mio: io entrando salutavo e chiedevo il pane, lei invece
mi guardava molto seria per alcuni istanti senza dire niente, poi si chinava per prendeva tre panini
dal sacco e li buttava sul bancone, quasi con un gesto di disprezzo. Apriva bocca solo per dirmi
quanto dovevo pagare. Porgevo la libreta affinché venisse annotato l'acquisto e prendevo i tre
panini: uno era sempre più piccolo degli altri, deforme, sgorbio, bruciacchiato e insipido:
sicuramente era quello riservato a me e che la simpatica commessa aveva premurosamente messo
da parte sin dal mattino. Salutavo (ovviamente senza essere quasi mai ricambiato) e uscivo. Il
perché del comportamento antipatico della commessa della bodega è un mistero tuttora irrisolto, al
pari del big bang e della liquefazione del sangue di San Gennaro, anche se sembra che per questi
ultimi due si sia quasi giunti ad una spiegazione definitiva.
Ma torniamo alla mia nausea e al viaggio verso Bayamo. Il pullman che avevamo deciso di
prendere (anche se sarebbe più corretto dire che era il pullman che decideva eventualmente di
prendere noi se ne aveva voglia, dato che per noi non c'era molta possibilità di scelta) aveva
inaspettatamente cambiato orario, così dovemmo tornare a casa senza aver concluso nulla. Il giorno
dopo ci recammo nuovamente alla stazione dei pullman e riuscimmo a salire su un mezzo
abbastanza decente e funzionante che ci portò fino a Bayamo.
La mia nausea era ancora lì al suo posto: il sapore di uovo marcio continuava a salirmi in gola
dallo stomaco. Quando giungemmo a casa di Andy non stavo per niente bene, anzi ero peggiorato.
Non avevo fame e quel poco che mangiavo lo vomitavo. Tuttavia sembrava che non avessi febbre e
potevo tranquillamente stare in piedi e andare in giro. Così andammo in città a fare spese e comprai
due gomme nuove per la moto di Nestor, un nostro amico di Niquero, con il quale avevo fatto un
accordo: io gli regalavo le gomme, lui poteva usare di nuovo la moto che da tempo era ferma e
inutilizzabile e in cambio me l'avrebbe prestata quando ne avessi avuto bisogno.
Il giorno dopo mi recai anche all'Ufficio Immigrazione per consegnare finalmente i documenti
che mi ero faticosamente procurato negli ultimi mesi per ottenere la residenza permanente:
mancava solo il certificato penale e mi dissero gentilmente che si sarebbero informati, nei giorni
seguenti, per vedere se si poteva farne a meno.
Intanto, oltre alla nausea, mi era venuta anche la stitichezza: avevo la pancia così gonfia che
sembrava volesse scoppiare da un momento all'altro. Maribel e Andy iniziavano a preoccuparsi
seriamente, anche perché ormai non mangiavo più nulla e siccome non sono mai stato grasso (anzi,
non sono mai stato nemmeno normale, dato che è alquanto difficile considerare normale un fisico
maschile di 54 chili per 1 metro e 78 centimetri d'altezza) secondo loro sarei sicuramente dimagrito
così rapidamente fino a scomparire quasi del tutto nel giro di pochi giorni. Io invece ero tranquillo:
mi conoscevo bene e sapevo che, quasi certamente, ero semplicemente rimasto vittima di qualche
batterio o virus intestinale che per qualche giorno mi avrebbe dato questi problemi, dopodiché si
sarebbe risolto tutto per il meglio. Mi era già capitata una cosa simile qualche anno prima, nelle
montagne del Nicaragua, a casa di alcuni contadini che non avevano né luce né acqua corrente e
dove bevevamo tutti allegramente l'acqua di quella che loro chiamavano col nome celestiale di
“sorgente”, ma che per me era l'abbreviazione di “pozza di liquido stagnante, torbido e opalino,
senza sapore e di provenienza ignota”. Ricordo che, all'apice dell'infezione intestinale che
inevitabilmente mi procurai, rimasi stitico per sette giorni, poi la mia pancia deflagrò
improvvisamente in un cesso buio e asfittico di un'associazione di agricoltori nella città di
Matagalpa dove ci eravamo recati per partecipare ad una conferenza. Quando uscii mi sentii
rinascere e provai anche molto gusto a mangiare la Pizza con l'Ananas che l'associazione di
agricoltori si era premurata di farci preparare (ma perché quando noi italiani siamo ospiti di
qualcuno all'estero dobbiamo sempre sottoporci alla tortura della pizza o degli spaghetti locali?).
I vicini di Andy non erano del mio stesso parere.
“Ale” mi disse Andy “secondo loro sei rimasto empachado, quindi hay que sobarte!”
“Che?! Cosa vuol dire?” chiesi stupito.
“ Sei rimasto empachado, cioè hai fatto un'indigestione, quindi hay que sobarte.”
“Ovvero?”
“Stasera viene uno, qui del barrio, lui è pratico di queste cose. Ti tira giù la bolita.”
“Che bolita? Di cosa state parlando?” - domandai piuttosto scettico.
“La bolita che hai dietro il polpaccio” spiegò Andy sorridendo. “Quando fai un'indigestione ti
sale su la bolita fin quasi dietro il ginocchio; ora per guarirti bisogna farla scendere con il
massaggio giusto. E fa un male...!!”.
La voce che io dovessi essere sobado si era sparsa velocemente nel barrio: Pipo, un ragazzino
che viveva nella casa accanto, quando mi vide nel pomeriggio esclamò con occhi sorridenti:
“Ale! Te van a sobar?”
“Chi? Io? No... Credo proprio di no...” risposi con esitazione.
Non ho mai capito se anche Andy e Maribel credessero a queste cose: di sicuro, però, io non ci
credevo. Tuttavia mi era stato gentilmente fatto notare che non avrei potuto sottrarmi al massaggio
del tizio che quella sera si era presentato in casa: un anziano gentile che si accomodò su una sedia
di fronte a me. Si unse le dita con un po' d'olio, prese prima la mia gamba sinistra, tastò il
polpaccio, poi la lasciò; prese la destra e annuì avendo accertato la presenza della bolita. Intorno a
noi vigilavano gli sguardi di Andy, Maribel, Pipo e qualche altro curioso. Iniziò il massaggio per
tirare giù questa bolita e fortunatamente l'operazione non si rivelò per niente dolorosa. Anzi,
provavo una tale sensazione di piacevole benessere globale che quasi quasi gli avrei chiesto di
sobarmi anche l'altra gamba. Mentre assaporavo silenziosamente il massaggio rivitalizzante,
riflettevo per conto mio sulle credenze popolari, sulla fede religiosa e sull'effetto placebo: forse
unendo tra loro queste tre cose avrei potuto dare una spiegazione al successo indiscusso della
pratica del sobar. Preferivo comunque continuare a credere che si trattasse di una comune infezione
intestinale che si sarebbe risolta da sola con i miei anticorpi o, al limite, con l'aiuto di un buon
antibiotico e lasciai che l'anziano signore continuasse il suo lavoro: tutto sommato finora non mi
aveva causato nessun dolore, né imposto alcuna pratica che andasse contro le mie volontà. Anzi,
l'operazione terminò tirandomi leggermente ogni dito del piede e siccome quella zona è per me
molto sensibile non riuscii a trattenere una risata accompagnata da un istintivo scatto sulla sedia.
Probabilmente il tizio e gli spettatori si chiedevano per quale motivo io stessi reagendo in quel
modo ad un'operazione che normalmente dovrebbe causare dolori sovrumani...
Infine il tizio si rivolse ad Andy e le disse:
“Preparami un bicchiere di acqua e sale”.
“A cosa serve?” chiesi incuriosito.
“Devi berla”
Cos'è? Uno scherzo? pensai. Se mi fate bere acqua e sale, come minimo potrei vomitare. Dato
però che il mio stomaco era praticamente vuoto dal giorno prima era più probabile che gli effetti
della soluzione si sarebbero fatti sentire un po' più in basso, diciamo verso l'intestino.
Il tizio prese il bicchiere con una mano, ci fece sopra degli strani gesti con l'altra mano,
pronunciando a bassa voce qualcosa che non riuscii a capire, e me lo pose:
“Bevila tutta d'un sorso”.
Per un istante non sapevo cosa fare. Guardai il tizio, guardai il bicchiere, poi sentii addosso a me
gli sguardi di tutti gli altri in trepidante attesa: non mi potevo più tirare indietro e non potevo certo
mettermi a discutere in quel momento dell'efficacia o meno del sobar e degli effetti dell'acqua
salata nel mio apparato digerente. Ingoiai l'infelice intruglio, immaginando che mi avrebbe atteso
una notte per niente facile.
Il tizio se ne andò senza nulla volere in cambio e lo ringraziai: non so bene di cosa lo ringraziai,
ma era stato così gentile e convincente che non me la sentivo di dargli un dispiacere mandandolo
all'inferno.
A cena mi mantenni leggero ancora una volta, perché la nausea e il malessere generale non mi
diedero appetito.
La notte che arrivò fu alquanto movimentata. Credo che mi alzai almeno una decina di volte per
correre al cesso in preda ai dolori addominali. L'acqua e sale stavano forse facendo il loro effetto?
La guerra anticorpi-batteri era giunta al suo apice? Chi sarebbe stato il vincitore? Sarei riuscito ad
arrivare sano e salvo all'alba del giorno dopo? Quanti litri di liquame indefinito può espellere
l'organismo umano dal deretano in sei ore? C'è vita oltre la morte? Saranno sufficienti questi dieci
fogli di giornale?
Mentre cercavo risposta a tutte queste domande, nei momenti di tregua in cui potevo stare
sdraiato sul letto, riuscivo anche a dormire per alcuni minuti e a far riposare il mio corpo esausto.
Infine arrivò il giorno. Era una giornata radiosa, perché decisi di recarmi all'ospedale a farmi
visitare: ormai non potevo più aspettare oltre, col rischio di serie complicazioni. Là mi avrebbero
sciuramente rimesso a posto in pochi minuti con l'aiuto della scienza, pensai.
Maribel e Iberia, un'amica di Andy, mi accompagnarono all'ospedale di Bayamo. Dopo una coda
in sala d'attesa durata pochi minuti il medico del pronto soccorso mi chiamò: riceveva in un angolo
della stessa sala d'attesa, dove un paravento creava un minimo di riservatezza. Mi fece accomodare
su una sedia e mi chiese che sintomi avevo e da quanto tempo.
“Ha preso qualche medicina?”
“No” risposi. Poi, esitando, perché non sapevo se era il caso di confessarglielo, aggiunsi:
“Però ieri mi hanno sottoposto a quella pratica alternativa... mi hanno sobado.”
Sorrise con un pizzico di scherno, ma non riuscii ad intendere se era rivolto specificamente a me
o in generale ai sostenitori di quell'arte.
Poi mi chiese anche da che paese ero arrivato: all'apparenza poteva sembrare una domanda fuori
luogo, ma poi mi ricordai di aver letto sul giornale qualche giorno prima una notizia su un'infezione
di colera avvenuta in un paese sudamericano e probabilmente ipotizzava che fossi stato colpito
anch'io. Gli feci notare che ero a Cuba già da quattro mesi. Annuì, ma sul foglietto che diede alla
collega che doveva analizzare le mie feci c'era scritto: “Cercare vibrione c.”, dove la lettera “c.”
stava evidentemente per “colera”.
“Aspetti qui, vado a cercare un contenitore” mi disse la dottoressa.
Tornò poco dopo, con un flaconcino di vetro del diametro di circa un centimetro e me lo pose.
“Mi spiace, è tutto quello che abbiamo”.
Mi indicò dov'era il bagno ed entrai. La serratura era rotta e quindi la porta non si chiudeva bene.
C'erano solo una tazza e un lavabo e l'ambiente dava un'impressione alquanto tetra. Guardai il
flaconcino e mi venne un'infinita tristezza: praticamente avrei dovuto avere una mira così infallibile
da riuscire a centrare l'obiettivo senza possibilità d'errore, altrimenti mi sarei “imbrodato” le mani
con risultati poco piacevoli. Mi misi in posizione di “lancio” sopra la tazza e il liquame infame non
tardò ad arrivare, puntuale come era da due giorni: mentre tenevo d'occhio la porta per non farmi
cogliere di sorpresa da un eventuale intruso tentai l'impossibile impresa. Non sapevo, però, se era
meglio tenere fermo il sedere e spostare la mano con il flaconcino con movimenti micrometrici
oppure tenere ferma la mano e muovere il bacino. Il risultato fu comunque disastroso. Le mie dita
erano ricoperte di quel liquido orribile e non c'era carta igienica per pulirsi. Dal lavabo usciva solo
un filo d'acqua con il quale a malapena risucii a lavarmi. Nel flaconcino non c'erano che poche
gocce di liquido: uscii e lo consegnai alla dottoressa, la quale per fortuna si accontentò e scomparve
nel laboratorio analisi.
Poiché non c'erano sedie attesi in piedi in un corridoio lì vicino, chiaccherando con Maribel e
Iberia. Ero abbastanza debilitato da due giorni di digiuno e dissenteria e rimanere in piedi per molto
tempo inziava a stancarmi. Mi sentivo letteralmente svuotato e probabilmente sarebbe bastato un
altro piccolo turbamento fisico o psichico per farmi crollare letteralmente a terra. Mentre mi
guardavo intorno alla ricerca di un modo per far passare il tempo più velocemente il mio sguardo
cadde su una porta alle mie spalle, con una targa che diceva: “Sala autopsia”. Quindi lì dentro si
sezionavano i cadaveri, pensai. Proprio in quel momento si aprì la porta e usci un tale spingendo
una barella sulla quale giaceva un corpo umano coperto da un lenzuolo: solo la testa rimaneva
libera. Il tale parcheggiò la barella vicino a noi e se ne andò. Guardai il volto bianco e inespressivo
dell'uomo disteso sulla barella e non mi ci volle molto a capire che, anche se non era ancora stato
fatto a pezzi, stava peggio di me. Tuttavia questa magra consolazione non bastò a sollevarmi dalla
mia spossatezza: nonostante tutti gli sforzi che facevo per ignorarlo il mio sguardo finiva su di lui,
finché dovetti per forza uscire in cortile a prendere una boccata d'aria e a sedermi su un gradino o
avrei rischiato di stramazzare al suolo.
Finalmente la dottoressa tornò con l'esito dell'esame e lo consegnò al medico che mi chiamò per
dirmi che andava tutto bene e che si trattava di una comune infezione intestinale. Mi prescrisse una
terapia di quattro pastiglie di dimensioni esagerate per i miei gusti (si noti che i miei gusti non
prevedono di ingerire corpi estranei più grandi di un grano di riso se non sono stati prima
accuratamente sminuzzati dalla mia dentatura; inoltre in un'eventualità del genere ho sempre le
necessità di ingurgitare contemporaneamente alcuni ettolitri d'acqua).
“Ogni quanto tempo devo prenderle?” domandai.
“Deve prenderle tutte e quattro adesso” rispose il medico.
Non fu una grande notizia, ma mi feci forza e riuscii anche a far bastare il mezzo bicchiere
d'acqua che mi fu portato. Ci misi almeno dieci minuti, camminando su e giù per il corridoio tra una
pastiglia e l'altra, compiendo gesti strani con la testa e tutto il corpo e mostrando evidenti smorfie di
disgusto, tanto che la gente che mi osservava pensava probabilmente che fossi stato infettato da una
misteriosa malattia. Alla fine della tortura, però, venni premiato con il permesso di tornare a casa.
Furono sufficienti una giornata di riposo e una dieta leggera per rimettermi a posto: potevo
senz'altro ritenermi soddisfatto, dato che si era risolto tutto per il meglio. Mi rimasero solo tre
misteri, ai quali nessuno diede risposta: non seppi mai cosa contenevano quelle quattro pastiglie;
non seppi mai se la bolita che mi avevano sobado c'era veramente oppure no e non seppi mai quali
furono le misteriose parole pronunciate dall'anziano signore a casa di Andy.
¿
13/06/2009 17:46
 
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Re:
beboroma, 27/05/2009 16.14:


mah altro che avventura..qua si rasenta il delirio, penso che il tizio sia leggermente masochista [SM=x1572479]



La cosa peggiore è che tuttora dopo che anni fa è ritornato con la coda in mezzo alle gambe, si permette di fare il saccente ed illuminato naturalmente sul divano verde.......

Un vero coglione


MAX
13/06/2009 18:06
 
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Re: Re:
MAXHABANA, 13/06/2009 17.46:



La cosa peggiore è che tuttora dopo che anni fa è ritornato con la coda in mezzo alle gambe, si permette di fare il saccente ed illuminato naturalmente sul divano verde.......

Un vero coglione





Max ti stimo e ti apprezzo .... avendo anche hobby ( per me ) in comune .. (AVREI ANCHE POTUTO USARE IL PLURALE).... però questa volta non condivido.

Ale è simpatico, ironico e realista.....e leggendolo spesso credo che di saccente ed illuminato abbia ben poco.

A volte sono i casi della vita che scelgono....A volte..soprattutto avendo una figlia...condivido perfino la sua decisione di andarsene...Non sempre...a volte....

Seba


[Modificato da Miky Seba 13/06/2009 18:10]
13/06/2009 23:07
 
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Ma perche' qualcuno non lo invita a fare un salto qua'?
14/06/2009 10:48
 
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Re: Re: Re:
Miky Seba, 13/06/2009 18.06:



Max ti stimo e ti apprezzo .... avendo anche hobby ( per me ) in comune .. (AVREI ANCHE POTUTO USARE IL PLURALE).... però questa volta non condivido.

Ale è simpatico, ironico e realista.....e leggendolo spesso credo che di saccente ed illuminato abbia ben poco.

A volte sono i casi della vita che scelgono....A volte..soprattutto avendo una figlia...condivido perfino la sua decisione di andarsene...Non sempre...a volte....

Seba





E' vero qel che dici Seba e sicuramente mi son fatto un po' prendere la mano e chiedo venia, ma proprio perchè anchio lo considero una persona intelligente e simpatica, a volte mi incazzo (scusa il frencesismo [SM=x1272135] ) quando per seguire ottusamente le posizioni di alcuni compari, e tu sai chi, va contro sia la logica che alla sua scaltrezza...... A me questa cosa non va... Tutto qui....



MAX
24/02/2012 17:34
 
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Vivere a Cuba è possibile: basta organizzarsi un minimo
Qui parlo di maggio 2010 ed ero già stato a Cuba due volte (2007 e 2009) per vacanze (la prima volta, 14 giorni) e per valutare la questione trasferimento definitivo(la seconda, 28 giorni).
Qualche contatto giusto dall'Italia come avvocato e commercialista in loco (Avana- Vedado, tanto per capire).
Con poche decine di dollari ti indicano la trafila (questa s' estenuante) per : ottenere una residenza, rilevare la licenza di un locale (all'Avana ce ne sono molte di occasioni).
Nei due viaggi precedenti avevo stabilito i contatti giusti per l'alloggio, in affitto, a pochi passi da La Rampa.
Parto per il viaggio finale, dopo 34 giorni mi sono piazzato, fatto amicizie (peraltro gente già a me nota e soprattutto niente mignotte)sto contrattando per la licenza di uno spaccio-vendita di sigarette e alcoolici, quando mi arriva una telefonata di emergenza dall'Italia e devo rientrare immediatamente causa problemi familiari, tuttora persistenti (purtroppo).
Nel frattempo, allargando il giro dei "cubanisti" italiani, grazie alla Rete (che all'Avana nel 2010 funzionava discretamente) ho ricevuto due proposte di collaborazione per rappresentanze in loco di materiale edile e sanitari (e li guadagni alla grande con gli europei) e di sistemi per il trattamento delle acque.
Non so come sarebbe andata ma, con buon senso, organizzazione e una certa dose di culo (che non deve mancare mai nella vita, a prescindere) vivere a Cuba si può, eccome.
29/02/2012 21:46
 
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Re: Vivere a Cuba è possibile: basta organizzarsi un minimo
zanardi68, 24/02/2012 17.34:

Qui parlo di maggio 2010 ed ero già stato a Cuba due volte (2007 e 2009) per vacanze (la prima volta, 14 giorni) e per valutare la questione trasferimento definitivo(la seconda, 28 giorni).
Qualche contatto giusto dall'Italia come avvocato e commercialista in loco (Avana- Vedado, tanto per capire).
Con poche decine di dollari ti indicano la trafila (questa s' estenuante) per : ottenere una residenza, rilevare la licenza di un locale (all'Avana ce ne sono molte di occasioni).
Nei due viaggi precedenti avevo stabilito i contatti giusti per l'alloggio, in affitto, a pochi passi da La Rampa.
Parto per il viaggio finale, dopo 34 giorni mi sono piazzato, fatto amicizie (peraltro gente già a me nota e soprattutto niente mignotte)sto contrattando per la licenza di uno spaccio-vendita di sigarette e alcoolici, quando mi arriva una telefonata di emergenza dall'Italia e devo rientrare immediatamente causa problemi familiari, tuttora persistenti (purtroppo).
Nel frattempo, allargando il giro dei "cubanisti" italiani, grazie alla Rete (che all'Avana nel 2010 funzionava discretamente) ho ricevuto due proposte di collaborazione per rappresentanze in loco di materiale edile e sanitari (e li guadagni alla grande con gli europei) e di sistemi per il trattamento delle acque.
Non so come sarebbe andata ma, con buon senso, organizzazione e una certa dose di culo (che non deve mancare mai nella vita, a prescindere) vivere a Cuba si può, eccome.



interessante... ma risolti i problemi familiari qui, pensi di ritentare e piazzarti a la habana?
scusa ma quanto costava la licenza che avevi trovato?
[SM=x1449914]
08/03/2012 17:08
 
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per mojitocubano.

Conto di tornare a La Habana entro dicembre di quest'anno se non altro per mantenere un pò di contatti "dal vivo". Poi si vedrà come andranno le cose qui.

Se non ricordo male la licenza costava circa 30.000 CUC.

Ciao.
11/03/2012 22:14
 
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Re:
zanardi68, 08/03/2012 17.08:

per mojitocubano.

Conto di tornare a La Habana entro dicembre di quest'anno se non altro per mantenere un pò di contatti "dal vivo". Poi si vedrà come andranno le cose qui.

Se non ricordo male la licenza costava circa 30.000 CUC.

Ciao.




non proprio economica la licenza per essere cuba...
grazie e suerte entonces!
tienici aggiornati, molto interessante il tuo progetto, verdad.
[SM=x1449914]
30/03/2013 17:49
 
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Re: Re:
Bellissimo. E' stato questo lunghissimo resoconto che mi ha spinto a iscrivermi, spero che ci racconterai anche cosa è successo dopo.


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