Stellar Blade Un'esclusiva PS5 che sta facendo discutere per l'eccessiva bellezza della protagonista. Vieni a parlarne su Award & Oscar!

 
 
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LA DERIVA DI RIZZO/STELLA

Ultimo Aggiornamento: 28/01/2009 14:12
30/10/2008 09:12
 
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Marko Tasic, un serbo di 19 anni, è finito su tutti i giornali del mondo perché, partito per l' America per studiare, ha preso la laurea e pure il dottorato in otto giorni? Noi italiani, di geni, ne abbiamo a migliaia. O almeno così dicono i numeri, stupefacenti, di alcune università. Numeri che, da soli, rivelano più di mille dossier sul degrado del titolo di «dottore».
I «laureati precoci», studenti straordinari che riescono a finire l' università in anticipo sul previsto, ci sono sempre stati. È l' accelerazione degli ultimi anni ad essere sbalorditiva. Soprattutto nei corsi di laurea triennali, dove i «precoci» tra il 2006 e il 2007, stando alla banca dati del ministero dell' Università, sono cresciuti del 57% arrivando ad essere 11.874: pari al 6,83% del totale. Tema: è mai possibile che un «dottore» su 14 vada veloce come Usain Bolt?
C' è di più: stando al rapporto 2007 sull' università elaborato dal Cnvsu, il Comitato nazionale per la valutazione del sistema universitario, quasi la metà di tutti questi Usain Bolt, per la precisione il 46%, ha preso nel 2006 l' alloro in due soli atenei. Per capirci: in due hanno sfornato tanti «dottori» quanto tutti gli altri 92 messi insieme.
Quali sono queste culle del sapere occidentale colpevolmente ignorate dalle classifiche internazionali come quella della Shanghai Jiao Tong University secondo cui il primo ateneo italiano nel 2008, La Sapienza di Roma, è al 146° posto e Padova al 189°? Risposta ufficiale del Cnvsu: «Stiamo elaborando i dati aggiornati per la pubblicazione del rapporto 2008. Comunque i dati sui laureati sono pubblici e consultabili sul sito dell' ufficio statistica del Miur». Infatti la risposta c' è: le culle del sapere che sfornano più «precoci» sono l' Università di Siena (494ª nella classifica di Shanghai) e la «Gabriele D' Annunzio» di Chieti e Pescara, che non figura neppure tra le prime 500 del pianeta.
Numeri alla mano, risulta che dall' ateneo abruzzese, che grazie al contenitore unico di un' omonima Fondazione presieduta dal rettore Franco Cuccurullo e finanziata da molte delle maggiori case farmaceutiche (Angelini, Kowa, Ingenix, Fournier, Astra Zeneca, Boheringer, Bristol-Myers...), conta su una università telematica parallela non meno generosa, sono usciti nel 2007 la bellezza di 5.718 studenti con laurea triennale. In maggioranza (53%) immatricolati, stando ai dati, nell' anno accademico 2005-2006 o dopo. Il che fa pensare che si siano laureati in due anni o addirittura in pochi mesi.
Quanto all' ateneo di Siena, i precoci nel 2007 sono risultati 1.918 su un totale di 4.060 «triennali»: il 47,2%. La metà. Ancora più sorprendente, tuttavia, è la quota di maschi: su 1.918 sono 1.897. Contro 21 femmine. Come mai? Con ogni probabilità perché alla fine del 2003 l' Università firmò una convenzione coi carabinieri che consentiva ai marescialli che avevano seguito il corso biennale interno di farsi riconoscere la bellezza di 124 «crediti formativi». Per raggiungere i 148 necessari ad ottenere la laurea triennale in Scienza dell' amministrazione, a quel punto, bastava presentare tre tesine da 8 crediti ciascuna. E il gioco era fatto.
Ma facciamo un passo indietro. Tutto era nato quando, alla fine degli anni Novanta, il ministro Luigi Berlinguer, adeguando le norme a quelle europee, aveva introdotto la laurea triennale. Laurea alla portata di chi, avendo accumulato anni d' esperienza nel suo lavoro, poteva mettere a frutto questa sua professionalità grazie al riconoscimento di un certo numero di quei «crediti formativi» di cui dicevamo. Un' innovazione di per sé sensata. Ma rivelatasi presto, all' italiana, devastante. Colpa del peso che da noi viene dato nei concorsi pubblici, nelle graduatorie interne, nelle promozioni, non alle valutazioni sulle capacità professionali delle persone ma al «pezzo di carta», il cui valore legale non è mai stato (ahinoi!) abolito. Colpa del modo in cui molti atenei hanno interpretato l' autonomia gestionale. Colpa delle crescenti ristrettezze economiche, che hanno spinto alcune università a lanciarsi in una pazza corsa ad accumulare più iscritti possibili per avere più rette possibili e chiedere al governo più finanziamenti possibili.
Va da sé che, in una giungla di questo genere, la gara ad accaparrarsi il maggior numero di studenti è passata attraverso l' offerta di convenzioni generosissime con grandi gruppi di persone unite da una divisa o da un Ordine professionale, un' associazione o un sindacato. Dai vigili del fuoco ai giornalisti, dai finanzieri agli iscritti alla Uil. E va da sé che, per spuntarla, c' è chi era arrivato a sbandierare «occasioni d' oro, siore e siore, occasioni irripetibili». Come appunto quei 124 crediti su 148 necessari alla laurea, annullati solo dopo lo scoppio di roventi polemiche.
Un andazzo pazzesco, interrotto solo nel maggio 2007 da Fabio Mussi («Mai più di 60 crediti: mai più!») quando ormai buona parte dei buoi era già scappata dalle stalle. Peggio. Perfino dopo quell' argine eretto dal predecessore della Gelmini, c' è chi ha tirato diritto. Come la «Kore» di Enna che, nonostante il provvedimento mussiano prevedesse che il taglio dei crediti doveva essere applicato tassativamente dall' anno accademico 2006-2007, ha pubblicato sul suo sito internet il seguente avviso: «Si comunica che, a seguito della disposizione del ministro Mussi, l' Università di Enna ha deciso di procedere alla riformulazione delle convenzioni» ma «facendo salvi i diritti acquisiti da coloro che vi abbiano fatto esplicito riferimento, sia in sede di immatricolazione che in sede di iscrizione a corsi singoli, nell' ambito dell' anno accademico 2006-2007». Bene: sapete quanti studenti risultano aver preso la laurea triennale nell' ateneo siciliano in meno di due anni grazie ad accordi come quello con i poliziotti (76 crediti riconosciuti agli agenti, 106 ai sovrintendenti e addirittura 127 agli ispettori) che volevano diventare dottori in «Mediazione culturale e cooperazione euromediterranea»? Una marea: il 79%. Una percentuale superiore perfino a quella della Libera università degli Studi San Pio V di Roma: 645 precoci su 886, pari al 73%. E inferiore solo a quella della Tel.M.A., l' università telematica legata al Formez, l' ente di formazione che dipende dal Dipartimento della funzione pubblica: 428 «precoci» su 468 laureati. Vale a dire il 91,4%. Che senso ha regalare le lauree così, a chi ha l' unico merito di essere iscritto alla Cisl o di lavorare all' Aci?
È una domanda ustionante, da girare a tutti coloro che hanno governato questo Paese. Tutti. E che certo non può essere liquidata buttando tutto nel calderone degli errori della sinistra, come ha fatto l' altro ieri Mariastella Gelmini dicendo che di tutte le magagne universitarie «non ha certo colpa il governo Berlusconi che, anzi, è il primo governo che vuol mettere ordine». Sicura? Certo, non c' era lei l' altra volta alla guida del ministero. Ma la magica moltiplicazione delle università (soprattutto telematiche), la corsa alle convenzioni più assurde e il diluvio di «lauree sprint», lo dicono i numeri e le date, è avvenuta anche se non soprattutto negli anni berlusconiani dal 2001 al 2006. E pretendere oggi una delega in bianco perché «non si disturba il manovratore», è forse un po' troppo. O no?
Pubblicato il 28.10.08 12:49 | Permalink| Commenti(0) | Invia il post
01/11/2008 13:29
 
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Non è vero che non ci soldi per la ricerca. L'Università di Messina, ad esempio, una ricerca la sta facendo: cerca un pittore che per 80mila euro dipinga un quadro per l'Aula Magna di ingegneria.
Direte: ma come, una spesa così insensata in questi tempi di vacche magre? Esatto. Dicono sia in-dis-pen-sa-bi-le. Certo, per arredare la parete della grande sala non potevano scegliere momento peggiore. Da una parte, infatti, divampa la polemica sui tagli decisi da Mariastella Gelmini, denunciati come la scelta scellerata di
lesinare la goccia d'acqua agli assetati dalle gole riarse. Dall'altra il rettore dell'Ateneo, Francesco Tomasello, è stato appena rinviato a giudizio con la moglie Melitta Grasso (lei pure dirigente dell´Università) e altre 25 professori, ricercatori e funzionari vari (altri sette imputati hanno chiesto il rito abbreviato) per due scandali. Il primo: la gestione assai "controversa", diciamo così, di tre milioni di euro di fondi regionali destinati alla ricerca di un progetto scientifico "Lipin". Il secondo: un concorso taroccato. Scoppiato quando un docente aveva denunciato di aver subito pressioni per addomesticare la gara per un posto di professore associato che doveva a tutti i costi andare a Francesco Macrì, figlio dell'allora preside di Veterinaria Battesimo Consolato Macrì, che nelle intercettazioni viene chiamato "BatMac".
Non bastasse, proprio in questi giorni "L'Espresso" ha rivelato che la moglie del rettore, il quale l'anno scorso era stato sospeso per due mesi dalla carica nell´ambito di una "inchiesta su delitti, appalti e
clan", sarebbe al centro di un'altra indagine sulla fornitura di pasti del Policlinico e la gestione dei servizi di vigilanza. Servizi che oggi, grazie all'intervento del commissario straordinario, costano 300mila euro ma prima della svolta erano stati assegnati alla società "Il Detective" (unica partecipante alla gara d'appalto!) per un milione e 770mila: sei volte di più. Non bastasse ancora, la città peloritana è scossa da "boatos" secondo i quali ognuno degli 86 nuovi posti all'Università, banditi con 75 concorsi, sarebbe stato "cucito come un vestitino" addosso a 86 prescelti. Sia chiaro: l'ateneo messinese non è l'unico a spendere i soldi in maniera "bizzarra" dando ragione ai rettori più seri che inutilmente invocano da anni che la distribuzione dei fondi e più ancora dei tagli non sia fatta così, a casaccio, ma tenga conto delle enormi differenze tra le università sobrie e quelle spendaccione, quelle virtuose e quelle "canaglia". I casi sconcertanti sono infiniti. Con l'aria che tira in questi anni, ad esempio, era proprio indispensabile all'università di Salerno (dove ogni stanza e ogni bagno del campus è stata tinteggiata con un colore differente) la costruzione del "Chiostro della Pace" di Ettore Sottsass e Enzo Cucchi voluto per offrire ai
giovani un luogo "dove riflettere sul senso della vita" e irrispettosamente ribattezzato "il lavandino" per le mattonelle di ceramica blu?
E' fondamentale, a Bari, mantenere tutt'ora a cura dell'ateneo la darsena del Cus, il centro universitario sportivo,dove fino a ieri decine di docenti ormeggiavano le barche senza tirar fuori un cent? Vi pare possibile che un porticciolo vicino al centro della città sia stato fino all'arrivo del nuovo rettore offerto per 16 anni ai baroni senza che nessuno si ricordasse di chieder loro di pagare la quota ("omaggi a personalità influenti...", ammise il
presidente) col risultato che siccome non fu mai mandata una richiesta è oggi impossibile pretendere gli arretrati?
Chi li restituirà, i tre o quattrocentomila euro di crediti mai riscossi?
E l'ex rettore di Teramo Luciano Russi, poi trasferitosi a Roma, doveva proprio spendere 93mila euro per comprare una Mercedes S320 con tivù al plasma anteriore e posteriore, fax, business consolle e "sound system Bose" e 303mila per rifare l'arredamento del suo ufficio? Certe voci resteranno indimenticabili: 54.391 euro per "librerie e boiserie in noce massello con appliques alle quattro pareti", 8.448 per "due divani in pelle modello Chesterfield tre posti", 6.500 per "tappeto Isphahan lana/seta"... Come poteva, con quelle spese, trovare altri soldi per la ricerca? E come possono accettare, i rettori "risparmiosi" attenti al centesimo, di essere messi sullo stesso piano, nei tagli, di chi ha speso 33.259 euro (quanto guadagnano in un anno tre dei precari pisani che hanno messo a punto un supertelescopio messo in orbita dalla Nasa) per "rivestimento soffitto in noce masello
cassonato"?
Ma torniamo a Messina. Dove lo stesso bando di concorso per "la scelta, l'esecuzione e l'acquisto" del quadro da 80mila euro è un capolavoro. Dopo avere precisato che "l'opera dovrà essere ispirata al tragico evento del terremoto di Messina" e "andrà collocata nell'Aula Magna della Facoltà di Ingegneria, sulla parete cattedra di m. 7,50x3,30 e sulle due pareti contigue, ciascuna di m. 2,00 circa x3,30", il documento precisa infatti che "al concorso possono partecipare tutti gli artisti italiani estranieri in possesso della residenza o del domicilio in Italia, che godano dei diritti civili e politici nello Stato di appartenenza". Insomma, se c'è un Picasso o un Gauguin che abbia voglia di cimentarsi, si astenga: la nostra università, oltre ai ricercatori stranieri, non vuole neppure pittori che non siano indigeni. E non è finita. Tra le meravigliose scemenze burocratiche, c'è infatti che "il plico deve essere sigillato con ceralacca e controfirmato sui lembi di chiusura e deve recare all'esterno, oltre all'intestazione del mittente (nome e cognome dell'artista) e all'indirizzo dello stesso, la dicitura "Bando di concorso per
la scelta, l'esecuzione e l'acquisto di un'opera d'arte pittorica da collocare nell'Aula Magna della Facoltà di Ingegneria in Contrada Papardo di Messina". Il plico deve contenere al suo interno la busta con la dicitura "Documentazione" e un contenitore con la dicitura "Bozzetto"" entrambi "controfirmati sui lembi di chiusura...". Insomma: viva l'arte e viva gli artisti! Purché burocrati. E ossequiosi del comma 1/ter dell'art.47bis del dpr...
01/11/2008 15:51
 
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Salsa Picante
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aston villa, 30/10/2008 9.12:

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Marko Tasic, un serbo di 19 anni, è finito su tutti i giornali del mondo perché, partito per l' America per studiare, ha preso la laurea e pure il dottorato in otto giorni? Noi italiani, di geni, ne abbiamo a migliaia. O almeno così dicono i numeri, stupefacenti, di alcune università. Numeri che, da soli, rivelano più di mille dossier sul degrado del titolo di «dottore».
I «laureati precoci», studenti straordinari che riescono a finire l' università in anticipo sul previsto, ci sono sempre stati. È l' accelerazione degli ultimi anni ad essere sbalorditiva. Soprattutto nei corsi di laurea triennali, dove i «precoci» tra il 2006 e il 2007, stando alla banca dati del ministero dell' Università, sono cresciuti del 57% arrivando ad essere 11.874: pari al 6,83% del totale. Tema: è mai possibile che un «dottore» su 14 vada veloce come Usain Bolt?
C' è di più: stando al rapporto 2007 sull' università elaborato dal Cnvsu, il Comitato nazionale per la valutazione del sistema universitario, quasi la metà di tutti questi Usain Bolt, per la precisione il 46%, ha preso nel 2006 l' alloro in due soli atenei. Per capirci: in due hanno sfornato tanti «dottori» quanto tutti gli altri 92 messi insieme.
Quali sono queste culle del sapere occidentale colpevolmente ignorate dalle classifiche internazionali come quella della Shanghai Jiao Tong University secondo cui il primo ateneo italiano nel 2008, La Sapienza di Roma, è al 146° posto e Padova al 189°? Risposta ufficiale del Cnvsu: «Stiamo elaborando i dati aggiornati per la pubblicazione del rapporto 2008. Comunque i dati sui laureati sono pubblici e consultabili sul sito dell' ufficio statistica del Miur». Infatti la risposta c' è: le culle del sapere che sfornano più «precoci» sono l' Università di Siena (494ª nella classifica di Shanghai) e la «Gabriele D' Annunzio» di Chieti e Pescara, che non figura neppure tra le prime 500 del pianeta.
Numeri alla mano, risulta che dall' ateneo abruzzese, che grazie al contenitore unico di un' omonima Fondazione presieduta dal rettore Franco Cuccurullo e finanziata da molte delle maggiori case farmaceutiche (Angelini, Kowa, Ingenix, Fournier, Astra Zeneca, Boheringer, Bristol-Myers...), conta su una università telematica parallela non meno generosa, sono usciti nel 2007 la bellezza di 5.718 studenti con laurea triennale. In maggioranza (53%) immatricolati, stando ai dati, nell' anno accademico 2005-2006 o dopo. Il che fa pensare che si siano laureati in due anni o addirittura in pochi mesi.
Quanto all' ateneo di Siena, i precoci nel 2007 sono risultati 1.918 su un totale di 4.060 «triennali»: il 47,2%. La metà. Ancora più sorprendente, tuttavia, è la quota di maschi: su 1.918 sono 1.897. Contro 21 femmine. Come mai? Con ogni probabilità perché alla fine del 2003 l' Università firmò una convenzione coi carabinieri che consentiva ai marescialli che avevano seguito il corso biennale interno di farsi riconoscere la bellezza di 124 «crediti formativi». Per raggiungere i 148 necessari ad ottenere la laurea triennale in Scienza dell' amministrazione, a quel punto, bastava presentare tre tesine da 8 crediti ciascuna. E il gioco era fatto.
Ma facciamo un passo indietro. Tutto era nato quando, alla fine degli anni Novanta, il ministro Luigi Berlinguer, adeguando le norme a quelle europee, aveva introdotto la laurea triennale. Laurea alla portata di chi, avendo accumulato anni d' esperienza nel suo lavoro, poteva mettere a frutto questa sua professionalità grazie al riconoscimento di un certo numero di quei «crediti formativi» di cui dicevamo. Un' innovazione di per sé sensata. Ma rivelatasi presto, all' italiana, devastante. Colpa del peso che da noi viene dato nei concorsi pubblici, nelle graduatorie interne, nelle promozioni, non alle valutazioni sulle capacità professionali delle persone ma al «pezzo di carta», il cui valore legale non è mai stato (ahinoi!) abolito. Colpa del modo in cui molti atenei hanno interpretato l' autonomia gestionale. Colpa delle crescenti ristrettezze economiche, che hanno spinto alcune università a lanciarsi in una pazza corsa ad accumulare più iscritti possibili per avere più rette possibili e chiedere al governo più finanziamenti possibili.
Va da sé che, in una giungla di questo genere, la gara ad accaparrarsi il maggior numero di studenti è passata attraverso l' offerta di convenzioni generosissime con grandi gruppi di persone unite da una divisa o da un Ordine professionale, un' associazione o un sindacato. Dai vigili del fuoco ai giornalisti, dai finanzieri agli iscritti alla Uil. E va da sé che, per spuntarla, c' è chi era arrivato a sbandierare «occasioni d' oro, siore e siore, occasioni irripetibili». Come appunto quei 124 crediti su 148 necessari alla laurea, annullati solo dopo lo scoppio di roventi polemiche.
Un andazzo pazzesco, interrotto solo nel maggio 2007 da Fabio Mussi («Mai più di 60 crediti: mai più!») quando ormai buona parte dei buoi era già scappata dalle stalle. Peggio. Perfino dopo quell' argine eretto dal predecessore della Gelmini, c' è chi ha tirato diritto. Come la «Kore» di Enna che, nonostante il provvedimento mussiano prevedesse che il taglio dei crediti doveva essere applicato tassativamente dall' anno accademico 2006-2007, ha pubblicato sul suo sito internet il seguente avviso: «Si comunica che, a seguito della disposizione del ministro Mussi, l' Università di Enna ha deciso di procedere alla riformulazione delle convenzioni» ma «facendo salvi i diritti acquisiti da coloro che vi abbiano fatto esplicito riferimento, sia in sede di immatricolazione che in sede di iscrizione a corsi singoli, nell' ambito dell' anno accademico 2006-2007». Bene: sapete quanti studenti risultano aver preso la laurea triennale nell' ateneo siciliano in meno di due anni grazie ad accordi come quello con i poliziotti (76 crediti riconosciuti agli agenti, 106 ai sovrintendenti e addirittura 127 agli ispettori) che volevano diventare dottori in «Mediazione culturale e cooperazione euromediterranea»? Una marea: il 79%. Una percentuale superiore perfino a quella della Libera università degli Studi San Pio V di Roma: 645 precoci su 886, pari al 73%. E inferiore solo a quella della Tel.M.A., l' università telematica legata al Formez, l' ente di formazione che dipende dal Dipartimento della funzione pubblica: 428 «precoci» su 468 laureati. Vale a dire il 91,4%. Che senso ha regalare le lauree così, a chi ha l' unico merito di essere iscritto alla Cisl o di lavorare all' Aci?
È una domanda ustionante, da girare a tutti coloro che hanno governato questo Paese. Tutti. E che certo non può essere liquidata buttando tutto nel calderone degli errori della sinistra, come ha fatto l' altro ieri Mariastella Gelmini dicendo che di tutte le magagne universitarie «non ha certo colpa il governo Berlusconi che, anzi, è il primo governo che vuol mettere ordine». Sicura? Certo, non c' era lei l' altra volta alla guida del ministero. Ma la magica moltiplicazione delle università (soprattutto telematiche), la corsa alle convenzioni più assurde e il diluvio di «lauree sprint», lo dicono i numeri e le date, è avvenuta anche se non soprattutto negli anni berlusconiani dal 2001 al 2006. E pretendere oggi una delega in bianco perché «non si disturba il manovratore», è forse un po' troppo. O no?
Pubblicato il 28.10.08 12:49 | Permalink| Commenti(0) | Invia il post


Ma pensa tu... e io che mi sono fatta il c....

05/11/2008 13:32
 
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Il sindaco di Benevento Fausto Pepe, già esponente di spicco dell’Udeur di Clemente Mastella, avrebbe volentieri fatto a meno della bacchettata che la Corte dei conti ha assestato alla sua amministrazione il 24 luglio scorso. Purtroppo però anche il suo Comune è scivolato nel tritacarne dei derivati: ad agosto dello scorso anno ha dovuto negoziare un nuovo contratto, visto che l’operazione di swap stipulata l’anno prima avrebbe potuto determinare una perdita di oltre nove milioni di euro. E adesso, pure sperando che il calo dei tassi gli dia una mano, comunque non ha da scialare. Come molte altre amministrazioni locali. Certamente però se i margini di intervento dei comuni italiani per finanziare in proprio le opere pubbliche locali si sono ristretti tragicamente negli ultimi anni non è soltanto per la scelta, talvolta sconsiderata, di affidarsi alla finanza creativa nella speranza di fare un po’ di cassa, salvo poi rischiare il dissesto. «Ad aggravare la posizione finanziaria dei Comuni con riferimento alla spesa per investimenti», è scritto in un recente rapporto curato da Laura Campanini e Fabrizio Guelpa di Intesa San Paolo e da Ref (Ricerche per l’economia e la finanza), «concorre in modo grave il disposto, introdotto convulsamente in fase di conversione» del decreto di luglio sula manovra economica, «che inibisce l’uso dei proventi da dismissione per il finanziamento della spesa per investimenti». In sostanza, mentre l’articolo 58 di quel provvedimento quasi impone agli enti locali la dismissione del patrimonio non funzionale all’attività, una norma successiva impedirebbe di investire il ricavato. Se questo divieto non venisse rimosso, argomenta il documento, potrebbe venire meno «una quota pari al 38% della spesa per opere pubbliche degli enti locali». Il paradosso è doppio: norme introdotte alla fine del 2001 dal governo Berlusconi con l'obiettivo di dare un beneficio alla finanza locale, consentendo ai Comuni il ricorso ai derivati, si sono rivelate un'arma a doppio taglio al punto che oggi molti enti locali che si sono affidati alla finanza creativa rischiano di brutto; e altre norme, introdotte recentemente dallo stesso governo per impedire che i conti delle amministrazioni territoriali vadano alla deriva finiscono per dabnneggiare i comuni virtuosi, che non possono nemmeno spendere i soldi. Leggete che cosa succede a Riccione. Quello che segue è un passo del comunicato stampa che il Comune ha diffuso dopo la riunione della giunta dello scorso 16 ottobre.

"Riccione", sottolinea il Sindaco (Daniele Imola, ndr.), "così come altri comuni cosiddetti virtuosi, che hanno cioè gestito bene le proprie risorse finanziarie, si trova oggi in una situazione paradossale. Ci troviamo con 30 milioni di euro, che equivalgono quasi alla metà del nostro bilancio, fermi, che non possiamo spendere. Soldi incassati negli anni passati e con i quali abbiamo preventivato la realizzazione opere pubbliche, ma che non possiamo spendere per via dell’interpretazione restrittiva e cervellotica data dal governo al piano di stabilità. Tale per cui è consentito spendere solo in proporzione a ciò che si è incassato nell’anno in corso. Si tratta in sostanza di un meccanismo giusto e condivisibile per i comuni in dissesto, ma assurdo e pericoloso per quelli che, come Riccione, hanno disponibilità da parte. Noi non chiediamo di fare nuovi debiti, ma di utilizzare i soldi che abbiamo già in cassa. Abbiamo opere pubbliche che non possono partire perché gli appalti non possono essere aggiudicati e sono a rischio anche tutte le altre opere del prossimo anno e degli anni a venire".

05/11/2008 14:29
 
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Salsa Picante
Re:
aston villa, 05/11/2008 13.32:

Il sindaco di Benevento Fausto Pepe, già esponente di spicco dell’Udeur di Clemente Mastella, avrebbe volentieri fatto a meno della bacchettata che la Corte dei conti ha assestato alla sua amministrazione il 24 luglio scorso. Purtroppo però anche il suo Comune è scivolato nel tritacarne dei derivati: ad agosto dello scorso anno ha dovuto negoziare un nuovo contratto, visto che l’operazione di swap stipulata l’anno prima avrebbe potuto determinare una perdita di oltre nove milioni di euro. E adesso, pure sperando che il calo dei tassi gli dia una mano, comunque non ha da scialare. Come molte altre amministrazioni locali. Certamente però se i margini di intervento dei comuni italiani per finanziare in proprio le opere pubbliche locali si sono ristretti tragicamente negli ultimi anni non è soltanto per la scelta, talvolta sconsiderata, di affidarsi alla finanza creativa nella speranza di fare un po’ di cassa, salvo poi rischiare il dissesto. «Ad aggravare la posizione finanziaria dei Comuni con riferimento alla spesa per investimenti», è scritto in un recente rapporto curato da Laura Campanini e Fabrizio Guelpa di Intesa San Paolo e da Ref (Ricerche per l’economia e la finanza), «concorre in modo grave il disposto, introdotto convulsamente in fase di conversione» del decreto di luglio sula manovra economica, «che inibisce l’uso dei proventi da dismissione per il finanziamento della spesa per investimenti». In sostanza, mentre l’articolo 58 di quel provvedimento quasi impone agli enti locali la dismissione del patrimonio non funzionale all’attività, una norma successiva impedirebbe di investire il ricavato. Se questo divieto non venisse rimosso, argomenta il documento, potrebbe venire meno «una quota pari al 38% della spesa per opere pubbliche degli enti locali». Il paradosso è doppio: norme introdotte alla fine del 2001 dal governo Berlusconi con l'obiettivo di dare un beneficio alla finanza locale, consentendo ai Comuni il ricorso ai derivati, si sono rivelate un'arma a doppio taglio al punto che oggi molti enti locali che si sono affidati alla finanza creativa rischiano di brutto; e altre norme, introdotte recentemente dallo stesso governo per impedire che i conti delle amministrazioni territoriali vadano alla deriva finiscono per dabnneggiare i comuni virtuosi, che non possono nemmeno spendere i soldi. Leggete che cosa succede a Riccione. Quello che segue è un passo del comunicato stampa che il Comune ha diffuso dopo la riunione della giunta dello scorso 16 ottobre.

"Riccione", sottolinea il Sindaco (Daniele Imola, ndr.), "così come altri comuni cosiddetti virtuosi, che hanno cioè gestito bene le proprie risorse finanziarie, si trova oggi in una situazione paradossale. Ci troviamo con 30 milioni di euro, che equivalgono quasi alla metà del nostro bilancio, fermi, che non possiamo spendere. Soldi incassati negli anni passati e con i quali abbiamo preventivato la realizzazione opere pubbliche, ma che non possiamo spendere per via dell’interpretazione restrittiva e cervellotica data dal governo al piano di stabilità. Tale per cui è consentito spendere solo in proporzione a ciò che si è incassato nell’anno in corso. Si tratta in sostanza di un meccanismo giusto e condivisibile per i comuni in dissesto, ma assurdo e pericoloso per quelli che, come Riccione, hanno disponibilità da parte. Noi non chiediamo di fare nuovi debiti, ma di utilizzare i soldi che abbiamo già in cassa. Abbiamo opere pubbliche che non possono partire perché gli appalti non possono essere aggiudicati e sono a rischio anche tutte le altre opere del prossimo anno e degli anni a venire".




E già... tra partentesi dobbiamo partire con la seconda tranche del Lungomare che tra un paio d'annetti dovrebbe interessare il viale dietro la nostra spiaggia.
Il primo pezzo è stato fatto l'anno scorso, è meraviglioso, una magnifica passeggiata con piante e giardini che immette direttamente alla spiaggia e con i parcheggi sotterranei. Da vedere!


08/11/2008 15:15
 
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Succede ogni volta, con poche eccezioni. Il governo di Romano Prodi, per esempio, aveva lasciato i vertici degli enti previdenziali tutti quanti al loro posto. Non per buonismo, s'intende. Semplicemente perché aveva in progetto di unificarli e riorganizzarli: le nomine sarebbero arrivate a quel punto. Ma non c'è stato tempo. Il governo di Silvio Berlusconi, invece, è tornato all'antico. E dopo un paio di mesi ha cambiato tutti i timonieri. All'Inps è così salito di grado uno dei consiglieri di amministrazione in quota al centrodestra, promosso presidente e commissario straordinario del maggiore ente previdenziale. Il suo nome: Antonio Mastrapasqua. Che con la nuova nomina ha fatto 54. Cinquantaquattro è appunto il numero di incarichi societari che ha il nuovo presidente dell'Istituto della previdenza sociale. Di tutte le tipologie, in ogni genere di società e indipendentemente dall'azionista, pubblico o privato. L'elenco delle sue cariche attuali reperibile alla Camera di commercio è lungo 18 (diciotto) pagine. Mastrapasqua ha quattro incarichi da presidente: c'è quello di presidente dell'Inps e quelli di presidente di Equitalia Gerit, Equitalia Etr ed Equitalia Esatri, società controllate da Equitalia, gruppo di cui l'Inps possiede il 49%. Due incarichi sono da vicepresidente: nella Equitalia servizi e nella Equitalia nomos, altre società del gruppo Equitalia. Mastrapasqua risulta poi ancora titolare di un incarico da amministratore delegato della Italia previdenza, società controllata dall'Inps. Ricopre quindi un paio di incarichi da consigliere semplice. Tre da liquidatore. Una decina da presidente del collegio sindacale. Ventiquattro da revisore dei conti effettivo. Otto da revisore supplente. Alcuni di queste poltrone gli sono state assegnate addirittura dopo che il governo l'aveva designato, il 4 luglio scorso, alla presidenza dell'Inps. La nomina a sindaco di Coni servizi (società pubblica) è arrivata l'8 luglio. Quella di revisore di Almaviva, il 14 luglio. Quella di consigliere di gestione del Centro di sanità spa, l'8 ottobre. A parte ogni possibile considerazione sull'opportunità che il massimo responsabile di un ente pubblico tanto importante abbia una tale sovrapposizione di incarichi, una domanda è inevitabile: dove troverà Mastrapasqua il tempo per fare il presidente dell'Inps?
12/11/2008 10:15
 
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"I cittadini devono ritrovare la fiducia nei mercati", dice da giorni Silvio Berlusconi all'unisono con gli altri governanti europei. Giusto. "La crisi non è un problema italiano ma internazionale". Giusto anche questo. "Dalle difficoltà occorre uscire insieme". Più che giusto: giustissimo.
C'è una cosa, però, su cui esiste una specificità italiana: la necessità, per ripristinare la fiducia, di ripristinare il rispetto delle regole del gioco. A partire da un punto: chi truffa paga. Anche se volessimo far finta di credere alla buonafede di chi "per una svista" aveva presentato quell'emendamento che, se non fosse stato scovato e smascherato da Milena Gabanelli, avrebbe consentito di farla franca a un bel po' di bancarottieri italiani, i precedenti su questo versante, nella storia del nostro Paese, non sono solo inquietanti: sono pessimi.
Negli Stati Uniti, per aver usato l'azienda quotata in borsa "come se fosse il loro salvadanaio", l'ex padrone della grande Adelphia Communications, John Rigas, ha preso quindici anni di carcere (ma solo perché era già ottantaduenne) e suo figlio Timoty venti. Jeffrey Skilling, amministratore delegato della Enron, il gigante dell'energia texana, ne ha incassati per la sua bancarotta ventiquattro, nonostante fosse stato il maggiore finanziatore in assoluto delle campagne elettorali di George W. Bush fin da quando quello puntava a fare il governatore del Texas. "Bernie" Ebbers, il ricchissimo e potentissimo capo del gigante delle telecomunicazioni World-Com, ne ha avuti venticinque. E dopo processi durati al massimo tre o quattro anni sono tutti in galera. A cucire camicie per per 42 centesimi di dollaro l'ora. Da noi, la galera vera per reati finanziari non l'ha mai fatta nessuno. Non la fecero Bernando Tanlongo e i suoi complici Cesare e Michele Lazzaroni (nomen omen...) al centro del crac della Banca Romana, perché una manina misteriosa fece sparire i documenti chiave. Non la fecero i protagonisti dello scandalo del Banco di Sicilia fatto scoppiare dal senatore Emmanuele Notarbartolo, per questo assassinato. Non la fece Giovan Battista Giuffrè, il "banchiere di Dio" che inventò il "presta e raddoppia" e grazie all'appoggio della Dc e della Chiesa (resta immortale il plauso della Curia di Cesena: «Il "Mammona iniquitatis" del Vangelo, cioè il denaro e i mezzi materiali , si sono trasformati, secondo il suggerimento di Cristo, in moneta amica») finì infine assolto. E potremmo andare avanti per ore.
In America ce l'hanno chiaro: chi è stato bidonato può credere nel sistema solo se vede i colpevoli in galera. Basti dire che per i "subprime" l'Fbi a giugno aveva già arrestato 287 persone. Ma ve li immaginate, da noi, 287 persone in manette per impicci finanziari? Verrebbe giù un diluvio garantista da annegarci tutti: ma come! Le manette! L'umiliazione! Bastava mandare loro una raccomandata a casa! Fino al terzo giudizio in Cassazione sono innocenti! Da noi i protagonisti dei maggiori scandali finanziari di questi anni, da Sergio Cragnotti a Gianpiero Fiorani fino a Calisto Tanzi, dopo aver avuto un assaggio di galera, sono tutti fuori. E sono fuori, spesso neppure sfiorati dalle inchieste, tanti di coloro che reggevano loro il sacco. Mettetevi al posto dei risparmiatori rovinati. Forse, per tornare a credere nei mercati dovrebbero prima tornare a credere nella giustizia. A meno che la
"tolleranza zero" non riguardi solo gli scippatori...



17/11/2008 10:09
 
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La presidenza della Covip, la commissione per la vigilanza sui fondi pensione, è tuttora vacante. Nel frattempo il Parlamento ha provveduto a colmare una lacuna certamente più piccola. Ma significativa: la nomina di uno dei cinque componenti, scaduto anch'egli. Nelle commissioni riunite della Camera l'opposizione si è astenuta mentre nella maggioranza si sono registrati ben cinque voti contrari. Luigi Simesone ha tuttavia avuto via libera per l'ncarico di componente della Covip. D'altra parte il suo nome era stato indicato tassativamente dalla Uil, sindacato guidato da Luigi Angeletti, del quale Simeone è stato per ben undici anni componente del direttivo nazionale: notizia desunta dal suo curriculum. Il governo, nella persona del ministro dei Rapporti con il Parlamento, Elio Vito, ha comunque comunicato al presidente della Camera, Gianfranco Fini, "che è stata attentamente esaminata l'attività finora svolta e il profilo professionale del dott: Luigi Simeone e che il governo ha ritenuto che l'interessato abbia tutti i requisiti per assumere tale incarico". Vediamoli, questi requisiti. Simeone, perito elettrotecnico, è laureato in educazione fisica con 110 e lode. Dipendente dal 1984 della Sepsa di Napoli, società pubblica di trasporto, è stato insegnante di educazione fisica, preparatore atletico e "capo allenatore campionati di basket serie C". Vero è che dal 2001 è stato anche consigliere di amministrazione del Fondo pensione "Priamo", fondo di previdenza complementare del trasporto pubblico locale, e che nel 2008 ha partecipato a un master in "Economia e diritto della previdenza complementare" all'università della Tuscia. Ma quando c' è il fisico....

20/11/2008 23:40
 
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Diciassette milioni di euro. Cioè 34 miliardi di lire. Davanti all'incalzare della crisi internazionale, in Spagna hanno deciso una cura dimagrante che noi ce la sogniamo. Partendo, col taglio citato, dai finanziamenti ai partiti. Prova provata che i nostri cugini iberici non sono più svelti solo nel fare treni ad alta velocità, porti e autostrade.

Eppure, i soldi pubblici stanziati a sostegno delle forze politiche spagnole erano già prima nettamente più scarsi rispetto a quelli italiani. Nel 2009 erano previsti 136 milioni contro i nostri 295. Meno della metà. La riduzione a 119 milioni varata nella legge di bilancio accentua il divario. Confermato nel rapporto pro-capite: per mantenere i partiti ogni cittadino castigliano, andaluso o galiziano dovrà sborsare l'anno prossimo 2,58 euro. Ogni lombardo, pugliese o molisano 4 euro e 91 cent.

Una sproporzione abissale. Dovuta anche a quella leggina sulla legislatura monca che inutilmente i dipietristi hanno tentato l'altro ieri di cambiare con un emendamento che almeno dimezzasse le elargizioni. Leggina che per tutto il 2009, il 2010 e il 2011 continuerà a corrispondere ai partiti (oltre ai finanziamenti per la legislatura corrente) anche i soldi dovuti per quella precedente, infartuata e defunta con la caduta del governo Prodi, come se dovesse arrivare alla normale scadenza del 2011.

Di più: continueranno a intascare quattrini pure i partiti che il voto popolare, a torto o a ragione, ha messo fuori dal Parlamento. Due esempi? Rifondazione comunista incasserà ancora 20 milioni circa in tre anni, l'Udeur di Mastella 2,7. E altri soldi, per questa legislatura, finiranno nelle casse di quelle formazioni che avevano presentato una lista alle elezioni di aprile e, senza superare lo sbarramento elettorale, avevano comunque ottenuto la magica soglia che consentiva comunque di accedere ai rimborsi: l'1%. Come La Destra di Francesco Storace che, orfana di Daniela Sanatanché, avrà circa 5,5 milioni in cinque anni o la sinistra arcobaleno che nel quinquennio ne avrà 7 e mezzo.

Ma il confronto fra i costi della politica in Spagna e in Italia è sconfortante su tutti i fronti. A parte la differenza tra i bilanci del Quirinale e della Casa Reale spagnola, di cui abbiamo già dato conto l'altro ieri nella risposta alla lettera del segretario generale della Presidenza Donato Marra, spicca l'abisso tra i parlamenti. Anche la Spagna ha, come noi, un parlamento bicamerale (Cortes Generales ) sia pure con un mandato di quattro invece che cinque anni. Anche lì ci sono una Camera (il Congreso de los Diputados) e un Senato. Ma le somiglianze si esauriscono qui.

Il «Senado» madrileno, composto da 264 membri, costa agli spagnoli 60,5 milioni di euro, Palazzo Madama (dove siedono 315 rappresentanti eletti volta per volta più i senatori a vita che al momento sono sei, per un totale attuale di 321) pesa sulla tasche degli italiani per 570,6 milioni. Il che significa che ogni senatore costa ai cittadini spagnoli 229 mila euro e a noi un milione e 775 mila: quasi otto volte di più.

Il rapporto, del resto, è più o meno lo stesso alla Camera. Il «Congreso de los Diputados», con 350 eletti, ha un bilancio di 98,4 milioni, Montecitorio (con 630 onorevoli) ne ha uno oltre dieci volte più alto: un miliardo e 27 milioni. Morale: ogni deputato spagnolo costa complessivamente alla collettività, tutto compreso, dagli affitti allo stipendio dei commessi, dalle segreterie alle spese di rappresentanza, 281 mila euro e ogni italiano un milione e 630 mila.

Sentiamo già le obiezioni: sono paesi diversi, storie diverse, tradizioni diverse? Giusto. Anche costi diversi. L'indennità dei parlamentari spagnoli è identica per tutti: 3.020,79 euro al mese. Cifra alla quale vanno sommati 1.762,18 euro mensili per i deputati con residenza fuori da Madrid, ridotti a 841,12 per gli eletti nella capitale. Complessivamente, quindi, un onorevole «peon» (che non sia presidente dell'assemblea, vicepresidente o a capo di una commissione), ha diritto a 4.783 euro al mese: lordi. A un collega italiano spetta una indennità di 11.703 euro lordi al mese più 4.003 euro di diaria più 4.190 euro per il «portaborse» (se vuole prenderne uno e pagarlo, sennò può mettersi il denaro in tasca) per un totale di 19.896 euro lordi al mese: netti sono 13.709,69 euro. Più 3.098 euro l'anno per le spese telefoniche. Più, oltre a una «tessera» di libera circolazione autostradale, marittima, ferroviaria ed aerea su tutto il territorio nazionale, un rimborso fino a 3.995 euro per raggiungere l'aeroporto più vicino.

Il sito internet del Congresso spagnolo precisa invece che lì i deputati hanno diritto, per i trasporti, ai seguenti benefit: una carta (come da noi) di libera circolazione su tutto il territorio nazionale e un rimborso chilometrico di 0,25 euro a chilometro nel caso di uso di auto privata e dietro precisa giustificazione. E se non hanno la macchina o comunque preferiscono non usarla? Dal maggio 2006 hanno una tessera di abbonamento al servizio taxi valida fino a un massimo di 250 euro al mese.

Quanto ai gruppi parlamentari, il confronto è non meno imbarazzante: 9 milioni e mezzo di euro al congresso madrileno, 34 alla Camera romana.

Ma è tutto l'insieme ad essere nei «Palacios» più virtuoso. Lo stipendio di Luis Zapatero è di 91.982 euro lordi annuali in dodici mensilità. Cifra che, sommando l'indennità parlamentare, lo porterebbe ad avere 149.377 euro, cui però, per consuetudine, il premier spagnolo (che già riceve la casa e la totale copertura delle spese di servizio) rinuncia. Carte alla mano, il premier italiano, nonostante la riduzione del 30% disposta da Romano Prodi per gli stipendi dei componenti di governo, arriva a guadagnare, indennità e benefit parlamentari compresi, 324.854 euro lordi l'anno. Né la differenza è meno sensibile per i ministri.

Si dirà: sono paragoni da prendere con le molle. Vero. Ma, con una ricchezza nazionale pro-capite identica (26.100 euro l'anno) nei due paesi, non può non spiccare la distanza perfino tra gli emolumenti che spettano a chi sta ai vertici di alcune istituzioni parallele ai palazzi delle politica. Solo un paio di esempi: a Madrid i presidenti del Tribunal Supremo (la nostra Cassazione) e del Tribunal Constitucional (paragonabile alla nostra Consulta) hanno uno stipendio lordo annuo di 146.342,58 euro. I loro omologhi italiani ne ricevono rispettivamente, sempre al lordo, 274mila e 444mila. Quanto al Tribunal de Cuentas, la Corte dei conti spagnola, costerà nel 2009 60 milioni di euro: vale a dire un quinto della nostra, che l?anno prossimo peserà sui cittadini per 281 milioni. Consoliamoci: fino a quest'anno ne costava venti di più.

25/11/2008 14:13
 
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Riceviamo da un lettore e volentieri pubblichiamo

Il 22 novembre 2008, in Ciociaria, più precisamente ad Anagni, è stato consegnato il premio Bonifacio VIII per la pace. A ritirare l'onorificenza anche il senatore Giuseppe Ciarrapico. La dicitura precisa del premio, di cui si leggono ampie cronache sui quotidiani dell'editore, è così riportata: "Premio Internazionale Bonifacio VIII per il 705° anniversario della Perdonanza bonifaciana", una manifestazione organizzata "dall'Accademia Bonifaciana di Anagni, presieduta dal cavalier dottor - cito testualmente eh... - Sante De Angelis". Le cronache parlano della presenza, tra gli insigniti di: Sua Eccellenza Cardinal Giovanni Lajolo presidente del governatorato dello Stato della Città del Vaticano; Sua Eccellenza Monsignor Andrea Gemma, vescovo di Isernia e Venafro; Padre Ciro Benedettini, vicedirettore della sala stampa vaticana; Fra Mauro Johri, Ministro generale dell'ordine dei frati minori cappuccini; Sua Eccellenza Alejandro Emilio Valladeres Lanza, Decano del corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede; Senatore Nicola Mancino; Onorevole Irene Pivetti e poi tra generali e altri spicca: "Senatore Giuseppe Ciarrapico, Imprenditore, storico ed editore".
Dichiarazioni del senatore medesimo: "Onorato di ricevere un premio in ciociaria e anche se sono di origine abruzzese sono orgoglioso di essere un ciociaro di adozione, soprattutto perché i ciociari sono gente grintosa e proprio qui, con il senatore Andreotti, abbiamo reso onore a chi combatte per la pace con un premio a Mikhail Gorbaciov".

01/12/2008 13:47
 
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C’è un numero che da solo spiega perché il federalismo fiscale e la Regione siciliana non possono andare d’accordo. Si trova a pagina 57, riga 6, di un rapporto appena sfornato dalla Corte dei conti dove si denuncia che nel triennio 2005-2007 l’indennità di carica per i componenti della giunta regionale è aumentata del 114,77%. C’è scritto proprio così: +114,77%. Mentre nel Paese infuriava la bufera sui costi della politica, mentre a Roma si cercava di salvare la faccia proponendo sforbiciate qua e là, mentre Romano Prodi tagliava del 30% il suo stipendio e quello dei suoi colleghi, la spesa per l’indennità degli assessori siciliani magicamente più che raddoppiava. Con il risultato che oggi un componente della giunta regionale guadagna più di un ministro. Chi è assessore e deputato regionale porta a casa più di 14 mila euro netti al mese. Gli assessori esterni se ne devono invece far bastare 11 mila o giù di lì. Il loro stipendio è infatti di 18.120,70 euro lordi al mese: 217.448 l’anno. Circa 15 mila più di un ministro non parlamentare.

Va da sé che con la riforma federalista questo andazzo non potrà continuare. Ma i sacrifici a cui saranno chiamati gli assessori faranno ridere rispetto al resto dei problemi. Il personale, per esempio. La relazione della Corte rivela che nel triennio 2005-2007 la spesa per gli stipendi è aumentata del 18,1%, il triplo dell’inflazione. Nel 2007 i dipendenti sono costati 714 milioni, il 37% più del 2001. All’esplosione ha contributo, spiegano i magistrati contabili, «il notevole ampliamento del numero di dipendenti a tempo determinato a seguito della decisione assunta dalla giunta regionale di procedere alla contrattualizzazione» di alcuni precari. Quanti erano? 3.496. Più o meno come tutti i dipendenti della Regione Lombardia e degli enti collegati, che secondo il conto annuale del Tesoro sono 3.961. Per inciso, la Lombardia ha 9 milioni e mezzo di abitanti contro i 5 milioni della Sicilia.

La mega infornata di precari risale alla fine del 2005, pochi mesi prima delle elezioni regionali che avrebbero confermato Salvatore «Totò» Cuffaro alla presidenza della Regione. Come se non bastasse, sottolinea il rapporto della Corte dei conti, l’amministrazione regionale ha poi provveduto a «stabilizzare» altri 130 precari l’anno successivo e ancora altri 197 nel 2007. Non c’è perciò da stupirsi che la bulimica macchina regionale si sia gonfiata all’inverosimile: alla fine del 2006 si contavano 20.448 dipendenti, di cui 14.291 a tempo indeterminato, 5.455 ex precari stabilizzati e 702 lavoratori socialmente utili. I dirigenti sono ben oltre duemila, con un aumento inarrestabile della spesa per le retribuzioni «di posizione di risultato», determinato dal «notevole incremento del numero degli uffici di massima dimensione e delle strutture intermedie». Ma siccome è regola che non ci siano figli e figliastri, pure i dipendenti «a tempo» hanno avuto la loro parte. E poco importa che l’aumento del «trattamento accessorio» per questo personale sia stato concesso, dice la Corte dei conti, «in violazione delle disposizioni normative e contrattuali». Perché il 6 febbraio scorso, una decina di giorni dopo le dimissioni di Cuffaro e un paio di mesi prima delle elezioni che avrebbero incoronato Raffaele Lombardo, la Regione ha approvato per legge una tanto scontata quanto provvidenziale sanatoria. Per non parlare dei consulenti. Le norme fissano in tre il numero massimo per ogni assessorato più un consulente per il servizio «controllo strategico»? Ebbene, nel 2007 gli incarichi di consulenza affidati da 10 dei 12 assessori, più il presidente, erano 51, di cui 5 per il cosiddetto controllo strategico. E che dire della spesa per le pensioni? Nel 2007 è arrivata a 538 milioni, il 31,6% in più rispetto al 2001, con una crescita del 7,8% soltanto nell’ultimo anno. Il motivo? L’aumento del 51,6% dei dipendenti della Regione che se ne sono andati in pensione: 413 persone in dodici mesi.

Inevitabili, a fronte di questa situazione, gli interrogativi. Perché Lombardo è potente alleato di Silvio Berlusconi, che a lui deve la schiacciante e decisiva vittoria del centrodestra nei collegi elettorali dell’isola. Ma sa benissimo che la riforma, pure «a misura di Sicilia» come lui stesso ha chiesto, potrebbe rivelarsi un massacro se venissero tagliati massicciamente i trasferimenti alle Regioni meno virtuose. Anche perché i segnali di una svolta, in Sicilia, mancano del tutto. La Regione ha varato un piano di riorganizzazione che dovrebbe comportare un risparmio di circa 1,6 milioni di euro l’anno negli stipendi dei dirigenti dal 2008 al 2010. A parte le considerazioni circa l’entità dell’economia prevista, considerando che il monte «salari» dei dirigenti, salito fra il 2001 e il 2005 di oltre il 45%, supera ormai i 160 milioni di euro, i magistrati contabili arrivano a mettere in discussione che il modestissimo risparmio possa essere conseguito, anche perché «emerge in maniera evidente che l’attuazione delle misure proposte non prevede una diminuzione delle strutture burocratiche». Se infatti il numero delle aree e dei servizi viene ridotto da 546 a 403, quelle delle unità operative aumenta da 1.184 a 1.329.

Ma in discussione, sanità a parte, è anche l’intera struttura delle uscite regionali. A una fortissima crescita della spesa per stipendi e pensioni ha fatto riscontro, negli ultimi tre anni, un calo dei trasferimenti alle famiglie (-9,8%) e alle imprese (-42,9%). E se la Regione, dice la Corte dei conti, spende troppo poco per le opere pubbliche e il turismo, sulla formazione professionale corrono fiumi di denaro. L’anno scorso, 432 milioni di euro. Ma senza che se ne vedano risultati, se è vero, come sottolinea il rapporto, che «la disoccupazione giovanile, alla quale dovrebbe prevalentemente rivolgersi la spesa per la formazione professionale, nel 2005 è stata del 40,6% per gli uomini e del 52,1% per le donne».

11/12/2008 08:31
 
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Cento e otto anni dopo la prima proposta di abolire le province, presentata dal deputato Gesualdo Libertini che le marchiava come enti "per lo meno inutili", destra e sinistra dicono che occorre ancora pensarci su. Auguri. Dice uno studio dell'Istituto Bruno Leoni che costano oggi il 65% in più di otto anni fa? Amen. Sono in troppi, a volerle tenere... La Lega, poi... "Silvio, batti un colpo", ha titolato un giornale non ostile alla destra come "Libero", che in questi giorni ha rilanciato la battaglia per sopprimere quegli enti territoriali che il sindaco di Milano Emilio Caldara bollava già nel 1920 come "buoni solo per i manicomi e per le strade". Macché: non lo batte affatto. Nonostante solo pochi mesi fa, fiutando l'aria che tirava nel Paese sulla "casta", nella scia delle denunce del "Corriere", si fosse speso in promesse definitive. C'erano le elezioni alle porte, il Cavaliere voleva stravincere e quando la signora Ines di Forte dei Marmi, durante la chat-line organizzata dal nostro giornale, gli chiese cosa avesse in mente per "abbassare finalmente i costi folli della politica italiana", rispose: "La prima cosa da fare è dimezzare il numero dei parlamentari, dei consiglieri regionali, dei consiglieri comunali". E le Province? "Non parlo delle Province, perché bisogna eliminarle".Otto settimane dopo, già sventolava trionfante il primo successo, riassunto dai tg amici con titoli che dicevano: "Abolite nove Province". Sì, ciao. La notizia era un'altra: nove province dovevano cambiare nome. D'ora in avanti si sarebbero chiamate "aree metropolitane". Fine. Un ritocco non solo semantico, si capisce. Ma un ritocco. Presto smascherato da un anziano gentiluomo di destra come Mario Cervi che sullo stesso "Giornale" berlusconiano, dopo aver letto la bozza della riforma federalista di Roberto Calderoli, scrisse: "Alcune norme del disegno di legge hanno l'obiettivo di "riconoscere un'adeguata autonomia impositiva alle Province". Ma allora, dopo tanti annunci di abolizione, le Province ce le teniamo, e anzi ne avremo di nuove perché l'alacre fantasia dei notabili locali è sempre all'opera nel varare enti inutili? A occhio e croce si direbbe che questa sia una vittoria non del nuovo ma della vecchissima politica distributrice di poltrone".

Parole d'oro. Che Francesco Storace, con brutalità gajarda, traduce così: "Bravi! Ci avevano promesso di abolire le province e il bollo auto ed è finita che fanno gestire il bollo auto alle province". Insomma, chiede oggi il deputato del Pd Enrico Farinone, "la maggioranza è favorevole o contraria all'abolizione delle province? I cittadini meritano un chiarimento". Giusto. Non solo dalla destra, magari. Quindici anni fa, nella "Bicamerale" presieduta da Ciriaco De Mita, furono i pidiessini Franco Bassanini e Cesare Salvi a spingere Augusto Barbera a ritirare la proposta di sopprimere le province in linea con quanto aveva deciso, alla Costituente, la Commissione dei 75: "L'argomento è di grande interesse, ma merita una riflessione ulteriore". Riflessione

ancora in corso. Al punto che quando Massimo Calearo ha rivelato che stava lavorando con altri parlamentari di sinistra e di destra all'abolizione dell'ente, qualche settimana fa, è stato bacchettato per primi dai suoi stessi

amici di partito. Dal segretario regionale Paolo Giaretta (nel nostro Veneto, una delle Regioni più centraliste

d'Italia, le nostre Province non sono enti superflui, anzi") al presidente della Provincia di Belluno Sergio Reolon: "L'unico inutile, qui, è lui, non le Province". Di più: il democratico Giorgio Merlo si è avventurato a dire che quella per l'abolizione delle province è "una campagna qualunquista e demagogica". Quanto a Walter Veltroni, naviga a vista: "Sì, penso ci si possa arrivare. Ma non sono un demagogo. E' facile dirlo in campagna elettorale, poi in genere chi lo dice è il primo a presentare proposte per istituirne di nuove..." Lui sarebbe per "ridurre la sovrapposizione dei livelli di governo, a partire dall'abolizione delle Province, laddove vengano costituite le Città metropolitane". A farla corta: boh...

E' a destra, però, che i mal di pancia sono più forti. Un po' perché il rilancio di Feltri e la sua raccolta di firme vengono vissuti da alcuni come sassate scagliate da mano amica ("tu quoque, Vittorio: proprio adesso...") che rischiano di mandare in pezzi il quadretto di una destra felicemente compatta. Un po' perché le prime crepe si vedono già. E si allargano ogni giorno di più. Gianfranco Fini è stato netto: "Nel programma del Pdl c'era

l'abolizione delle province ed è vero che a tutt'oggi non e' stato fatto nulla. Personalmente non ho cambiato opinione". E così Ignazio La Russa: "Facciamolo. Con un percorso graduale. Che duri tre o quattro anni. E consenta alle province di cedere le proprie competenze a Regioni e Comuni. In An questa opinione è largamente condivisa. Una riforma seria le deve abolire tutte". Gianni Alemanno fa sponda: "Sono sempre stato favorevole".La Lega, però, non vuol sentirne parlare. Certo, uno come l'ex presidente Stefano Stefani, mesi fa, si era sbilanciato: "Sono d' accordo con coloro che propongono la prima, sostanziale rivoluzione, l'abolizione delle Province". Ma è stato subito stoppato dalla ex-presidentessa leghista della sua stessa provincia di Vicenza, Manuela Dal Lago: "Perché, piuttosto, non abolire subito i Prefetti e

le prefetture?" "Le province sono nella Costituzione!", ha urlato ad "AnnoZero" Roberto Castelli ergendosi a baluardo della Carta, dimentico di quando il suo partito voleva buttare il tricolore nel cesso. Finché è intervenuto Umberto Bossi che, memore del fatto che il suo partito non guida neppure una grande città ma

controlla sei province (su 109!), ha chiuso: "Finché la Lega è al governo, non si toccano". Fine.

Al punto che Renato Brunetta, accantonando la durlindana decisionista che da mesi mulina impavido, è stato insolitamente prudentissimo: "Le Province sono enti inutili, che non servono, ma che non riusciremo a

cancellare in questa legislatura". Ma come: neppure con cento seggi di vantaggio alla Camera e cinquanta al Senato? E le promesse elettorali? Gli impegni solenni? Niente da fare. E' la politica, bellezza. Al massimo, ha detto ieri Giulio Tremonti, si può fermare la nascita di province nuove. Come quelle di Aversa, Pinerolo, Civitavecchia, Sibari, Sala Consilina
11/12/2008 12:39
 
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L'Argonauta

e' una jungla....e' acclarato che il lavoro delle province lo possono svolgere senza problemi Comuni e Regioni...e allora?? allora regna sovrano il solito sistema italiano di vivi e lascia vivere e noi contribuenti ne paghiamo le conseguenze mantenendo una massa di nullafacenti ben retributiti per quello che fanno.....

stranamente il "buon" Feltri ha preso questa iniziativa per cercare di togliere le Province invitando anche il "buon" Berlusconi ad attivarsi in tal senso.....ma premier se ne guarda bene dal rompere le uova nel paniere con la lega.....CHE COME TUTTI CERCA DI FARSI I CAZZI SUOI [SM=x1449910]
02/01/2009 16:42
 
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Non è uno scherzo: avete capito bene. Per il G8 in programma sull'Isola della Maddalena, dirimpetto a villa Certosa, residenza privata del premier, dall'8 al 10 luglio 2009 si spenderanno 400 milioni di euro. Quattrocento milioni, per intenderci, è l'entità dei tagli apportati dal governo di Silvio Berlusconi ai fondi per lo spettacolo e il cinema che metteranno in ginocchio un bel pezzo delle cultura italiana. Questa somma sarà spesa per le opere accessorie al vertice, come una nuova strada che collegherà Olbia a Sassari (ma che c'entra con il vertice?), i lavori per il palazzo della conferenza (58 milioni), l'hotel sede del vertice (59 milioni), la riconversione dell'ospedale militare (73 milioni) e perfino la rete fognaria dell'isola. Siccome il G8 è classificato come Grande evento, la sua gestione sarà curata dalla Protezione civile nella persona del commissario straordinario Guido Bertolaso, sottosegretario alla presidenza. Quanto costerà l'organizzazione: "soltanto" 30 milioni. "Soltanto", dicono gli esperti, considerando che giapponesi e tedeschi per i vertici internazionali spendono molto di più. Bene. Ma ammesso che sia giusto che pure Giappone e Germania spensdano una barca di soldi in questo modo, per i paragoni è meglio restare in Italia. L'ultimo G8 è stato quello tragico del 2001 a Genova. Per l'organizzazione vennero stanziati 20 miliardi di lire, cioè un terzo di quello che verrà messo a disposizione per la Maddalena. Per le opere accessorie, invece, lo Stato stanziò 90 miliardi (meno di 47 milioni di lire) in quindici anni. Considerando tutti gli altri fondi, compresi quelli del Comune, il conto fu di 200 miliardi. Poco più di un quarto di quello che si spenderà nel 2009. Perché, signori, 400 milioni di euro sono sempre 774 miliardi di lire. Ma ha un senso spendere una somma del genere per un vertice alla Maddalena?
11/01/2009 13:54
 
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Venticinque centesimi per ogni cittadino: tanto è costata a Busto Arsizio la visita di Angelino Alfano. La notizia è in una delibera adottata dal consiglio comunale della città varesina lo scorso 20 ottobre per iniziativa del sindaco, Gianluigi Farioli, esponente del Popolo delle libertà, lo stesso partito del ministro della Giustizia. Tutto nasce da una telefonata che il presidente del tribunale, Antonino Mazzeo, aveva fatto qualche giorno prima allo stesso sindaco per informarlo che il ministro della Giustizia sarebbe passato per una visita agli uffici giudiziari il 18 novembre. Farioli ha colto immediatamente la palla al balzo valutando, come si legge nella delibera, "in sintonia con Mazzeo che tale evento" poteva costituire "circostanza ideale per l'inaugurazione del nuovo tribunale". Ma per una occasione del genere si dovevano "diramare inviti alle autorità civili e militari", e poi si sarebbero resi necessari "allestimenti microfonici e ornamentali". E si poteva poi rinunciare a un bel buffet? Che figura ci avrebbe fatto la città? Fatti i conti, sarebbero serviti 20 mila euro, che sono sempre circa 40 milioni di lire. Nel capitolo di spesa "Cerimonie, ricevimenti, manifestazioni, onoranze, solennità civili" non c'era però un centesimo. Così si sono dovuti prendere i soldi dal fondo di riserva. Si attende ora la risposta a un'interrogazione parlamentare presentata alla Camera da Silvana Mura, Italia dei valori.

28/01/2009 14:12
 
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Niente paura: Est non corre alcun rischio. Nonostante la Cgil, contrariamente a Cisl e Uil, non abbia firmato l'ultimo contratto del commercio, non ci saranno ripercussioni sull'aspetto, per dire così, più prosaico dei rapporti fra i sindacati confederali del commercio e alcune associazioni datoriali del settore.
Sono quelli che riguardano un fondo sanitario integrativo istituito nel 2005 in seguito al precedente accordo che era stato, quello invece sì, sottoscritto dalla Cgil, con la Cisl e la Uil, e Confcommercio, Fipe e Fiavet. L'hanno battezzato: Fondo Est. La sua particolarità è che si tratta di uno strumento obbligatorio. Tutte le aziende che applicano quel contratto (la Confesercenti non è fra i firmatari) sono cioè vincolate a versare 120 euro l'anno per ogni dipendente, oltre a una quota una tantum che oscilla dagli 8 ai 30 euro pro capite. Il mancato versamento dei contributi rappresenta una violazione contrattuale. Inutile dire che le somme in gioco sono enormi. Basta fare un semplice calcolo: se gli iscritti al Fondo fossero già un milione, il flusso annuo si aggirerebbe intorno ai 120 milioni.
Ma siccome la platea potenziale è di 2,8 milioni di dipendenti, le cifre potrebbero essere anche molto superiori. Non c'è quindi da stupirsi che, in accordo con le migliori abitudini italiane, a tanti
Se gli iscritti fossero un milione, il flusso annuo si aggirerebbe sui 120 milioni
soldi corrispondano tante poltrone. Anche se quelle del Fondo Est sembrano decisamente troppe. Basta dire che il consiglio direttivo è composto da 36 (trentasei) persone più due «invitati». Metà delle trentasei poltrone è occupato da sindacalisti, ripartiti fra Cgil, Cisl e Uil.
L'altra metà, invece, è assegnata ai rappresentanti delle organizzazioni. Fra di loro, incidentalmente, anche un deputato dell'Assemblea regionale siciliana appartenente al Popolo della Libertà: Roberto Corona, della Camera di commercio di Messina, la città del precedente presidente della Confcommercio, Sergio Billè. Alla testa del consiglio direttivo c'è il potente Simonpaolo Buongiardino, storico presidente dei concessionari Fiat, che dal 1995 ha un ruolo chiave nella Confcommercio. Abilissimo spadaccino, nel 1997, a cinquant'anni appena compiuti, si è laureato campione del mondo veterano ai mondiali di spada individuale di Città del Capo. Vicepresidente è invece un altro potentissimo personaggio nel mondo del commercio: Brunetto Boco, inossidabile segretario della Uiltucs- Uil, attualmente presidente dell'Enasarco.
Alle 38 poltrone (36 più due invitati) del comitato direttivo si devono poi sommare le 12 del comitato di gestione del comparto turismo, le altre 12 del comitato di gestione del comparto terziario e le 18 della giunta esecutiva. Va precisato che molti di questi posti sono occupati dalle stesse persone. Ma questo non rende meno sorprendente il numero totale dei seggi: ottanta. Più tre componenti del collegio sindacale, fanno ottantatré. Vi chiederete: a che cosa serve tutta questa gente? Domanda non peregrina, anche perché per la gestione materiale il Fondo si avvale della collaborazione di una compagnia assicurativa di prim'ordine: nientemeno che le Generali, che operano in coassicurazione con Unisalute, del gruppo Unipol.
Per giunta, le Generali utilizzano come intermediario con il Fondo un Agente speciale nella figura della Assingest srl, una società, come risulta dal sito dell'Isvap, che aveva all'inizio come «responsabile dell'attività d'intermediazione », nonché amministratore delegato, Andrea Pozzi, successivamente rilevato nell'incarico societario da suo fratello Francesco: entrambi figli di Stefano Pozzi, assicuratore di fiducia della Confcommercio di Carlo Sangalli.
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