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100 $ per un amore

Ultimo Aggiornamento: 04/07/2011 01:46
17/03/2007 17:56
 
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E' UN CLASSICO,FORSE UN PO' DATATO, MA FORSE NON TUTTI LO CONOSCONO,GENTE DI CUBA VE LO RIPROPONE,A FUTURA MEMORIA.....


QUESTO ROMANZO E' STATO SCRITTO DURANTE UNA LUNGA ESTATE DEL 1995. DOPO UN ENNESIMO VIAGGIO A CUBA, L'ESIGENZA DI TRASMETTERE EMOZIONI, CONFLITTI, ANALISI, MA ANCHE STORIE VISSUTE E PERSONAGGI REALMENTE INCONTRATI, FU COSI' ACUTA CHE MI SPINSE ALLA STESURA DI UN RACCONTO CHE SCRISSI SENZA UN "CANOVACCIO", UNA STORIA INVENTATA, UN PROGETTO DI PUBBLICAZIONE.

IL ROMANZO, CHE E' SEMPRE RESTATO UNA "PRIMA STESURA", FU LETTO DA UN MIO AMICO, GIORNALISTA CHE RIMASE ENTUSIASTA DEL FULCRO DEL RACCONTO E DELLE RIFLESSIONI CHE QUESTO CAUSAVA. MI INCITO' A RIVISITARLO, CORREGGENDO ERRORI DI SINTASSI E GRAMMATICA, CERCANDO POI UNA EVENTUALE PRESENTAZIONE PRESSO LE PRINCIPALI CASE EDITRICI. ALLORA, LA MODA "CUBA" STAVA NASCENDO E, FORSE, SEGUENDO IL SUO CONSIGLIO, AVREI POTUTO CAVALCARE LA TIGRE.

MA, FORSE PER PIGRIZIA O PER DESTINO, LASCIAI IL TUTTO COM'ERA, NON FECI NULLA PER ILLUDERMI E RIMASE TRA LE MIE COSE CARE.

CREDO DI FARE COSA GRADITA AI VISITATORI DI SIPORCUBA PUBBLICANDO QUESTO RACCONTO. QUALCUNO CI TROVERA' UNA EMOZIONE PASSATA, ALTRI UNA EMOZIONE DA VENIRE, ALTRI SPROFONDERANNO NEI RICORDI...
INSOMMA, CREDO CHE LA SUA LETTURA NON LASCI AFFATTO INDIFFERENTI.

l'autore

[Modificato da aston villa 17/03/2007 18.12]

17/03/2007 17:58
 
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Rayko si notava subito.

Il suo fisico, che pareva intagliato nell'ebano più duro, si stagliava sulla spiaggia di polvere bianca di Varadero. I suoi vent'anni, passati alla ricerca di una sopravvivenza quotidiana, brillavano dagli occhi neri e lucenti, incorniciati da ciglia lunghissime, quasi femminee.

Era un jinetero. Vale a dire uno dei tanti ragazzi e ragazze, per di più emigrati da sconosciuti e miserabili paesini di una Cuba ormai morta, per cercare fortuna e dollari in una delle località turistiche dell'isola.

Sempre a caccia dello Yuma da servire e di cui approfittare, per rimediare qualche oggetto regalato o dollari che si sarebbero presto trasformati in puro divertimento, rappresentato da una serata in discoteca oppure nell'acquisto di un paio di jeans italiani.

Quando osservavo tutto questo, ancora non mi ero reso conto di molte verità nascoste e seppellite agli occhi dei turisti, ingannati dalla bellezza delle spiagge tropicali e dal ritmo delle orchestrine del son cubano.

Ritornando a qualche giorno prima, mi trovavo stupito e stordito dopo circa 10 ore di un comodo volo charter che mi aveva strappato da un’efficiente e fredda Milano per catapultarmi in un’allegra ed assolata Varadero. Dopo un’estenuante coda, provocata da un lunghissimo controllo alla dogana cubana, ero stato gentilmente accolto dall’hostess dell'agenzia ricettivista che mi aveva fatto accomodare su di un minibus dai colori stinti, insieme ad altri turisti dagli occhi arrossati dalla stanchezza, per condurci negli alberghi riservati.

L'impatto con la dolcezza che provai fu immediato. Oltre ad un gigantesco cartellone di "benvenuto" e qualche turistaxi, non c'era null'altro che un anonimo paesaggio. Qualche automobile scassatissima risalente agli anni '40/'50, frutto dell'allora espropriazione rivoluzionaria, veniva lentamente sorpassata dal nostro pulmino. Ma fino ad arrivare all'inizio della penisola di Varadero, dov'è ubicata la Marina, la terra bruciata dal sole, non aveva conosciuto ancora nessun tipo di sfruttamento edilizio.

I giorni che seguirono, esaltarono in me, turista single, la realtà che volevo vedere e che volevo cercare di capire. Una rivoluzione socialista fallita? Un sogno realizzato a prezzo d’inenarrabili sacrifici? L'orgoglio caraibico ma tipicamente cubano, dal sapore d’indipendenza? Proprio non sapevo cosa rispondermi. Cercavo di sfuggire dalla realtà stereotipata rappresentata dalle comodità dell'albergo dove soggiornavo, per trovare rifugio nella consapevolezza. Così, svogliatamente partecipavo sempre di meno e con meno voglia ai previsti intrattenimenti dello staff d’animazione, per parlare sempre di più con ragazze e ragazzi del luogo che, dal canto loro, erano ben felici della mia voglia di socializzare.

Alla fine della prima settimana avevo, oltre il colore rosso gambero ed un male cane provocato dalle scottature, anche la presunzione di aver capito tutto o quasi della "mia" isola. Rayko, mi si era avvicinato il secondo giorno "Amigo! Italiano?" aveva quasi gridato mostrandomi denti bianchissimi. Sulle prime non lo avevo neanche considerato, facendogli un cenno con la testa ed un sorrisino idiota. Ma dopo cinque minuti tornò all'attacco "Oyee, amigo...Italiano?"

Faticosamente annaspai sul lettino prendisole fino a raggiungere una posizione di precario equilibrio e mi asciugai il sudore che colava a rivoli copiosi.

"Si, sono italiano. Tu me intiendi?". Mai altra frase fu più idiota di questa. Venne verso di me, superando una invisibile linea di confine che divideva noi turisti, da loro jineteri, appollaiati sulla riva, in attesa.

"Claro che si!" rispose "Ho tanti amici in Italia. Mi chiamo Rayko, e tu?".

Fu l'inizio di una conoscenza che giorno dopo giorno mi faceva sentire sempre più cubano, al costo di qualche dollaro, magliette e saponi.

Rayko iniziò a raccontarmi di se. Viveva già da tre anni in un paesetto, ma più giusto sarebbe considerarlo un agglomerato di misere abitazioni, a circa una ventina di chilometri da Varadero. Nei dintorni di Cardenàs, era ospitato da una signora che, per la cifra di sessanta dollari al mese, forniva a lui e ad altri ragazzi, un posto dove dormire e in cui domiciliarsi. Veniva da Las Tunas, nel centro dell'isola. Seppi in seguito che era tra le più povere province di Cuba, che viveva esclusivamente di agricoltura. In questo ed in altri paesi non frequentati dal turismo occidentale, la popolazione sopravviveva grazie alla "libreta" rilasciata ad ogni capofamiglia, dallo Stato e con il quale si aveva diritto ad acquistare a prezzi politici, generi alimentari e d'uso quotidiano, razionati in base al numero e all'età dei componenti del nucleo famigliare. Il problema, a parte l'esiguità delle razioni cui si aveva diritto, era quello di trovare qualcosa da comprare negli ormai vuoti negozi cubani.

Lo stipendio mensile si aggirava all'equivalente di sette/dieci dollari, pagati in moneta nazionale inconvertibile e svalutabile. Scoprii anche che la gente dell'Oriente cubano -ma la miseria di aggirava ormai in tutta l'isola- mangiava forse solo una volta il giorno e sempre il solito piatto nazionale, il congrì: riso e fagioli neri a volte con l'aggiunta di una banana tagliata e mischiata nel mezzo e, solo in situazioni eccezionali, arricchita con carne di maiale o pollo. Il burro, era riciclato per diverse cotture, così come tutto quanto il resto. Non si buttava mai nulla. Ed ora, vivendo la Patria acquisita dell'eroico e mitizzato "Che", mi ponevo il quesito a proposito dell'uomo nuovo socialista. Esisteva veramente? E tutti i cubani che incontravo e che mi proponevano di tutto, erano i cloni del lìder maximo?

Il sole filtrava attraverso la palma che ombreggiava il tratto d’arenile dove ero mollemente stravaccato. Walkman, occhiali da sole, asciugamano di spugna a tinte sgargianti, Marlboro, catena d'oro con corallo rosso al collo: il classico turista. Così apparivo e così ero davvero. Le affascinanti ragazze dai costumi quasi fosforescenti e dalle immancabili treccine posticce mi ammiccavano da pochi metri, ridendo e parlando ad alta voce tra loro. Forse si stavano dividendo la ipotetica posta rappresentata da quello che io potevo offrire.

Rayko venne da me. "Italiano! Quiere una chica? No problem! Penso io alla figa, alla casa, al carro..."

"Come? Quale chica e quale casa?" risposi un po' sorpreso ed imbarazzato.

"Come, non lo sai? Non è possibile andare in albergo con la ragazza. Devi andare in una casa particular" rimandò lui. "Ma dai, Rayko, se questo è un sistema per guadagnare altri dollari..." replicai.

"Italiano, no! -fece categorico- Chiedi alla reception".

Con la promessa di riparlarne il giorno dopo, raccolsi le mie cose da spiaggia, lasciandogli in regalo una t-shirt, 5 dollari ed una lattina di birra e rientrai in albergo. Ma, prima di arrivare alla reception, mi fermai al bar della piscina, dove due signori, quasi attempati stavano conversando fragorosamente.

Ordinai una Bucanero forte e mi misi a sorseggiare la birra gelata con l'intenzione di captare la conversazione in corso. Tra i due, fortemente abbronzati, c'era quasi una competizione su chi indossasse più oro. Li osservai attentamente: pancetta pronunciata in uno, corpo più asciutto nell'altro; capelli radi che non riuscivano più a nascondere più nulla nel primo, capigliatura lunga e folta racchiusa con un elastico nell'altra. M’immaginai la loro storia. Quello meno appariscente, dalla pronuncia romanesca, sembrava il classico padre di una famiglia quasi numerosa e conviviale. Imprenditore, forse, di un'attività commerciale che aveva visto giorni migliori, se la stava spassando a Cuba, ricercando un amore non più possibile a casa sua a spese del portafoglio gonfio e generoso. L'altro, dall'aria corsara e dalla provenienza nordista, dava tutta l'impressione dell'uomo di vita che ne aveva sperimentate di tutti i colori e, forse, ora qui a vivere il suo canto del cigno prima dell'inevitabile fine. Ma ancora non si arrendeva. E lo si capiva dal suo aspetto di playboy incallito e dal suo modo di fare. Le rughe che incorniciavano il suo volto regolare, si modificavano ogni volta che cambiava espressione mentre seguiva attentamente la conversazione dell'amico romano. Entrambi stavano fumando sigari Montecristo, acquistati di contrabbando al prezzo di 10 dollari la scatola, mentre sorseggiavano drink a base di Havana Club, il più commerciale ron cubano.

"Ma tu fai il gentiluomo oppure il [SM=x1272168]?" chiese il romano.

"Il gentiluomo - ribatté l'altro- e tu?"

"No. No...io faccio il [SM=x1272168]. Due o tre ragazze a sera, dipende..." rispose con aria divertita.

Mi avvicinai incuriosito. "Scusate -dissi- vedo che siete abbastanza esperti, mentre io non ne so molto di usi locali. Potreste darmi alcune indicazioni?". Il nordista accennò ad un sorriso ed iniziò a parlare.

"La realtà è molto articolata. Io vengo a Cuba due o tre volte l’anno, da più di cinque. Ho iniziato a girare l'isola come turista. Ho conosciuto molta gente dalla quale ho appreso molte cose. Ad esempio, nonostante l'embargo in vigore dagli inizi degli anni '60, quest'isola ha in ogni modo vissuto dignitosamente grazie agli aiuti dell'Unione Sovietica che, passava loro, milioni di dollari e tecnologie in cambio della fedeltà politica e della canna da zucchero. Poi, con la caduta del muro di Berlino ed il crollo del comunismo, l'ex Unione Sovietica ha sospeso improvvisamente -come logico- qualsiasi forma di assistenza. Questo ha generato il cosiddetto "periodo speciale", che è ancora in corso. Generi alimentari e di consumo comune non si trovano più, se non con il contagocce e tutta la popolazione è finita in miseria. E così, Cuba, ha deciso di puntare sul turismo, abbassando i prezzi di tutti i servizi alberghieri ed incentivando, così, l'arrivo di valuta pregiata al seguito dei viaggiatori. Ma questo fenomeno ha provocato anche, la corsa al turista ad parte di ragazzi e ragazze, pronti a tutto pur di rimediare dollari e benefici".

Il nordista schioccò le labbra e bevve un abbondante sorso di acqua minerale che, nel frattempo, si era fatto servire. Il romano, dal suo canto, guardava sornione annuendo ogni tanto in segno di approvazione. Il nordista riprese: "Cuba è, oggi, un grande mercato nero. Una Napoli antesignana ma caraibica. Si commercia di tutto: dalle aragoste, vietate ai cubani da oltre trentacinque anni, ai sigari passando dal rum al corallo nero. Poi, tutti s'industriano con tutto. Se ti occorre una taxi privato, prendi un "particular" che per la metà del prezzo dei taxi ufficiali, ti porta dove vuoi. Vuoi una casa per portarti una ragazza oppure per risparmiare rispetto al costo di un soggiorno in albergo? Affitti una casa particular e, con 10-15 dollari, risolvi il tuo problema dell'alloggio. Puoi mangiare in case che ti preparano un pranzo a base di aragosta, riso e fagioli e contorni vari con 7 dollari. Ma sono tutte cose altamente proibite dallo stato. Tu, come turista non sei ovviamente tutelato, sei semplicemente responsabile delle tue scelte, ma i cubani che offrono questi servizi, sono duramente puniti dalla polizia che può perfino mandarli in galera per anni. Eppure, qui fanno tutto per il dollaro". Il nordista spense la cicca del sigaro ormai finito e terminò di bere il drink a base di rum.

"E le ragazze" continuai.

A questo punto intervenne il romano, ormai pronto a dare una mano al suo quasi amico del nord. "Le chiche sono dolcissime e disponibilissime. Amano i turisti per i soldi che danno loro e per la vita di divertimenti che possono fare insieme. E comunque -sospirò- per tutte c'è il sogno di farsi sposare per ottenere il passaporto e la libertà di vivere in un altro paese". Il romano si grattò meccanicamente una guancia e continuò "A Cuba puoi trovare una ragazza con la quale vivere per tutta la durata della tua vacanza. Diventa una specie di fidanzata, novia si dice da queste parti. E come una fidanzata è gelosa, possessiva e, soprattutto, costosa. Oppure, scegli di non legarti e puoi cambiare novia ogni volta che desideri. Basta contrattare il prezzo prima della prestazione sessuale, dai 30 dollari in su...per poi essere nuovamente pronto per nuove avventure".

Il nordista aggiunse "Vero è, che molti nostri connazionali si fanno accalappiare. Pensano di aver trovato l'anima gemella che li farà felici per tutta una vita. Ma, se eventualmente si sposano portando a casa una cubana, questa, il più delle volte, si guarderà attorno per migliorare la sua condizione sociale, magari trovando un altro uomo più ricco e generoso. La loro mentalità è felicemente basata sul divorzio. Pensa che c'è gente che si è risposata cinque, sei volte prima di posizionarsi con il patner definitivamente".

"Insomma -chiesi perplesso- tutta la dolcezza e l'amicizia null'altro sono che delle maschere che servono per prendere il turista all'amo?"

"Sai -rispose il nordista-...il più delle volte è proprio così. Tu, qua, paghi l'illusione di una more magari proibito in Italia. E, siccome le cubane ci sanno proprio fare, molte volte il turista o "pepe" come dicono nel loro gergo, ci casca con tutte le scarpe. Da questo pericolo sono esenti solo pochissimi che, conoscendo a fondo la gente cubana, i luoghi, il loro dialetto, non fanno più parte della categoria dei turisti ma diviene, agli occhi dei cubani, un camajan, cioè uno di loro".

Il romano aggiunse "Io non solo solo straniero. Mi sento turista e grazie al potere del dio dollaro trovo tutti i divertimenti che m'interessano. Per due settimane l'anno, sfrutto il più possibile questa mia condizione senza, però, rinunciare al lusso ed alle comodità dell'albergo".

In quel mentre, passarono davanti a noi tre splendide ragazze. Le osservai attentamente. Una mulatta dal corpo minuto ma con un culo esageratamente pronunciato. Portava le immancabili treccine racchiuse da uno chinon di finta seta. Un'altra era bianca, con una capigliatura bionda ossigenata. Aveva solo un bikini dagli alti slip che le modellavano una gamba lunga e nervosa. La terza era nera come l'ebano. Anche questa aveva una folta e crespa capigliatura sulla quale era ancorata una miriade di treccine lunghissime. Tutte e tre sorrisero mettendo in mostra una felice dentatura bianchissima e s'allontanarono verso la spiaggia, attendendo una nostra risposta. "Vedi -disse il nordista- le ragazze hanno gettato l'amo e per fare questo hanno rischiato parecchio entrando dentro l'albergo".

"Come?" esclamai sorpreso.

"Allora non hai capito bene -aggiunse il romano- Qua da loro, ogni cosa che da noi sarebbe logica è a loro vietata. L'albergo, il bar, il ristorante, la spiaggia e quant'altro riservato a noi turisti, è per i cubani interdetto. Non vedrai mai una ragazza bere un drink seduta a questo bar, a meno che non sia ospite di un turista. Ma quando il turista è ripartito, la ragazza rischia molto. Allora nasce una serie di compromessi a suon di dollari. Una piccola mancia al barman, un'altra alla ragazza della reception, un'altra ancora alla persona della security. Tutti, insomma, sfruttano la situazione finché possono ma nessuno di questi, rischierebbe nulla per proteggere una jinetera".

"Perché si diventa jineteri?" chiesi cretinamente.

"La ragione -disse il nordista- è solamente una: la voglia di avere tutto quello che è possibile e senza faticare troppo".

Il romano ringhiò un ciao lasciandoci soli. Lo vedemmo allontanarsi verso la spiaggia alla ricerca della sua prossima conquista.

"Buffo, vero?" disse il nordista. "Non so" risposi sconcertato.

"Adesso ti faccio io qualche domanda per rendermi conto di cosa cerchi e se il mio aiuto ti occorre davvero - disse il nordista- E' la prima volta che vieni qui e lo si vede. Vorrei sapere se ha conosciuto qualcuno, che impressione ti sei fatto e cosa stai cercando".

Raccontai le mie emozioni ma non erano considerazioni già preordinate. Fuggivano dalle mie labbra nell'esatto momento in cui aprivo bocca. Gli dissi che avevo sempre pensato a Cuba come ad un bell'esempio di coraggio, per via della lotta che aveva intrapreso contro quasi tutto il mondo, dall'epoca della rivoluzione popolare dei barbudos. Avevo letto qualche testo sull'argomento e qualche altro sulla politica cubana che mi avevano dato una infarinatura su quella realtà che, ora, stavo assaporando. Raccontai di sapere la facilità di fare del sesso ma, seppure la cosa m'interessasse, non avevo il coraggio di abusare delle ragazze in quanto mi sarei sentito colpevole di uno sfruttamento, dovuto per lo più, al potere del danaro. E, quindi, avevo fino ad allora, rifiutato di accompagnarmi a bellezze tropicali molto coinvolgenti. La mia sensibilità, anzi, era cresciuta, facendomi vivere di riflesso, le preoccupazioni della gente del posto. Avrei, insomma, desiderato fare qualcosa per loro, per aiutarli oltre alle mie possibilità. Ma fino ad allora, ero rimasto solo con i miei pensieri che non mi facevano sentire ne carne ne pesce, stonandomi così, dal nucleo sia dei turisti che da quello dei cubani. Trovavo difficoltà a tradurre le mie sensazioni in parole perché, queste, non riuscivano a dare la giusta collocazione al mio incrocio di sentimenti e vibrazioni che provavo. Vivevo dei momenti esclusivamente miei mentre osservavo un tramonto che saliva alto nel cielo, così come ritrovavo gli stessi sapori, mentre osservavo i jineteri darsi tanto da fare per guadagnare dollari dai turisti. Insomma, mi sentivo coinvolto nella loro realtà rifiutando, però, qualsiasi ruolo nella stessa. Era come impazzire senza sentirsi addosso nessuna identità. Raccontai di Rayko e quanto fino ad allora mi aveva spiegato e terminai confermando la mia volontà nel conoscere più a fondo la realtà che avevo appena iniziato a sfiorare

Il nordista accennò ad un vago sorriso e s'accese una sigaretta dal forte tabacco nero. "Sai, ho proprio l'impressione che tu sia stato contagiato dalla febbre dell'isola -disse ridendo- E' quella fase che io definisco di innamoramento per tutto ci che si riferisce a Cuba". Rimasi in silenzio osservando una mosca svolazzare sul bordo del bicchiere del cocktail ormai vuoto. "In poche parole, dici che sono...come dire, innamorato di Cuba?" replicai.

"Quello che tu provi, molti italiani lo hanno vissuto prima di te. Non devi sentirti unico. Ti sei mai chiesto perché tanti italiani ritornano diverse volte su quest'isola? Te lo spiego. Iniziano la scoperta durante il primo viaggio, ma il più delle volte é a causa di una ragazza che li fa innamorare. Girano, come t' ho detto prima, amore eterno. Anche se questa è la prassi, le ragazze la rinnovano ogni settimana ad ogni turista che riescono a conquistare. Comunque vadano le cose, Cuba non ammette vie di mezzo: o la si adora o la si odia. Coloro che ne sono stati rapiti dalla sua bellezza, dai suoi ritmi, dai suoi colori, ritornano per rivivere queste emozioni. Ed ogni volta arricchiscono il loro bagaglio personale di nuove esperienze e conoscenze che, come un intruglio magico, si miscelano una volta tornati in Europa. E questa pozione esplode in una sorda nostalgia, in un amore impossibile, in un caleidoscopio di emozioni difficili da controllare e raccontare. S'innesta solo una complicità fra coloro che provano le stesse sensazioni e gli stessi sentimenti e che, magari, si trovano sull'aereo che li sta portando qui".

Vidi in lontananza il romano che si stava accompagnando con la ragazza bionda che ci era passata davanti prima.

"Però -obiettai- molti vengono a Cuba solo per il sesso fine a se stesso. Non mi sembra la stessa cosa di chi ritorna solo per l'amabilità della gente cubana".

"Il sesso, il sentimento...che differenza fa? E' poi una caratteristica soggettiva insita in ognuno di noi a creare le giuste motivazioni che occorrono per darci una giustificazione dei nostri gesti. Chi viene qui solo per fare del sesso è come colui che viene a Cuba per coltivare un amore. Non c'è differenza. Tutti sfruttano quello che desiderano a seconda delle loro emozioni".

Stavo osservando l'allungarsi delle ombre per terra. Tra un pò sarebbe scesa quasi improvvisa la notte tropicale; in sottofondo si poteva ascoltare un trio che stava provando le musiche che avrebbe suonato questa sera ai turisti, dopo la cena al buffet. Il nordista iniziò a guardarsi in giro, segno inequivocabile che il tempo che aveva concesso alla mia sete di sapere, si era esaurito. "Comunque -continuò- stasera potremmo uscire insieme. Conosci la discoteca Havana Club?". Scossi la testa in segno di negazione. "Resta al centro di Varadero ed è uno di quei luoghi dove capirai meglio ciò che ti ho detto. Ci vediamo al bar verso mezzanotte e mezza, prima non ne varrebbe la pena. D'accordo?". "Non sono proprio un tipo da discoteche -risposi- ma sono curioso di vedere cosa succede. A proposito, non ci siamo ancora presentati: io mi chiamo Claudio". "Pierluigi" rispose e con una mezza giravolta sulla punta delle scarpe uscì dalla mia vita in quel bar della piscina, lasciandomi pensoso. Avevo bisogno di una doccia e di aria condizionata.

Una vecchia De Soto del 1948 dall'incredibile massiccia carrozzeria color crema ruggine, ci stava conducendo verso il centro di Varadero. Pierluigi aveva contrattato il prezzo con un ragazzo mulatto dall'aria stanca. Con soli tre dollari potevamo viaggiare, quasi comodi, su di una vettura che aveva quasi mezzo secolo di vita. L'interno non esisteva quasi più. I pannelli erano di cartone e compensato ed erano tenuti tra loro da massicce dosi di filo di ferro. Era la prima volta che utilizzavo una macchina particular ma, a parte il penetrante odore di carburante che mi faceva girare un pò la testa, non avevo che di lamentarmi. Era anche la prima volta in sette giorni che lasciavo l'albergo di sera. Fumi grigio-azzurrini emessi da altre vetture d'epoca coloravano l'aria umida di una qualsiasi notte cubana. Il traffico si formava nonostante l'ora notturna a causa di vetture che si fermavano in panne in mezzo alla strada o a conducenti che si mettevano a chiacchierare fra loro, escogitando il sistema di svoltare la serata. Buik, Chevrolet, De Soto, Ford e quant'altro c'era stato nella produzione nordamericana durante gli anni '40 e '50, si confondevano con le più recenti Lada e Moskovich degli anni '70 e '80 importate dall'Est. Le luci degli alberghi si fondevano con quelle di alcuni locali aperti ai turisti e con quelle delle tiendas Tekade aperte a tutti. Per la lunga striscia d'asfalto che attraversava la località come una precisa scriminatura, camminavano mollemente centinaia di ragazze all'ossessiva ricerca del turista. Erano tutte vestite alla stessa maniera: pantacollant elasticizzati dai colori sgargianti, bolerini di strech che mettevano in risalto seni più o meno prosperosi, scarpe con tacchi vertiginosi, cascata di treccine che non coprivano volti disegnati da trucchi incredibilmente marcati. Ogni tanto, un capannello di gente si accalcava davanti ad un chiosco dove si poteva cercare riparo dalla sete, ordinando birra e succhi di frutta. Pierluigi rise e, voltando dalla mia parte domandò "Allora? Sembra di essere a Rimini di ferragosto? Vedrai all'entrata della discoteca..." e si girò per guardare una jinetera in mezzo alla strada.

L'entrata dell'Havana Club era incredibilmente affollata. Due ali di ragazze e ragazzi facevano da corona al vialetto che conduceva all'ingresso del locale. Trenta metri di persone disposte a tutto pur di regalarsi una serata all'insegna di un divertimento a loro proibito. I ragazzi cercavano di attaccare ogni turista che transitava loro davanti per raggiungere il portoncino della discoteca, proponendo ogni tipo di affare: sigari, ragazze, auto particular, case...tutto sempre sotto l'insegna del dollaro. Le ragazze, dal canto loro, erano messe in bella mostra per vendersi al miglior offerente, richiamando l'attenzione con sorrisi e schiamazzi per farsi, così, scegliere. Riconobbi, tra i tanti, Rayko che, vedendomi, mi raggiunse. "Ehi, italiano, bella sera!" disse con un vago accento del nord Italia. "Si, credo anch'io" risposi sorridendo. "Ascolta. Ti presento mia cugina Fidelia. E' qui da un paio d'ore ed aspetta di entrare in discoteca ma non ha i cinque dollari per pagarsi il biglietto. L'accompagni tu?" e senza attendere la mia risposta, chiamò una ragazza che stava conversando in mezzo ad un gruppo di jinetere. Fidelia era di una bellezza incredibile. Mulatta dalle proporzioni esatte, aveva degli incredibili occhi neri messi in risalto da un sapiente ma leggero trucco. Una minigonna nera metteva in risalto un paio di gambe lunghe e ben tornite così come, un corpetto di pizzo sempre nero, le modellava il busto evidenziandole un bel seno eretto. Le treccine erano accuratamente racchiuse da una bandana che le riuniva a se, per evitare che la massa lanosa si spargesse per tutta la schiena. La bocca era accuratamente dipinta con un rossetto lucido che faceva da contrasto con la pelle vellutata color caffelatte. Mi sorrise e parlò con Rayko molto velocemente. Poi si presentò "Ciao. Mi accompagni dentro? E' molto che aspetto ma nessuno mi fa entrare...". Osservai con la coda dell'occhio il gruppetto di persone dal quale Fidelia si era staccata. Stavano anche loro osservando la scena per vederne il finale. Pierluigi, invece, stava chiacchierando con una ragazza che, sembrava, conoscesse già.

"Si non c'è problema" dissi. Fidelia si mise istantaneamente sotto braccio come un predatore che ha ghermito la sua preda. Mi sentivo strano. Era una bellissima ragazza che mi sarebbe piaciuto conquistare, ma non volevo assolutamente comprare il suo amore. Mentre pagavo l'ingresso pensai -forse per mettermi a posto la coscienza- che stavo facendo un gesto di generosità e che non avrei voluto ricevere nulla in cambio. Ma non sapevo che quello era l'inizio di un'avventura.

L'Havana Club mi accolse con tutto l'assordante rumore che poteva. Luci stroboscopiche, effetti neon e psichedelici, facevano da cornice ad una popolazione di turisti arrossati dal sole e a cubani che ballavano con un ritmo impossibile da imitare. C'era una specie di arena centrale delimitata da una serie di ballatoi e scaloni a scendere. Proprio nel mezzo, si accalcavano i migliori ballerini di salsa e merengue che io avessi mai visto prima. La musica underground si miscelava sapientemente con ritmi dal sapore tropicale rimixati appositamente per le discoteche. E tutto questo, senza uno stridente contrasto tra le differenti fonti di musica. Guadagnai un posto da dove, comodamente seduto, potevo godermi la scena, mentre Fidelia mi seguiva docile come un cagnolino ammaestrato. "Quiere bailar?" mi disse urlando per farsi capire. Al mio cenno di rifiuto aggiunge "Ti dispiace se io ballo un poco?" e senza attendere la mia risposta si gettò nella mischia. Movenze sensuali danzate ad un ritmo infernale animavano ora, il suo corpo. Era come se stessi assistendo ad una gara fra tutti coloro che stavano ballando in quel momento. La musica, davvero assordante, mi prendeva al cervello aiutata anche da un sapiente gioco di luci ed effetti che coloravano la regia di una serata come tante all'Havana Club. Frammenti di danza, volti apparentemente famigliari, sapori ed umori di alcol e sudore, tutto si confondeva in un magma di sensazioni indescrivibile, come in un videoclip musicale. Lei, Fidelia, era al centro della pista, competendo con altre stupende ragazze di colore. Tutti, comunque, ci mettevano l'anima per sfogare fame e disperazione repressa, mentre approfittavano dell'occasione fornitagli da qualche turista sicuramente interessato al dopo discoteca. Terminai di sorseggiare un mojito decisamente annacquato, quando Fidelia tornò da me. "Ti diverti?" le dissi con tutto il fiato che avevo in corpo. I suoi occhi brillavano di gioia e sorridevano mentre aveva iniziato a bere un succo di mango gelato. "Che vuoi fare, dopo?" mi chiese. "Non lo so...ne parliamo quando avrai finito di ballare" urlai. Si gettò nuovamente tra la folla sudata. Osservai l'ora constatando che erano da poco passate le tre e mi sentii improvvisamente stanco. M'avvicinai al bancone del bar per bere qualcosa ma dovetti vincere l'assalto di due ragazze che, mi avevano proposto una calda notte d'amore. Era proprio un luogo dove l'italica stirpe aveva multiple possibilità per immedesimarsi in Rodolfo Valentino. La mia curiosità e le considerazioni elucubrate in rapida sequenza, avevano lasciato spazio ad una leggera emicrania accompagnata dalla voglia di rientrare in albergo. Non riuscivo più a vedere Fidelia mentre il nordista si era già eclissato con una ragazza già da tempo. Uscii dalla discoteca deciso a trovare un taxi per rientrare in albergo ma, all'uscita, un nugolo di ragazze mi si avvicinarono decise a piazzare la loro presenza.

"Italiano!" era Rayko. "Vuoi una casa? Dov'è Fidelia?" chiese con estremo interesse. "E' restata a ballare, credo" ribattei con un pò di noia. "Non ti piace? Vuoi conoscere altre chiche? Ho tante amiche che sono libere e felici di stare con te..."continuò. "Rayko -risposi- sono stanco e non voglio conoscere ragazze stanotte, anzi, mi piacerebbe rivedere Fidelia, se possibile, ma non adesso..". Il cubano mi sorrise "Sapevo che ti sarebbe piaciuta. E' molto bella, e poi non è una vera jinetera. Domani mattina verremo a trovarti sulla spiaggia" e con un gesto rapido attirò l'attenzione di un particular che, pigramente, si avvicinò. "Dagli solo tre dollari e ti lascia a 50 metri dall'albergo. Buena noche italiano..".

Un sole appannato da una teoria di nuvole quasi minacciose, accese la giornata. Era tardissimo e non ero ancora del tutto sveglio neppure dopo una lunga doccia. C'era qualcosa di strano che avvertivo in me ma che non sapevo identificare. Scesi al bar e, dopo aver bevuto un caffè quasi italiano, m'incamminai verso il mare. D'un tratto ricordai di Fidelia e della notte appena passata. Ecco cos'era quella sensazione: l'emozione per un incontro, sollecitato dalla mia voglia di conoscere quella ragazza. Mi si attorcigliarono le budella e rimasi con me stesso a fare una introspezione dei miei desideri. Cosa stavo cercando? Sicuramente mi attraeva fisicamente ma non desideravo comprare il suo amore. Stavo dando delle giustificazioni alla speranza di potere avere un relazione normale con lei? Ma perché quest'isola e tutti i suoi abitanti erano così complicati? Ripassavo mentalmente il discorso fattomi dal nordista il giorno prima. Forse, lui non si faceva più degli scrupoli o, comunque, sapeva come agire in queste situazioni. Ero giunto sulla spiaggia. Una deliziosa fila di ombrelloni di paglia cucivano una zona d'ombra che si adagiava sui lettini già sistemati. Il piccolo chiosco dov'era possibile bere e mangiare era già aperto. Alcuni turisti stavano prendendo il sole che non c'era e molta gente giocava nell'acqua trasparente. Il mare dei Caraibi aveva un colore verde smeraldo che sfumava in mille tonalità in celestino per poi divenire trasparente vicino alla riva. Sul bagnasciuga vidi Rayko in compagnia di Fidelia. Fece dei grandi gesti per salutarmi. "Italiano..pensavo che non venissi più. Ecco, ti ricordi Fidelia?" ed allargò il braccio destro a semicerchio come si usa nei bazar orientali per far vedere la propria mercanzia. Fidelia sorrise dolcemente e mi salutò. "Dove eri finito? Ti ho cercato per l'Havana Club ma non c'eri più" disse con una vocina sconsolata. Pareva che mi conoscesse da sempre e che il no avermi trovato la sera prima, fosse stata la disgrazia più grande che le potesse capitare.

"Ero stanco ed anch'io non ti ho vista più" dissi con una punta di imbarazzo. Ma perché mi dovevo giustificare con lei? Qual'era lo strano meccanismo che mi faceva sentire in colpa? In fondo, neppure la conoscevo e tanto meno le avevo promesso nulla."Amigo -interruppe Rayko- io devo andare a Cardenàs ora. Ti lascio Fidelia: fate amicizia ma ricordati che non può salire in camera tua in albergo. E' vietato". Poi disse qualche frase in un dialetto che non compresi e se ne andò.

"Cosa facciamo?" chiese sorniona. "Sei tu la cubana -risposi- io non so cosa proporre. Decidi tu per tutti e due...". Aggrottò un pò le ciglia come per farsi venire una idea e poi si rivolse a me "Andiamo a Matanzas. Prendiamo un carro, conosco un posto dove possiamo mangiare aragoste e gamberoni in tranquillità" e così dicendo si mise sottobraccio conducendomi verso il parcheggio dell'albergo.

La Chevrolet filava regolarmente a quaranta chilometri all'ora. L'inconfondibile odore del carburante penetrava dentro l'abitacolo ed usciva attraverso le portiere dai finestrini abbassati. Il ragazzo che faceva da autista era amico di Fidelia. Per combinazione, mi spiegò, lo aveva trovato fuori dell'albergo e, quindi, lo aveva impegnato per tutta la giornata con un compenso di cinquanta dollari. Sarebbe restato tutto il tempo con noi per evitarci il fastidio di trovare un'altra auto per il ritorno. Rimuginavo sulla ragnatela di interessi e relazioni commerciali che dovevano regnare sull'economia del socialismo reale. Arrivammo a Matanzas fermandoci di fronte ad una casetta vicino al mare. L'acqua aveva un colore anonimo e non pareva di essere ai Caraibi. Fidelia scese dall'auto mentre il nostro autista rimase seduto al posto di guida. "Scendi, siamo arrivati" mi disse perentoria. "E lui?" le chiesi indicando con la testa il ragazzo della macchina. "No problem. Fa la guardia alla sua auto e poi andrà a mangiare un perro caliente qui vicino. Dai, vieni con me... tienes miedo?". "Cosa dici? Non capisco..." e dicendole questo la raggiunsi. "Miedo è paura, perro caliente è hot dog. Capito?" e sorrise nuovamente. Era proprio bella e dolce. Chissà cosa nascondeva quella dolcezza e se era proprio autentica. Decisi di non angustiarmi la giornata da sterili considerazioni che mi facevano sentire sempre più solo in quella Cuba così singolare. Fidelia bussò alla porta della casetta bianca. Ci aprì una matrona negra dai crespi capelli grigi. "Bienvenidos da mama Estrella" disse allargando le labbra e mettendo in mostra denti gialli da accanita fumatrice. Entrammo all'interno di una spaziosa camera che fungeva da salone. Un tavolo rettangolare era già apparecchiato con una tovaglia di un colore rosa pallido che doveva aver visto giorni migliori e da un pretenzioso servizio di ceramica bianca tutto orli e bordi. Un penetrante odore di cucina assalì le mie narici. Il vecchio televisore era acceso e sintonizzato su Cubavision dove stavano trasmettendo un programma di cartoni animati. Ci sedemmo su di un divano di finta pelle verde alquanto appiccicoso. "Ti piace?". Mi guardai attorno rispondendole "Veramente devo ancora capire..." risposi. Fidelia aprì il suo sorriso e fece brillare i suoi incantevoli occhi neri. Appeso alla parete più ampia troneggiava un grande ritratto di Che Guevara. "Che ne pensi di Guevara?" chiesi a bruciapelo per trovare un qualche argomento che mi mettesse fuori dall'imbarazzo che stavo provando. "Era bravo" rispose senza entusiasmo. Poi aggiunse "Mama Estrella lo ha conosciuto...". Un piccolo fremito scosse il mio corpo. Mi portavo appresso, infatti, l'idea mitizzata dell'eroe della libertà. Quell'idea iconografica che tanti giovani aveva conquistato fin dalla fine degli anni sessanta e per tutti i settanta, cioè, fino a quando l'interesse per la politica attiva aveva coinvolto tutto il mondo giovanile. Dopo, il riflusso ed il ristagno delle idee, la paura del terrorismo, la noia emanata dalla televisione, la sterilità delle conquiste ottenute avevano abbattuto lo stimolo del credere su dei valori portati dall'attivismo politico e, ad una ad una, erano cadute le stelle che avevano infiammato il cuore di molti giovani: Mao, Lenin, Marx. Ma resisteva, comunque, il mito del guerrillero heroico. Resisteva il volto del "Che" che ancora sventolava su bandiere rosse e campeggiava su t-shirt stampate in Thailandia e vendute in tutti i mercatini del mondo. Avevo una mia idea a proposito di quell'uomo. Sin dal mio arrivo a Cuba avevo osservato, e non si poteva altrimenti, che la sua figura era presa e mercanteggiata in ogni occasione: magliette, bandierine, portachiavi. Per non parlare della famosa canzone Hasta Siempre che, per ogni dove, dai locali per finire sulle spiagge, era cantata e suonata a favore dei turisti. Insomma, quello che avevo sempre pensato a proposito della sua figura, si era sbriciolato come mollica vecchia, di fronte alla constatazione dei fatti di cui ero stato testimone: Ernesto Che Guevara era solamente un buon conduttore per fare soldi. Mama Estrella entrò nelle mie considerazioni con una fiamminga sulla quale troneggiava un'aragosta arrostita. Successivamente ampliò il nostro pranzo con piatti di congrì, insalata e banane fritte. Fidelia guardava divertita e compiaciuta il lauto pranzo, non dimenticandosi però, di sbirciare dalla mia parte per osservare le mie reazioni all'arrivo di ogni pietanza.

"Dal momento che dovevamo mangiare, ti ho portato da Mama Estrella perché cucina bene ed è pulita. Ti piace?" chiese. Sorvolai sul fatto che tutto mi sembrava ben programmato da Rayko. Ero un turista e dovevo convincermi del fatto che tutti avrebbero cercato di sfruttarmi fino alla fine. "Si. L'ambiente è tranquillo. Però, dopo pranzo, vorrei parlare con Mama Estrella per chiedergli qualcosa sul Che. Posso?". Fidelia sorrise, annuendo con la testa. Aveva iniziato a riempire il suo piatto con delle incredibili porzioni di cibo, mischiando il tutto in modo da rendere il più possibile, omogeneo il suo pasto. La televisione, nel frattempo, aveva finito di funzionare e la padrona di casa stava armeggiando sui manopoloni per cercare una improbabile riparazione. Dopo avere brigato un pò, la vecchia matrona riuscì a sintonizzare la tv su Tele Rebelde che stava trasmettendo un documentario su Josè Martì, il famoso poeta rivoluzionario dell'800 che tanto aveva fatto per l'indipendenza di Cuba. Continuai a mangiare rivolgendo, ogni tanto, il mio sguardo su Fidelia. Cosa stavo cercando? L'atmosfera che si era creata era falsa. Tutto era stato programmato con meticolosa cura dei particolari. Era come un gioco. Loro sapevano che io sapevo, ma tutto questo non aveva nessuna importanza. Mi trovavo per la prima volta in una casa particular a mangiare un pranzo particular e tutto accompagnato da una splendida jinetera. Sapevo che sarei finito a letto con lei ma non accettavo di ottenere quello che desideravo in quel modo. L'aroma del caffè Cubita, aleggiò per l'aria umida e calda della casa seguito da Mama Estrella che entrò nella stanza con un minuscolo cabaret con due tazzine. La vecchia negra, dal volto imperturbabile, lasciò tutto sopra il tavolo sparecchiando abilmente i piatti ormai vuoti, delle pietanze. Fidelia avvicinò la tazzina alla bocca ma non bevve. Mi guardò incuriosita chiedendomi "Non ti diverti?" ed attese la mia risposta. Accesi meccanicamente una sigaretta. "Il problema non è questo. Sto bene insieme a te. Solo che vorrei stabilire un rapporto differente, mi capisci?" le chiesi aspirando la prima boccata di catrame. Lei rimase stupita ed interdetta. "Non ti piaccio?" disse mentre allargava i suoi occhi da cerbiatta ferita. "Moltissimo" replicai sinceramente. Si alzò dalla sedia e, girando attorno al tavolo, venne da me cercandomi la mano. "Vieni" disse. Intimidito mi lasciai guidare verso la camera da letto. Un vecchio condizionatore rinfrescava sufficientemente l'ambiente modesto: un letto quasi matrimoniale, due comodini di legno chiaro consunti dalla salsedine, un piccolo comò con uno specchio appeso alla parete, una sedia. Fidelia chiuse le imposte realizzate come si usa a Cuba, da piccole assicelle di legno comandate da una guida laterale. La stanza piombò nella penombra e, con mosse calibrate, iniziò a spogliarsi: prima della minigonna rossa, poi del bolerino elasticizzato nero che indossava la sera precedente. Restò semplicemente vestita con un minuscolo perizoma nero. Mi sdraiai sul letto continuando ad osservarla. Era stupenda. Il corpo proporzionato e ben fatto, era inguainato dalla sua pelle vellutata. Nella poca luce, riuscivo a decifrare il suo sorriso sicuramente abituato a vedersi specchiato nella bramosia che suscitava verso i turisti che si erano trovati nella mia stessa situazione. Candidamente mi chiese "E tu non ti spogli?" e si gettò al mio fianco. Una miriade di pensieri affollarono disordinatamente la mia mente. La strinsi vicino a me. Sarebbe stato bello se fosse stata la mia ragazza, pensai con un certo senso di disagio.

"Fidelia...tu mi piaci moltissimo e mi attrai tanto. Il problema è che vorrei riuscire a stare con te, se tu veramente lo desideri. Cioè -dissi confuso- non ti voglio avere solo perché posso darti dei dollari per farlo. Mi capisci?". Lei mi osservò divertita. "Ma che problema c'è? Se ti piaccio possiamo fare l'amore. Hai i preservativi" chiese diretta.

"Fidelia, forse non hai capito -continuai- io desidero conoscerti, stabilire una relazione normale, senza comprarti...". Le accarezzai dolcemente il viso incorniciato dalle lunghe treccine. "Se non ti piaccio -fece quasi piagnucolando- potevi dirlo a Rayko...avrebbe trovato un'altra cugina che ti andava bene...forse bianca" e così dicendo si raggomitolò su se stessa, fuggendo dalla mia stretta. Mi sentivo come un animale in gabbia. Mi piaceva e la desideravo ma non accettavo quel modo di conquistarla. Mi faceva tristezza credere che lei, forse, stava soffrendo a causa del mio atteggiamento. Avevo cercato di spiegarle le che non si trattava di un problema di bellezza o di preferenze ma solo un modo diverso di vedere le cose. Accesi un'altra sigaretta mentre continuavo le mie considerazioni, pensando a quanti turisti avevano fino ad allora rinunciato alle sue grazie. Mi venivano in mente il romano ed il nordista. Chissà se al mio posto avrebbero avuto i miei stessi scrupoli. Cuba, ancora mi stupiva. Fidelia si stava rivestendo delusa come deluso trovai lo sguardo di Mama Estrella quando mi vide oltrepassare la porta della camera da letto, per raggiungerla nella minuscola veranda, dove si faceva cullare da una antiquata sedia a dondolo. Le sedetti accanto. "Fidelia mi ha detto che ha conosciuto Guevara..." dissi scandendo bene le parole affinché mi capisse. "Fuè un hombre muy heroica. El Che amava la gente. Me intiende senor? Si tu quieres yo te hablo en italiano..conosco un poco la vostra lingua" e tossì. "Dimmi Estrella...quando lo ha conosciuto?" chiesi."Agli inizi degli anni sessanta quando era Presidente del Banco Centrale. Io lavoravo al Ministero e ci fu una assemblea per premiare quelli che avevano ben lavorato per lo stato. Io ero stato premiata e il Che mi consegnò una medaglia. Quanto era bello...". Si alzò all'improvviso e tornò subito dopo con una sbiadita foto in bianco e nero che mi allungò. Si vedeva Estrella trenta anni prima, più magra, mentre stava ricevendo il premio ed una stretta di mano dal Che. Lui, il mito, l'eroe, era vestito come sempre appare: divisa militare, pistola nel cinturone, basco nero. Ma dalla foto si leggeva un sorriso aperto, umano, cordiale. Sentii una emozione forte e continuai il mio interrogatorio. "Com'erano quei tempi?". La vecchia continuava a farsi dondolare dalla forza di inerzia. Fidelia apparve alla porta e ci raggiunse sedendomi sulle ginocchia. "Era tutto bello. El pueblo, credeva nella revolucion e lavorava duramente. Stava per finire l'analfabetismo e gli ospedali funzionavano nonostante el Bloqueo yankee. C'era molta speranza nel futuro ed i russi mandavano aiuti e dollari. Il Che aveva chiesto uno sforzo per aumentare la produzione della zafra. Si creò il lavoro volontario che veniva svolto nei momenti liberi. Ogni CDR reclutava companeros che, alla fine del loro turno di lavoro e nelle giornate di festa, andavano ad aiutare i millioneros, cioè i raccoglitori di canna da zucchero, nella loro raccolta. Tutto però era gioia e speranza e questo grazie a Fidel e al Che, che avevano acceso nel popolo la scintilla della dignità nazionale". Emise un sospiro carico di nostalgia e ricordi e s'accese una sigaretta senza filtro. Poi continuò "Il problema oggi, è la povertà. Nessuno aiuta più la nostra isola. Fidel deve lottare contro tanti nemici: i nordamericani, i cubani di Miami, il Fondo Mondiale, l'ONU. Tutti i capitalisti sono contro di noi e oggi, sena più sostegni materiali, ci troviamo in una situazione molto difficile. A noi vecchi, non ci fa paura. Abbiamo vissuto sotto la dittatura di Batista e la rivoluzione. Abbiamo vinto il banditismo della Sierra e lo sbarco controrivoluzionario della Baia dei Porci, sempre portando avanti le nostre idee. Non c'è più analfabetismo a Cuba. Ci sono Ospedali e policlinico per tutta l'isola. Il popolo gode dell'assistenza della libreta. Quello che mi preoccupa sono i giovani. Non hanno conosciuto tutto questo. Vedono solo i divertimenti e amano copiare le mode e gli usi che vedono dai turisti. A Cuba c'è anche la libertà di non lavorare...sarà la fine di un sogno". Uno scheletrico gattino attraversò il campicello desolato che ci stava davanti, cercando tra la spazzatura qualcosa da mangiare. "E adesso qual'è la soluzione?" le chiesi fissandole il volto rugoso ma pulito. "Combattere siempre l'imperialismo. Finché ci saranno Fidel y Raul, Cuba sarà sempre libera dal capitalismo". Inalò una buona dosa di ossigeno come per convincersi delle sue ragioni e continuò "Purtroppo, il periodo speciale è duro per tutti. E tutti si sono organizzati per guadagnare qualche dollaro dai turisti anche se va contro la logica del comunismo. Ma i giovani sono attratti da altre cose e non sanno bene che così, finiranno per complicarsi la vita". Fidelia si strinse a me cercando di comunicarmi qualcosa con il solo tatto. "Ho sete" disse ad un tratto interrompendo i ricordi di Mama Estrella. La vecchia s'alzò faticosamente andando in cucina e lasciandoci soli.

"Non ti annoi?" chiese con una smorfia. Con quella sua domanda mi aveva fatto comprendere di sentirsi esclusa da quella mia ricerca di verità; voleva rimpossessarsi di me e delle mie attenzioni. Estrella tornò con due bicchieri di birra e ci lasciò soli. Aveva afferrato il non troppo oscuro messaggio lanciatole da Fidelia. "Se ti interessa, possiamo tornarci un'altra volta". Annuii con la testa e l'accarezzai dolcemente. Era la mia illusione "Fidelia, vorrei che noi ci conoscessimo meglio. Mi piacerebbe che tu restassi con me per il tempo che mi resta da passare ancora a Cuba". Lei sgranò gli occhi guardandomi incredula "Sicuro? Non è uno scherzo -domandò sorridendo -Se tu vuoi posso restare con te nel tuo albergo ma devi pagare per un'altra persona". "Ma se Rayko mi ha detto che non è possibile...."risposi. "Lui pensava che tu non volessi pagare l'albergo anche per me, ma se vuoi, puoi andare alla reception e pagare...Veramente vuoi?".

Lasciai cinquanta dollari a Mama Estrella, anche se il prezzo era decisamente inferiore, contento di quella giornata promettendole di tornare a farle visita. L'entusiasmo di conoscere Fidelia aveva preso il sopravvento sulla mia razionalità e la possibilità di averla ospite fissa per il resto del mio soggiorno mi aveva alquanto eccitato lo spirito. Mi trovai a recitare la parte del turista scemo al direttore dell'albergo, il quale aveva minuziosamente controllato il documento di identità di Fidelia e pretesa il pre pagamento della sua quota, infine emettendo una specie di tesserino col quale si certificava che Fidelia Zunigo Eccevarria era una cliente dell' hotel fino al successivo sabato. Eravamo in precedenza passati a Cardenàs, nella casa in cui viveva Fidelia, a prelevare le sue cose raccolte alla rinfusa in una piccola borsetta da viaggio che, svuotò diligentemente, una volta messo piede nella mia camera.

"Ti amo!" disse raggiante uscendo dal bagno dopo essersi fatta una doccia ristoratrice. Mi venne da sorridere, pensando all'incongruenza di quella frase che suonava così artefatta, ma non volevo deluderla: dovevo continuare ad indossare il ruolo di chi fa finta di non capire di essere l'oggetto del desiderio. Ci sdraiammo sul letto ed accesi la radio già sintonizzata su Radio Taino, l'emittente cubana dedicata ai turisti, da dove s'irradiavano musiche di salsa e merengue. La camera che ci ospitava era fresca grazie ad un buon condizionamento dell'aria. Mi sentii, all'improvviso, gratificato da quella situazione. Ma mentre riflettevo, Fidelia si avvicinò teneramente e mi baciò. Fu l'inizio di un incredibile amplesso che più si srotolava nel tempo, più assumeva contorni decisamente eccitanti tra una miriade di sensazioni ed umori selvaggi. Tutta l'anima caraibica di ceppo africano, era riassunta in lei che la dimostrava pienamente con mosse, gridolini, sembianze giocose e voglie represse. Alla fine, stremato, mi lasciai andare addormentandomi abbracciato al suo corpo. Quando mi svegliai, Fidelia dormiva ancora. Accesi una sigaretta pensandomi di non essermi affatto sottratto al ruolo che non avrei voluto ricoprire e, cioè, quello del bieco sfruttatore di situazioni. Cercavo una giustificazione plausibile a quanto era accaduto. Lei mi piaceva, amavo quell'isola, avevo delle dolci idee su un mio probabile ritorno. Mi domandai se non avrei potuto sviluppare un qualsiasi progetto che mi legasse per sempre a quei valori che mi erano sconosciuti in Italia, in fondo, qualsiasi amore aveva pur un inizio e quello, poteva essere il mio con lei. A quel punto mi sorpresi a pensare ciò che rappresentavo per Fidelia ma non m'illudevo troppo: ero sempre un turista con i dollari. Fu con quell'ultimo pensiero che spensi rabbiosamente la sigaretta e mi chiusi in bagno per fare una doccia.

Il ristorante dall'albergo era pieno di turisti e camerieri. Eravamo l'unica coppia mista e stavamo suscitando una certa curiosità. Osservando attentamente i turisti, percepivo che quasi tutti i loro discorsi erano accentrati su di noi. La bellezza della ragazza, l'idea che potesse essere una qualsiasi prostituta, l'anomalia della situazione: tutto contribuiva al formulare di mille e più domande e discussioni che s'intrecciavano tra i clienti, tra una pietanza ed un'altra. Il personale cubano, cuochi e camerieri, osservavano con estremo disgusto il nostro tavolo. Era fuori luogo che una loro compagna potesse stare con un turista in quella situazione. Le jinetere erano disprezzate da tutti perché rifiutavano quasi tutti i rapporti sociali con i cubani. Vivevano in un mondo a parte, dove i soli valori erano rappresentati dai turisti conquistati, dai divertimenti rubati, dai dollari guadagnati e dai benefici che potevano trasmettere ai famigliari più prossimi. Tutto il resto non contava più di tanto. Fidelia non cercava di sfuggire a quella insolita scena. Anzi, la divertiva e cercava, sempre di più, di evidenziarsi solo per il gusto della provocazione. All'inizio ero alquanto impacciato. Mi sentivo al centro dell'attenzione generale, guardato a vista da tutti, poi mi abbandonai al gioco che lei aveva cominciato. Iniziavo a prenderci gusto nel ridere di tutti quei turisti che si affannavano a giudicarci. Quanto poi, al personale di sala, seppur dispiaciuto per il loro comportamento gentilmente ostile, non ci prestai più attenzione sorvolando, in quel modo, di pormi qualsiasi problema. Ad un certo punto della cena Fidelia disse "Quanto sono stronzi. Guardali i cubani...sono invidiosi di te perché tu mi hai ed io posso mangiare quello che voglio!" "E i turisti?" le chiesi. "Stronzi uguale. Pensano che io vada con tutti per soldi ma non è così. Devi sapere che sono io che scelgo con chi stare" rispose seria. "Perché, tu mi hai scelto?" le rimandai. ""Claro! Ti avevo visto in spiaggia da solo. Mi sei piaciuto ed ho chiesto a Rayko di presentarmi a te" rispose continuando a mangiare delle fette di banana fritta. Cercai di ricordarmi di lei facendo un rapido fashback ma nulla affiorò dalla mia memoria. Continuai. "...E quando mi hai visto?". Si pulì le labbra col tovagliolo e confessò "Tu sei arrivato sabato scorso e ti ho notato quando stavi in attesa delle chiavi della tua camera. Poi, anche la domenica mattina, quando hai fatto una passeggiata in riva al mare..poi, il lunedì mentre eri...". La interruppi "Insomma, mi hai seguito?". "Qua a Cuba, le ragazze cercano di fare delle conoscenze. E' molto importante l'aspetto ma anche il comportamento del turista. Tu sei sempre stato molto gentile con Rayko, poi non hai voluto ragazze da singare e ho capito che mi piacevi" aggiunse. "E sono stati molti quelli che ti sono piaciuti in passato?" chiesi. Abbassò gli occhi non rispondendo a quella stupida domanda. Mi morsi le labbra pensando a quanto fossi stato indelicato. Due lacrime solcavano ora quell'incantevole viso, sgorgando dai suoi occhi umidi. Si schiarì la voce e prendendo le chiavi della stanza si eclissò lasciandomi solo con i miei stupidi pensieri. L'uscita improvvisa di Fidelia dalla sala ristorante provocò una ulteriore interesse alla curiosità quasi sopita dei commensali, ormai abituati alla nostra promiscua presenza, i quali trovarono un altro spunto di conversazione. Dopo aver firmato il conto, raggiunsi il bar,posto al centro della piazzetta dell'albergo. Il nordista stava sorseggiando un Cuba Libre, fumando l'immancabile Avana. Vedendomi mi salutò come fossi un vecchio amico."Conquiste?" chiese sorridendo. Gli raccontai di quello che mi era accaduto a partire dalla serata dell'Havana Club in poi, dettagliando il mio stato d'animo a proposito della mia relazione con Fidelia senza rendermi conto del nervosismo che mi stava salendo. Il nordista assorbì il mio sfogo con estrema attenzione continuando a centellinare il suo drink. Il mio era uno sfogo in piena regola e, man mano che parlavo, mi rendevo conto di stare a fare una vera autocritica a proposito delle false sensazioni che avevo provato. Alla fine mi sentii svuotato da quella lunga confessione.

"Il problema è che tu sei innamorato di una idea di bellezza che qui hai trovato in Fidelia. Per te, lei rappresenta la dolcezza, la dignità e la fierezza di un popolo, le sofferenze di molte generazioni che sono passate da una dittatura coloniale ad un regime di piattezza che doveva assicurare loro un benessere che non hanno. Tu trovi in questa situazione, quanto non puoi trovare in Italia, nel tuo lavoro, nei tuoi amici, nelle tue azioni quotidiane. Per te, Cuba, e per Cuba Fidelia, è uno sfogo alle tue repressioni più o meno larvate. Hai anche manipolato la tua voglia di essere, fintanto che ti sei illuso di vedere quello che volevi vedere ma sei sempre rimasto te stesso. Un esempio è la stupida domanda, atto di gelosia e possessività, che hai rivolto stasera alla tua novia. Cosa avrebbe dovuto risponderti? Che eri il suo unico e più grande amore? Fidelia è una jinetera e come tale ha vissuto e vivrà anche dopo la tua partenza dall'isola. Non puoi fare nulla per modificare la sua realtà". Sospirai, pensando a quanto avesse colto nel segno. Dimostrava di essere un buon conoscitore di Cuba e un ottimo psicologo. A me restavano tutti i problemi che mi ero creato senza sapere come risolverli. "Hai suggerimenti da darmi?" chiesi. Fece degli anelli di fumo mentre rimuginava, poi rispose "La tua donna dovrebbe essere come le altre ragazze cubane. Per loro, l'infanzia non c'è mai stata. Sono, quindi, come delle bambine non realizzate. Il mio solo consiglio è quello di regalagli una bella bambola con la quale, la tua novia, può giocare a fare la mamma. E' sicuramente meglio di un mazzo di fiori...il resto lo devi inventare tu, se tieni a scusarti con lei". Da lontano arrivava il suono della piccola orchestrina, che suonava canzoni melodiche a favore dei turisti che, immaginavo, ballare teneramente al ritmo del son cubano. Guardai il m io amico continuare a sorseggiare lentamente il suo cocktail e a ridere, con lo sguardo, del mio piccolo dramma. Lo salutai e mi avviai verso la tienda dell'albergo. Per mia fortuna la trovai ancora aperta e cercai, tra shampoo e magliette, una piccola bambola da regalare a Fidelia. Non c'era una grossa scelta, anzi. Rimediai solo un piccolo pupazzo di plastica che, nelle intenzioni, doveva assomigliare ad un neonato. Made in Hong Kong ed esportato da una ditta napoletana, questo recitava la targhetta. Non potevo pretendere di meglio per cinque dollari. Salendo la rampa di scale che mi conduceva alla mia camera, mi accorsi di come stesse battendo forte il mio cuore: era come andare al primo appuntamento con una ragazza. L'emozione, l'ansia, il desiderio e la paura si confondevano insieme, mettendomi una strana agitazione addosso. Cosa mi stava accadendo? Aveva ragione il mio amico nel dirmi che ero l'artefice di tutto questo guazzabuglio, oppure ero solo una vittima predestinata dalle circostanze? Fidelia aprì la porta della stanza. Indossava una minuscola vestaglia da notte molto lisa e stropicciata ma pulita. Senza dirmi nulla ritornò a sdraiarsi sul letto a vedere la televisione, sintonizzata su di un programma trasmetto da un canale satellitare. Le sedetti accanto iniziandole ad accarezzarle i capelli. Chiusi gli occhi: avrei voluto regalarle la luna ed invece avevo solo quello stupido pezzo di plastica stampato, nelle mie mani. "Scusa" le sussurrai e le diedi il piccolo giocattolo. Un gridolino di gioia ruppe quell'imbarazzato silenzio. "Per me? Ma è bellissimo amore..." e si impossessò del bambolotto. Era comico tutto questo. Fino a pochi attimi prima, regnava un'atmosfera pesante mentre adesso sembrava essere all'asilo materno. Fidelia giocava con il pupazzo rigirandoselo tra le mani mimando gesti antichi che si sviluppano tra mamma e figlio. Aveva acceso in lei l'interesse ed i suoi occhi brillavano di luce perforando il buio della notte e sorrideva con gusto mentre accennava nenie cubane:::

Le notti si erano alternate ai giorni. Andavo avanti con il mio rapporto con Fidelia. Avevo scoperto molte cose di lei: era una continua emozione lo starle vicino. Aveva un fratello di nome Jorge che stava facendo il servizio militare presso una caserma dell'Avana. Sua madre, Fanny Maria, era rimasta al paese natale: Moron, nella provincia di Ciego de Avila. Era separata dal padre di Fidelia e si era risposata con Hector, un brav'uomo che lavorava come netturbino e cercava di arrotondare le entrate con qualche piccolo lavoretto di giardinaggio nell'albergo della cittadina. Possedevano una misera casetta di pochi metri quadrati dove dovevano convivere, dividendo quello che non c'era. Il bagno non aveva acqua corrente e si doveva provvedere a questa, riempiendo i secchi; per il telefono si erano messi d'accordo con una loro vicina che dava la possibilità di ricevere le telefonate in cambio di qualche peso a chiamata; il mangiare era sempre rappresentato dal congrì; avevano una piccola televisione in bianco e nero dove vedevano, soprattutto, le telenovele per le quali andavano matti.Non c'erano topi ma, in compenso, regnavano le piattole. Per questi motivi, Fidelia aveva messo le ali per cercare fortuna a Varadero già da tre anni. Mi raccontò di come era stato difficile entrare a far parte delle jinetere e, con molta diffidenza, mi raccontò qualche episodio delle sue passate esperienze. "Vedi -disse- il mio sogno è quello di potermene andare via da qui ma è difficile. Qualcuno deve farti un invito all'Ambasciata, con questo io posso chiedere il passaporto ed il visto d'uscita. Ma il turista mi deve comprare il biglietto aereo e a provvedere al mantenimento per tutta la durata del mio soggiorno all'estero...non è facile trovare qualcuno che si impegni in questo modo. Il mio rimarrà per sempre un sogno...vedere altre città, altre genti..Roma, Milano, Cuneo..". "Cuneo?" la interruppi. "C'è una grande discoteca. Me l' hanno detto degli amici italiani che sono stati a Varadero in primavera" aggiunse. Anche lei aveva il suo sogno formato da speranze, come tutti. Mentre io sognavo di vivere a Cuba, Fidelia sognava di vivere in Italia. "Guarda -cercai di spiegarle- l'Italia non è come credi...c'è molta gente senza lavoro, molta senza casa...c'è razzismo contro gli immigrati specie quelli di colore...c'è il traffico, la delinquenza..". "Mangiate tutti i giorni?" domandò candidamente. Lì finì il mio intervento. Era stata logica e lapidaria, avevo molte cose ancora da imparare, ma avevo ancora due giorni prima del mio rientro.

L'aeroporto di Varadero era pieno di turisti allegri. Tutti esibivano con fierezza, l'invidiabile abbronzatura dei tropici che contrastava con le magliette bianche o colorate, acquistate nei negozi dei vari alberghi. Per tutti, un souvenir, un ricordo, un acquisto: bottiglie di rum, cappellini di foglia di palma intrecciate, manifesti, scatole di sigari. Alcuni erano allacciati alla giovane sposa con la quale avevano celebrato la luna di miele tutto compreso; altri erano gruppetti di amici che stavano finendo di raccontarsi addosso aneddoti ed episodi di conquiste coronate dall'immancabile successo. In disparte vidi altre coppie: italiani con le loro fidanzate cubane, com'eravamo Fidelia ed io. Lei aveva insistito per accompagnarmi all'aeroporto. Con gli occhi umidi ed il groppo in gola, le coppie miste si stavano giurando amore eterno e promesse mentre si scambiano tenere effusioni. Con una lattina di Tropicola strette nelle mani, Fidelia si era accucciata su di una stretta panca ed osservava il mio daffare per le procedure di imbarco. Non avrei voluto partire ma la mia vacanza era davvero conclusa ed era giunta l'ora di ricatapultarmi nella mia realtà, fatta di pure preoccupazioni occidentali. Mi sedetti vicino a lei. "Mi mancherai" le sussurrai. "Ti prego...scrivimi e telefonami. Io ti voglio bene e vorrei che tornassi presto" mi disse con un filo di voce. "Tranquilla -aggiunsi- al mio arrivo a Milano, cercherò di mettermi in contatto con te e provvederò a spedirti un pacco con tutte le cose che mia hai chiesto...Ma tu, non dimenticarmi" e così dicendo le misi in tasca gli ultimi dollari che mi erano rimasti, anche se sapevo che non era con quella manciata di soldi che avrei potute comprare il suo amore. Fidelia si mise a piangere sommessamente cercando di trovare la sua dignità dentro un kleenex. L'altoparlante gracchiò qualcosa a proposito del volo in partenza per Milano, il mio tempo con lei era davvero finito. "Fidelia, io volevo dirti...si, insomma, mi mancherai...". Lei mi strinse forte e le sue labbra si incollarono alle mie per un ultimo tenero bacio di addio. Mestamente oltrepassai la dogana entrando nel settore riservato ai passeggeri in partenza. Lei era uscita dalla mia vista lasciandomi il ricordo dell'ultima immagine che era stampata nella mia memoria. Seguii silenziosamente un gruppo ciarliero e festoso che si avvicinava a piedi alla scaletta dell'aereo. Il sole stava scendendo tra i miseri palmizi che circondavano l'aerostazione e l'aria profumava di nostalgia. Fidelia si stava allontanando dalla mia vita.



17/03/2007 17:59
 
Quota
Milano era fredda quella mattina.

Il traffico caotico della tangenziale, era l'unica cosa rassicurante di quel giorno, uno come tanti altri: sveglia, caffè, lavoro, bollette da pagare, telefonino che squilla in continuazione. Inserii nello stereo la cassetta che avevo riportato da Cuba e subito una musica salsa riempì l'abitacolo. Nei mesi trascorsi, avevo pensato spesso a Fidelia e a quel mio primo viaggio nella patria del Caribe. Non ero riuscito a spedirle il pacco promessole in quanto, la convulsità della vita mi aveva ripreso e recluso nei suoi ingranaggi: non c'era tempo per gli acquisti. Avevo compensato a questa mia mancanza, sommergendola di telefonate e di lettere. Ma il sistema postale era lento ed io avevo ricevuto solo tre sue lettere, anche se mi avevo giurato di averne scritte molte di più. Mi aveva raccontato della nostalgia che provava per me, chiedendomi quando sarei tornato a Cuba. Mi aveva anche scritto di aver conosciuto altri turisti estremamente diversi da me. Durante lunghe conversazioni telefoniche mi chiedeva ripetutamente della mia vita, di cosa facevo quotidianamente cercando di conoscere più dettagli possibili per potermi immaginare in vari momenti della mia giornata. Ma, oltre Fidelia, la cupa nostalgia pronosticata a Varadero da Pierluigi, aveva preso il sopravvento sin dal volo di ritorno in Italia. Ricordo di come, le lunghe ore sull'aereo non passassero mai. Avevo ascoltato i discorsi di qualche altro passeggero. Alcuni contenti della vacanza trascorsa stavano progettandone un'altra per poter riabbracciare le proprie fidanzate cubane, facendo -nel contempo- ragionamenti stereotipati, del tutto simili a quelli che facevo io. Noi single del volo Varadero-Milano, sembravamo fotocopie di turisti innamorati fatti in serie. Avevamo vissuto tutto allo stesso modo: la novia, la casa particular, il paladar, il carro particular, la cena a basa di aragosta e gamberoni, il solo del tropico sulla pelle...insomma emozioni del tutto differenti a quelle che ci accompagnavano abitualmente. Il nordista lo aveva detto.

Ed ora qui, stretto tra il sedile e la noia, a sognare spiagge infinite ed un amore non troppo originale.

Ma la voglia non diminuiva, anzi. Decisi che mi sarei meglio documentato su Cuba e, per questo, entrai in una grande libreria per scegliere tutti i volumi che parlavano di Cuba, della rivoluzione, di Guevara e Fidel. E mentre il tempo scorreva, mi ritrovavo a divorare testi di narrativa, politica, guide, romanzi, articoli di tutto ciò che era dedicato alla mia isola, diventando teoricamente, un discreto conoscitore della realtà cubana. Avevo iniziato minimamente a comprendere la storia di questa incredibile isola che, sin dal tempo degli indiani Tainos e Siboney, aveva combattuto una personale guerra a favore della sua indipendenza e libertà. Secoli e secoli di dominazione, seguiti parallelamente da resistenza ed orgoglio nazionale, si erano succeduti forgiando quella voglia di libertà e dignità che, atavicamente, si era incarnata nelle generazioni di cubani di ogni epoca. Certamente la rivoluzione socialista di Fidel, non era riuscita a forgiare l'uomo nuovo socialista ma, esplorando bene, vi erano tutte le giustificazioni per motivare l'evidente insuccesso: oltre quant'anni di embargo mondiale, l'imposizione da parte del fratello gigante sovietico della mono produzione agricola della canna da zucchero, la difficoltà di portare avanti il lungo e difficile passaggio fra l'economia capitalista e quella socialista, la continua tensione provocata da micro e macro crisi diplomatiche soprattutto con gli Stati Uniti ed i suoi alleati. Nonostante tutto questo, la piccola isola a forma di coccodrillo, aveva tenuto testa al capitalismo mondiale anche dopo l'inizio del periodo speciale, quando cessarono di colpo gran parte degli aiuti forniti dall'Unione Sovietica. Ce n'era a sufficienza per capire la battaglia combattuta e vinta ogni giorno da undici milioni di cittadini dell'isola. Fidel non era poi quel mostro che tutti i media del mondo amavano descrivere: la dittatura era l'unica via per far durare, il più possibile, la coesione formatasi col suo popolo, anche se questo andava a discapito delle individuali libertà. Ma in questo ragionamento, spesso portato da me in cene conviviali tra amici e conoscenti, ero solo. Nessuno, neppure coloro che sapevo politicamente simpatizzanti a sinistra, aveva la piena coscienza della realtà che illustravo. Mi emarginavano di fatto, tacciandomi di essere a favore delle non libertà e che Fidel, oltre che essere un pazzo fuori dal tempo, curava solamente i suoi interessi di casta e censo. Durante le discussioni, il luogo comune che regnava era la sola idolatria per il "Che", vero uomo che, a detta di tutti, era scappato da Cuba non solo per liberare altri popoli repressi ma,in principal luogo, per sfuggire all'inizio della dittatura di Fidel. E mentre aleggiava questa "grande verità" sempre sbandierata dal comunista di turno, mi veniva in mente il fatto che anche la destra italiana, aveva iniziato a tessere lodi di ammirazione per il dottore Guevara Ernesto De La Serna, quasi a voler porre un diritto di prelazione sul prossimo e futuro domicilio politico della sua figura. Ero decisamente solo ma, forse, il mio era un isolamento che mi ero costruito attraverso il gioco del voler vedere solo quello che volevo. Forse, i miei amici, avevano ragione: Fidel era sempre stato un mostro disumano ammazza bambini. Forse, la sua, era una messa in scena di qualcosa tendente a coprire i suoi narcisismi ed egocentrici interessi. Non spettava certamente a me, pontificare e giudicare la storia di un regime e di un popolo, ma ero certo delle mie idee e convinzioni. D'altra parte, non riuscivo più a comunicare i miei sentimenti per questa terra che mi aveva coinvolto al punto di farmi rifiutare qualsiasi precedente mia collocazione. Trovavo tutto avulso e senza costrutto: i miei interessi, il mio lavoro, gli amici. Nulla m'importava tranne che di Fidelia e di Cuba.

QUella sera stavo uscendo da un negozi del centro quanto una voce gridò "Ehi! Cubano!". Era Pierluigi, il nordista. Abbronzato come sempre, dinamico nel portamento e nell'indossare un abbigliamento casual. S'avvicinò con un grosso sorriso stampato sulla faccia. "Chi si vede..."esclami con vero stupore. Era l'unica persona che in quel momento, potevo accettare, sicuro del fatto che lui poteva comprendere i miei sentimenti e le mie sensazioni.

"Da quanto tempo, eh!?" rimarcò mentre mi dava una pacca sulla spalla. Poi aggiunse "Vediamo un pò...eh, si. Si vede proprio: hai la faccia disperata di chi sta pensando a Cuba...l'avevo detto io. Vieni, andiamo al bar".

Tra due aperitivi ebbi la possibilità di sfogarmi. "Pierluigi, quanto ti ho pensato -dissi- A Varadero, avevi visto giusto, sono proprio inguaiato. Il fatto è che mi sento smarrito, confuso. Non faccio altro che pensare a Cuba e a Fidelia. A tutta quella gente che ho conosciuto. E quando parlo con i miei amici, noto in loro un senso di mesta sopportazione nei miei confronti, come se stessero osservando un ammalato che fa tenerezza o come se guardassero le bizze di un bambino che ancora deve capire tutto della vita e lo si ammonisce dolcemente. Insomma...mi rendo conto che ho tagliato i ponti con tutto quello che era stata la mia vita prima del viaggio a Cuba. Il mio passato è come cancellato".

Con l'immancabile sigaro tra le labbra, Pierluigi ascoltava in silenzio. Aveva compreso che avevo bisogno di sfogarmi con qualcuno che capisse, con qualcuno che conoscesse la realtà alla quale mi ero aggrappato. Poi continuai "La ragazza che ho conosciuto mi manca molto, è vero. Ma io non reputo questo la causa della mia insofferenza. Fidelia è stata molto dolce, soprattutto dopo la mia sparata di gelosia, ricordi? Ci scriviamo e ci sentiamo al telefono molto spesso. Non posso dire se ciò è amore o innamoramento...diciamo che credo che si tratti di una attrazione che potrebbe sfociare in un sentimento più importante. La cosa che m'inquieta, è lo sviscerato amore per tutto ciò che è cubano. In questi mesi ho letto molto e molto mi sono informato. Immaginati che perfino iniziato a studiare lo spagnolo...e tutto per cercare di comprendere meglio, di essere più vicino...".

"Devi ritornare -disse lapidario- ma questa volta devi vivere all'Avana. Non meriti Varadero, quello è un troiaio per i turisti. Se penso che il posto meno cubano che c'è a Cuba ti ha fatto questo effetto, m'immagino cosa ti trasmetterà la città più coinvolgente di tutta l'isola..."

"E Fidelia?" gli domandai.

"Se stai in contatto con lei, digli le tue intenzioni. Vedrai che verrà ad attenderti all'aeroporto. Quello non è un problema. Solamente che devi organizzarti un pò. Hai bisogno di un posto giusto dove andare, non puoi alloggiare in albergo. Quindi, se hai spirito di adattamento, potrei consigliarti la casa di una mia amica che sta a Guanabo, un centro piccolo ubicato a Playa de l'Este, ad una ventina di chilometri dall'Avana...in questo modo inizierai a stare più in contatto con la realtà che t'interessa, eliminando il filtro delle falsità che trovi in ogni albergo. La casa che ti suggerisco è pulita, economica e la gente che la gestisce, molto simpatica. Puoi chiedergli di prepararti i pasti che vuoi...con sette dollari ceni, con due fai il breakfast e l'appartamento te ne costa circa venti. E' in riva al mare ma, soprattutto, con un particular arrivi in venti minuti all'Avana.

Avana, sospirai mentre mi venivano alla mente Hemingway, Fidel, la Fortezza del Morro, Josè Martì, la Bodeguita del Medio, il Floridita, il Tropicana. Tutte cose che non conoscevo e non avevo vissuto di persona ma che avevo trovato sui libri divorati dalla febbre prodotta dalla mia passione per l'isola.

"Ma perché Cuba produce questo effetto?" chiesi a Pierluigi. "Io ho una mia teoria. Chi s'innamora della gente, a meno che non abbia forti motivazioni politiche, è perché ha compreso che quella gente non ha, bensì é! Lo hai potuto vedere in maniera minima a Varadero, dove la realtà che regna è la meno cubana che puoi trovare sull'isola. Ma senz'altro hai constatato che quella gente non vive con i canoni occidentali e consumistici. Poi, la loro situazione non permette nulla di materiale tranne l'indispensabile per sopravvivere....però tutti, indistintamente, sono. E' questa, a mio avviso, la vera differenza tra loro e noi che siamo abituati a ricercare e a conquistare anche il superfluo solo per compensare la nostra mancanza di essere. E quando andiamo a Cuba la prima volta, i sentimenti che possono colpirci sono due: o, rendendocene conto, l'amiamo perché integra quello che abbiamo lasciato qui in Italia con quello che ci manca; oppure la odiamo perché non accettiamo, inconsciamente, l'idea che loro possono avere quello che noi, con le nostre possibilità economiche, non potremmo mai acquistare".

"E chi si trova in mezzo come me?" chiesi. Pierluigi mordicchiò il sigaro. "Ancora non sei 'in mezzo'. Dovrai passare per altre esperienze prima di godere di questo status..." ed allargò nuovamente il suo ironico sorriso.

"Dici bene tu -replicai un pò innervosito- che ti fai gioco di me....non ti rendi conto che io devo ritornare il prima possibile?"

"Ci sono passato prima di te -rispose- e prima di te ho messo in discussione tutto il mio mondo. Forse, ti sei fatto un idea sbagliata della mia vita. Ho lasciato un sicuro e redditizio lavoro. Ho divorziato sciogliendo una famiglia che, fino ad allora, poteva considerarsi normale. Ho preso a vagabondare per ogni dove solo per farmi uscire dalla testa quel tarlo che, solo ora, sta iniziando a colpire anche te. Sono passati cinque anni dalla mia prima volta che presi un volo per Cuba...cinque lunghi anni di amore sviscerato conquistato in trincea, tra errori ed esperienze che, volta dopo volta, s'intrecciavano sempre di più fra loro... No, no è stato così semplice come credi".

Errai con lo sguardo alla ricerca della sua espressione. Pierluigi mi aveva sorpreso confidandomi le sue esperienze. Pensavo a quanto fossimo arroganti, noi esseri umani, nel decifrare in maniera sbagliata le persone, solo giudicandole esteriormente. Avevo creduto in una specie di playboy alla Rambo, invece, la sua sensibilità era fuoriuscita senza nessuna diffidenza così, semplicemente. Non volevo, però, arrendermi all'idea di diventare una specie di errante ebreo sempre proteso alla ricerca di una realtà che non avrei potuto mai afferrare. Accesi una sigaretta per riflettere meglio. Pierluigi continuò "Il problema è quello che noi vogliamo diventare quello che non potremo mai essere. Atavicamente e geneticamente, siamo profondamente diversi dai cubani. Cuba ci affascina, ci cattura, ci strega meravigliosamente ma ci fa stonare con il nostro mondo. O meglio, con la realtà che ci ha accompagnato fino a quel momento. Basta un sorriso di un niño, lo sguardo tenero di una chica, una donna anziana che fuma un lunghissimo sigaro, per farci sentire contenti e vicini a loro...ma anche fuori dalla loro storia. Tu dici di esserti documentato...puoi leggere ed informarti finché vuoi: fa parte del tuo stato iniziale di 'innamoramento. Assorbi tutto ciò che è inerente a Cuba con la felice convinzione di riuscire, un giorno, a comprendere il loro modo di essere. Già ti ho detto che è proprio questo il punto: l'essere. Sei disposto a correre il rischio di mettere tutta la tua vita in discussione? Le tue passate certezze saranno dei macigni intrasportabili e dovrai, anche perché impossibile il contrario, evitare ogni compromesso. I due mondi non si coniugano tra loro...se sei disposto, non ti resta altro da fare che prepararti i bagagli e partire una, dieci, mille volte fin quando non ti sarà più necessario, in quanto ti troverai compresso nella loro realtà. Ma devi considerare il fatto che tutto quello che avevi prima, lo perderai inevitabilmente".

Quanto dettomi da Pierluigi mi procurò uno strano effetto. Mi sentivo intontito da quel bombardamento di impressioni e analisi che pensavo esagerate. In fondo, pensai, ognuno di noi somatizza le cose in modo differente e, forte di quel mio pensiero, non mi allarmai più di tanto. "Insomma -osservai- Cuba è un grande casino, se provoca gli effetti che mi hai esposto". Pierluigi mi guardò immalinconito rispondendo "Lo sapevo...vivi ancora nella fase iniziale. Non credi nelle mie parole e pensi che queste siano il frutto di una mia aberrazione e ti consoli pensando che non siamo tutti uguali e bla bla bla bla bla..vedrai. Tra un pò di tempo te ne renderai conto da te, specie se tornerai a Cuba soprattutto in una località che non sia Varadero".

La sua affermazione infranse il muro di certezze che mi ero edificato. Pierluigi non aveva letto nel mio cervello ma mi resi conto che quanto avevo pensato prima, erano già stati i suoi pensieri di qualche anno prima. Allora, aveva ragione lui? Iniziò a piovere e i negozi avevano cominciato ad abbassare le serrande. "Devo andare ma se vuoi incontrarmi, puoi cercarmi a questo numero. Se il cellulare risulta staccato è segno che sono nuovamente giù...a Cuba" disse allungandomi un bigliettino da visita.

"Riparti? Per dove?" chiesi. "Dovrei ripartire tra un paio di settimane, quando avrò sistemato alcune cose qui a Milano. Scendo all'Avana e proseguo per Ciego de Avila, Moròn e Cayo Guillermo...poi vedrò dove mi porta il vento e la guagua". Moròn, pensai. Dov'era Fidelia e la sua famiglia. Improvvisamente fui colto da una struggente nostalgia e giurai a me stesso che dovevo tornare a Cuba il prima possibile. Ci salutammo come s'usa tra due vecchi amici e proseguimmo ognuno per la propria strada. Dovevo rimanere solo per riflettere.

Giunsi a casa decisamente frastornato. Accesi la televisione togliendo però l'audio e vidi immagini che si succedevano come dentro ad un caleidoscopio senza alcun costrutto per la mia immaginazione. Mi sdraiai sul letto ed afferrai la cornetta del telefono. Quanto meno mi sarei consolato con la voce di Fidelia. Erano le tre del pomeriggio a Cuba e le ventuno a Milano. Pensavo alle sei ore di differenza del fuso orario che non erano minimamente rapportabili alla incredibile differenza che si riscontrava tra i due mondi. La linea telefonica per Cuba era guasta. Sapevo già, che a causa del maltempo, ma veramente più a causa del periodo speciale, per molte ore nulla di elettrico funzionava a Cuba, tranne nelle infrastrutture pubbliche o quelle dedicate ai turisti. La febbre dell'impazienza mi avvampò all'improvviso. Freneticamente studiai il calendario per stabilire la data della mia presunta partenza per l'isola. Iniziai a sognare ad occhi aperti quanto sarebbe stato bello ritrovarmi con Fidelia in mezzo alla gente dall'Avana. Immaginai cosa avrei fatto e cosa avrei visitato ma mi resi conto che stavo ragionando da yuma ed io non volevo esserlo. La sigaretta morì insieme ai miei pensieri e m'addormentai in un sonno profondo e senza sogni deciso che il giorno dopo mi sarei recato in una agenzia di viaggi per acquistare il biglietto aereo con destinazione per la felicità. Infatti, il giorno dopo, varcai la soglia della mia agenzia di fiducia dove l'addetta dell'ufficio mi accolse con un caloroso sorriso. Eravamo in bassa stagione per cui, i pochi clienti che entravano in agenzia, godevano di un diritto non scritto che prevedeva la massima gentilezza e disponibilità che, in epoche differenti, non potevano ricevere a causa della convulsità del lavoro. M'accomodai sulla poltroncina dirimpetto alla scrivania e la mia attenzione fu rapita dal minuscolo mappamondo che fungeva da ferma carte. Vederla in scala ridotta, la nostra terra era decisamente alla portata di tutti, eppure, quanto risultava difficile spostarsi da un posto all'altro. Ero sempre stato affascinato dalle carte geografiche, soprattutto da quelle che illustravano l'intero globo. Vagavo da un continente all'altro, sempre alla ricerca dei posti più sconosciuti e delle isole più remote dove sarei fuggito dalla mia vita. E, invece, eccomi al punto di partenza, quello di un piccolo sognatore che si era ritrovato innamorato di una isola a forma di coccodrillo distante undicimila chilometri dalla sua casa.

"Buongiorno -disse l'impiegata- posso aiutarla?". "Vorrei conoscere la disponibilità per un volo con destinazione Avana, in partenza da Linate, verso la metà del prossimo mese" le dissi. La ragazza, sempre sorridente aggiunse "Non sarebbe più conveniente acquistare un pacchetto turistico? Cioè volo e soggiorno alberghiero? Abbiamo cataloghi di operatori specializzati e i prezzi, in questo periodo sono...". La interruppi deciso "No. Non voglio avere legami di alcun tipo e vorrei solo il biglietto aereo". Sorrise e si mise davanti al terminale con il quale armeggiò per un pò. Mi lesse la stampata della ricerca "C'è disponibilità con la Iberia, via Madrid, il 16 e il 17...oppure posso vedere con un volo charter". "Va bene per il 16 con la Iberia. Può emettermi direttamente il biglietto?".

Quando uscii avevo il cuore più leggero ed un biglietto in tasca. Ma prima di continuare l'avventura dovevo comprare tutte le cose che avevo promesso a Fidelia e che non le avevo mai spedito. Rientrai a casa carico di pacchi. Avevo acquistato tutto quello che mi aveva chiesto. Mi aggrappai al telefono sperando di trovare la linea per Cuba libera e non isolata al fine di poter comunicare tutta la mia gioia alla mia novia. Dopo il flebile segnale di linea libera, una vocina mi rispose "Oye". Immaginai un bambino mezzo vestito che, eccitato dal fatto di rispondere al telefono come un adulto, aveva preso la cornetta di quel misterioso aggeggio che era il telefono a Cuba. Dopo qualche difficoltà iniziale, la cornetta passò nelle mani della madre del niño che mi pregò di attendere mentre andava a chiamare Fidelia. Finalmente la sua voce mi raggiunse "Hola mi amor! Che bello la tua telefonata. Era tanto tempo che non sentivo la tua voce...Como estas?". Un groppo alla gola mi salì accompagnato da un brivido sulla schiena "Ciao, volevo dirti che il 16 arrivo all'Avana con il volo dell'Iberia. Puoi venire a prendermi all'aeroporto?". Secondo Pierluigi non ci dovevano essere dei problemi ma restai in apnea in attesa della sua risposta "Ritorni a Cuba, veramente? " chiese incredula. "Certamente, resto due settimane ma vorrei stare all'Avana per visitarla. Però non voglio andare in un albergo ma affittare una casa particular. Puoi stare con me?". Dall'altro capo del mondo la sua voce attraversò l'oceano "Sicuro!Ho una zia che ha una casa al Vedado, vicino alla Rampa. Posso domandarle se è libera. E' molto graziosa ed ha anche l'aria condizionata in camera. Se mi richiami la prossima settimana ti dirò se è disponibile, così mi dici anche il numero del volo e mi organizzo per venire all'aeroporto dell'Avana ad attenderti. Dal momento che torni a Cuba, puoi portarmi un paio di Adidas numero trentotto? Porta anche della Novalgina che qui non si trova ed anche tutte quelle cose che ti ho chiesto l'altra volta...". "Tranquilla -risposi- ho già comprato tutto e domani prendo la Novalgina e le scarpe...ma tu mi pensi sempre?". Rise di gusto "Ma sei tu il mio amore italiano...te quiero mucho..Hai ricevuto la lettera con la mia foto?". Non l'avevo ancora ricevuta ma non mi importava granché. Tra breve l'avrei rivista e le sarei restato accanto. Ero anche eccitato dall'idea di vivere a stretto contatto con i cubani, ospitato in una casa privata, vicino alla gente che avrei quotidianamente frequentato. "Conosci l'Avana?" le chiesi. "Un poco...ho sempre vissuto tra Moròn e Varadero. Ma qualche volta sono stata all'Avana...Amore, mi porti una bambola?". Ripensai alla piccola muñeca che le avevo regalato per farmi perdonare della volta che l'avevo offesa e mi riempii di tristezza. Le avrei regalato la luna se avessi potuto. "Certo. Un bel bambolotto neonato che parla e che fa la pipì" le dissi come per confortarla sulla serietà delle mie intenzioni. "Amore -disse- ti amo!"."Anch'io" replicai. La linea cadde mentre avrei voluto dirle mille cose. Accesi l'ennesima sigaretta della giornata e pensai a cosa avrei fatto con lei durante la mia permanenza a Cuba. Mi sdraiai sopra ad un freddo letto mentre un'aria di serenità stava scendendo sulla camera. Mi sentivo tranquillo della decisione presa e volli comunicarla a Pierluigi, l'unico in grado di capire quel mio momento. Il suo cellulare era spento e mi consolai, facendo girare nello stereo, il nastro della Charanga Habanera, un complesso abbastanza famoso a Cuba in quel momento. La stanza si riempì di note e colori che mi riportarono alle atmosfere che avevo imparato a conoscere e ad amare anche se, in Italia, regnava la moda di tutto ciò proveniente dal caribe. C'era il proliferare delle scuole di balli latino-americani e ciò aveva visto la trasformazione di vecchie balere in improbabili locali di tendenza dove si esibivano gruppi di salseros di importazione e dove si potevano bere cocktail dal vago sapore caraibico. La moda affliggeva la realtà di Cuba, o meglio, della "mia" Cuba. Non volevo far parte del branco omogeneo di coloro che esibivano l'abbronzatura delle lampados accompagnata da magliette più o meno esotiche solo per il gusto di far sapere a tutti che erano stati nei magici posti tropicali. Per tutti questi personaggi, non vi era nessuna differenza tra Cuba, Santo Domingo o Jamaica anche perché, gli alberghi ed i villaggi tutto compreso, si assomigliavano tra loro in qualsiasi parte del mondo fossero ubicati. No, la mia Cuba era diversa, singolare, unica. Ed anche se eravamo in molti a viverla in questo modo, come affermava Pierluigi, restavo dell'idea che la mia verità era quella più prossima alla realtà. Adesso, l'unica cosa importante era quella di arrivare, senza grossi patimenti, al 16 del mese successivo. E con quel pensiero mi addormentai contento.

Fu dopo una settimana che incontrai nuovamente Pierluigi. Lo avevo ripetutamente cercato ma inutilmente: il suo cellulare era perennemente spento. La mia insistenza, però, fu alla fine premiata e non fu difficile trovare una data in cui eravamo ambedue liberi da impegni per incontrarci nuovamente. Ci vedemmo in San Babila, entusiasti di potere riprendere le fila di quell'infinito discorso che ci univa. Gli raccontai del mio proposito, ormai definito, di tornare a Cuba e, quindi, cercavo da lui consigli e suggerimenti. In realtà avevo bisogno solo di parlarne con qualcuno che si trovava sintonizzato sulla mia stessa frequenza. Parlandone, sarei stato più vicino alla realtà che avrei vissuto nuovamente da li a breve.

"Così, peggiori sempre di più?" disse ridendo vedendomi. "Lo definisci peggiorare, il mio stato d'animo? risposi. Mi guardò aggiungendo "Beh, ti trovo...come dire, più determinato rispetto all'ultima volta che ci siamo visti. Cos'è successo nel frattempo?". RIflettei un attimo e poi risposi: "La verità é che mi sono smarrito in una selva di emozioni contrastanti. Qui a Milano non c'è nulla che mi soddisfi come prima. Trovo l'unica consolazione solo quando penso a Cuba e a tutte quelle cose che mi uniscono a quella gente...". "Ma, cos'è -replicò- che cerchi? Questa domanda già te l' ho posta a Varadero, mentre sorseggiavamo un drink in un assolato pomeriggio, seduti su degli scomodi sgabelli al bar della reception. Ricordi il romano?". "Sai -gli risposi- forse lui è più felice di me. Ho ripensato spesso a quello che disse quel giorno ed ho immaginato il tipo. In fin dei conti, sfrutta la situazione solo dal punto di vista materiale...non é coinvolto come me. Io faccio introspezioni, analisi, autocritiche...mentre lui, semplicemente è più sereno perché non chiede null'altro di più di quello che desidera...". Pierluigi sospirò e si accese un grosso Montecristo mordendolo come d'uso, poi parlò. "Il fatto é che tu, io...noi insomma che viviamo Cuba in un certo modo...noi, dicevo, non ci accontentiamo più della realizzazione materiale di certi nostri desideri. Vogliamo, pretendiamo, ambiamo a qualcosa di più. Vorremmo essere loro, non solo assomigliargli ma divenire quello che non potremmo mai. E? questa febbre che ci assale e la consapevolezza dell'impossibilità della realizzazione di questo nostro desiderio, ci crea quell'insofferenza che impera in noi. L'unica medicina possibile é quella di frequentare il più possibile la nostra isola, la nostra gente e, tutt'al più chi, come noi, é nella nostra stessa situazione. Ma il nostro micro dramma, non è paragonabile a quello vero, che è vissuto quotidianamente dalla gente che noi amiamo e che è così lontana dal nostro mondo".

"Non possiamo far nulla -chiesi- per guarire o, quanto meno, acquisire quella tranquillità che ci possa far vivere meno conflitti possibile?". Scosse la testa capelluta. "Parlo per me: ho cinque anni di viaggi continui ed una famiglia distrutta alle spalle ma sono allo stesso punto dal quale ero partito. Sicuramente ho più esperienza di te, conquistata sul campo...ma siamo accomunati da quello stato d'animo che é scaturito durante il nostro primo viaggio e che ci accompagnerà sempre e nello stesso modo. Ho conosciuto diversi italiani che si sono formati una seconda famiglia, anche se di fatto, non hanno sposato la loro fidanzata. Il più delle volte hanno generato dei bellissimi e dolcissimi bambini che hanno cementato la loro unione. Queste persone si dividono fra l'Italia, dove hanno magari la loro famiglia legittima, e Cuba, dove trovano ad attenderli la famiglia clandestina, quella acquisita. Loro sono felici perché, se non altro, hanno trovato una dimensione che, seppur scomodamente, li ha posizionati per sempre".

Quant'era complicato tutto questo ma, forse, era proprio a causa di questa singolare articolazione che Cuba era speciale.

"Mai avuto pentimenti per la tua scelta?". Un mesto sorriso si formò sul viso del playboy del nord. Pierluigi schiacciò il mozzicone del sigaro ormai consumato. "E chi non ha rimpianti nella propria vita? L'importante é andare avanti, il resto non conta".



"Hai una novia che ti aspetta?" dissi per stemperare quell'aria plumbea che si era formata intorno ai nostri discorsi. "SI chiama Kirenya ed è una Santaguera. E' una bellissima mulatta che conosco da tre anni. Le prime volte che mi recavo a Cuba, ero attratto da una jinetera che mi aveva fatto perdere la testa e che mi prendeva in giro promettendomi una cosa e poi, facendone un'altra. Ma è grazie a questa situazione che ho imparato a conoscere il fenomeno delle jinetere. Ho appreso il loro gergo, il loro modo di fare...insomma sono entrato dalla loro porta di servizio nel loro universo. Questo mi é costato una decina di viaggi, un mucchio di dollari e due anni di prese in giro. Sapevo di essere sfruttato ma, nello stesso modo, ero consapevole di sfruttare loro per apprendere i loro trucchi. E' stato uno scambio uguale...e per questo, posso capirli e loro sanno che io non sono più un turista da sfruttare. Capisci?".

"Ci provo -risposi non del tutto convinto- Certo che se mi dici che tutte le tue esperienze non ti hanno messo nella condizione di identificare il tuo status, devo constatare che più si avanza con la conoscenza di quanto c'interessa e più si perde la direzione....".

"E' proprio così, amigo. Penso che questa faccia parte del gioco della vita..tu, io, tanti altri stiamo percorrendo questa strada, forse per fortuite combinazioni ma, questa, non è poi dissimile da quella che percorre altra gente sulle orme di Sai Baba, oppure della Blixen in Kenya...ognuno di noi ha bisogno di scoprire una sua isola sperduta tra le nebbie degli oceani, per alimentare la convinzione di raggiungere una meta che, magari, non riuscirà mai ad identificare in tutta la sua vita".

Chissà perché, mi tornava alla mente, l'ultima notte passata insieme a Fidelia e rividi le lagrime che le rigavano il volto, infrangersi tra le mille promesse di amore eterno lanciate al vento.

"Pensi a Fidelia?" chiese Pierluigi.

"Sono proprio un libro aperto" risposi.

"Non ci vuole molto a vedere dentro ai tuoi occhi, spiagge bianche, bambini festosi che ti chiedono un ciclo ed una novia enamorada che ti giura eterno amore...".

Cambiai discorso. "Cosa mi dici dell'Avana? Vorrei esplorarla con il tuo aiuto anche se ho letto diverse guide turistiche..."

"L'Avana è tutto -mi rispose con le pupille illuminate- Non ci sono guide, ne consigli, tanto meno niente di niente in grado di fartela apprezzare se non andandoci e vivendola giorno dopo giorno. Sarai solo tu, accompagnato dalle tue emozioni che la scoprirai nei vicoli fetidi, tra i palazzi pericolanti, tra le vecchie case coloniali chiuse e confuse a grattacieli di un stile di puro socialismo reale. Ma, soprattutto, la vedrai tra la sua gente: gli habaneri. Queste vibrazioni saranno solo tue senza alcun condizionamento che possa essere generato da pregiudizi o luoghi comuni...lo scoprirai, magari sottobraccio della tua dolce novia. Non posso spiegarti ciò che è intangibile come lo è un idea, un sapore, un clima".

Ero affascinato dall'idea di scoprire una città che aveva catturato il mio interesse e conquistato l'amore come ad un novello Hemingway, le cui pagine avevo divorato da ragazzo. Ricordavo ancora alcune frasi di Fiesta, Addio alle Armi ma, soprattutto, quelle inebrianti de Il Vecchio ed il Mare, dove una Cuba arcaica e vera, emergeva da quella prosa sobria e lineare. Mi riproposi di visitare la Finca Vigia, appartenuta allo scrittore e che ora era adibita a museo.

"Pierluigi -dissi- lo sai che non vedo l'ora di tornare a Cuba? Conto i giorni, le ore e perfino i minuti che mi separano dalla partenza. A volte mi sembro così infantile...so che sto trascurando il mio lavoro, i miei vecchi interessi, la mia vita sociale. Il pensiero ricorrente che mi accompagna e che mi assilla, è solo uno, e tu lo conosci bene".

Rispose sospirando. "Si, l' ho provato prima di te e so quanto mi è costato. Ma vedi...come tutti i traguardi, anche il nostro, è segnato da tappe faticose da raggiungere e, molte cose, si perdono per strada. A volte si tratta di fardelli superflui, altre volte, invece, di cose preziose".

Un profumo di bouganville ubriacava l'aria ma era una fragranza che era partorita dalla mia immaginazione e che mi portava a Matanzas e al piccolo giardinetto di Mama Estrella, con la piccola camera degli sposi, il televisore in bianco e nero, il divanetto di finta pelle. "A volte non riesco a trovare le parole e gli aggettivi per descrivere quello che provo. Ho provato a spiegare quello che sento ad alcuni amici ma non mi hanno capito. All'inizio, hanno pensato che si trattasse di un innamoramento per la ragazza, poi, hanno compreso che c'era dell'altro nelle mie considerazioni e mi hanno tacciato di stupidità, esagerazione, addirittura plagio. Tutti, indistintamente, hanno cominciato a rifiutarsi di sentir parlare ancora di Cuba ed io, d'altro canto, non avevo più voglia di parlare a chi non mi ascoltava più. Era avvilente cercare di spiegare a gente che non voleva. Questo è uno dei motivi che mi ha portato ad allentare le relazioni con i miei vecchi compagni di baldoria".

"Ti capisco -replicò il nordista-. Ci costringono a vivere quasi ghettizzati. E' il motivo per il quale, noi che amiamo Cuba, ci ritroviamo felici di parlarne e di sfogarci, raccontandoci le nostre esperienze ed emozioni". La serata volgeva al termine e, anche se non avevo ricevuto notizie specifiche sull'Avana, l'incontro con Pierluigi aveva avuto il merito di farmi scaricare di tutta la tensione che avevo incamerato. Pierluigi era un ottimo compagno di avventura. Sapeva come e quando farmi sfogare, così come calibrava i suoi interventi al fine di non prevaricarmi, eveitandomi così, ulteriori mortificazioni. Decidemmo di chiudera la serata brindando alla nostra isola, nella certezza che ci saremmo rincontrati quanto prima.

I giorni srotolavano lentamente in piena monotonia. In modo quasi automatico ripetevo gli stessi gesti quotidiani: sveglia, traffico, lavoro, televisione. Brividi di eccitazione attraversavano il mio corpo solo quando, a causa di associazione di idee, avevo modo di ripensare a Cuba. Avevo già minuziosamente visualizzato i preparativi per la mia partenza, la permanenza in aereo, il mio arrivo all'Avana, il mio incontro con Fidelia. Come un provetto sceneggiatore avevo costruito i dialoghi che si sarebbero intrecciati. Come un bravo scenografo avevo impiantato le ambientazioni che avrei utilizzato durante il mio soggiorno. Ed, infine, come un regista, avevo assemblato i miei desideri, le mie fantasie e le mie emozioni in un unico grande sogno.

Da mesi, avevo iniziato ad amare la letteratura del centro e sud america, divorando pagine di Amado, Prieto, Neruda, Martì. Ma mi trovavo legato visceralmente a 'Latinoamericana', il diario di Ernesto Guevara, scritto durante il suo primo viaggio attraverso il continente sudamericano, effettuato agli inizi degli anni cinquanta, quand'era ancora studente di medicina e non il guerrigliero che il mondo avrebbe scoperto qualche tempo più tardi, ed effiggiato col nomignolo 'Che'. Ritrovavo, in quelle sue pagine, non una cronaca di fuga ma un desiderio di conoscenza che lo metteva sullo stesso piano degli antichi esploratori. Mentre in questi il desiderio era solo dettato da una bramosia di ricchezza e celebrità, in Ernesto Guevara, era una ferma presa di coscienza contro lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo, derivato dal potere capitalista ed imperialista che si appropriava delle ricchezze, della dignità e delle vite di masse di popolazioni brutalizzate fino all'inverosimile per soddisfare, sempre più, i grandi bisogni delle compagnie multinazionali che, spesso, avevano il potere di pilotare le politiche dello Stato di turno da sfruttare, fino alla sua completa sottomissione. Non più la epica di Hemingway, non più i sogni di Salgari, ma la drammaticità espressiva di un ragazzo che, a bordo di una sgangherata moto, aveva varcato con l'amore, i confini dell'essere per giungere a quella posizione, in seguita definita internazionalismo, dov'era un dovere di tutti gli oppressi di unirsi nella comune lotta contro la fame, la miseria, la brutalità della forza imperialista, fino a giungere alla libertà dell'essere.

Mi resi conto che, pur se stavo fluttuando pericolosamente sull'orlo di utopie politiche, questo dolce pensiero mi concedeva la forza della consapevolezza. Era questo, un altro aspetto della mia crescita come individuo: sapere che c'erano stati ed ancora esistevano, mondi di sfruttati e sfruttatori. Non che avessi potuto risolvere i problemi del mondo ma, il solo pensiero di aver amalgamato una ideologia positiva, mi faceva stare bene con me stesso e stava trasformandomi lentamente. Scoprii che avevo iniziato ad osservare ke cose stto un'altra ottica. Perfino alcuni miei atteggiamenti si stavano modificando a causa di quella coscienza politica con la quale non avevo mai imparato a convivere. Il pericolo, però, era quello di divenire un patetico paladino senza null'altro da fare che compatire se stesso per la propria inutilità. Dovevo rimanere razionale, sensibile ai miei comportamenti, fino a gestirli in piena armonia tra persone e cose. Ma la brutalità della vita caotica e disordinata, prendeva il sopravvento ogni qualvolta mi proponessi di assoggettarmi a quei proponimenti che tanto mi identificavano con la figura eroico guerrigliera e, il Simon Bolivar, che regnava in me, mi faceva vergognare ogni qualvolta me ne rendessi conto.

Guardai l'ora meccanicamente. L'allarme della suoneria era appena scoccato ma ero già sveglio, dopo aver passato una notte quasi insonne. Il dormiveglia che affiancava solitamente l'eccitazione che precede un evento, era stato mio compagno in quell'ultima sera passata a Milano. Da li a qualche ora sarei partito alla volta di quell'atteso ritorno a Cuba. I bagagli erano già pronti, preparati la sera prima. Avevo, negli ultimi giorni, controllato più volte i miei documenti di viaggio constatando, con disappunto, che alla dogana di Varadero, l'addetto al servizio di controllo, aveva apposto un anonimo timbro forgiato a mò di mezza luna con una stella nel mezzo, al momento della mia registrazione. Mi riproposi di chiedere, questa volta, un bel timbro lineare dove fosse impresso chiaramente l'aeroporto di arrivo, in quanto, non avevo nulla da nascondere a chicchessia. In fretta ultimai i preparativi e corsi al telefono per chiedere un taxi che mi conducesse a Linate. Il cuore mi batteva velocemente appena, terminate le operazioni di imbarco, attraversai la dogana dello scalo milanese. Ero giunto all'interno della zona franca dove i negozi attendevano viaggiatori in partenza per ogni parte del mondo. Nel duty acquistai un paio di stecche di sigarette insieme a giornali e riviste. Non che avessi l'intenzione di leggerle a Cuba ma, all'interno dell'aereo, mi avrebbero aiutato ad ingannare il tempo. Avevo suddiviso idealmente, il volo, in varie fasi: la prima, era la partenza vera e propria per Madrid. Un paio d'ore di volo sarebbero passate velocemente fra letture e spuntini. La seconda era la meno stressante: dovendo cambiare aeromobile ed avendo poco da attendere per la partenza del volo intercontinentale, sarebbe stato sufficiente bighellonare un pò tra i duty dello scalo madrileno. Ma il periodo interminabile si concretizzava nella terza fase. Quasi dieci ore passate a cavallo di due film, uno spuntino ed una cena, prevista dalla Iberia. Era la prima volta che utilizzavo i suoi servizi, ma i consigli di Pierluigi, erano stati categorici circa la scelta della compagnia. Sapevo già, che il tempo in volo, si sarebbe apparentemente fermato ma, comunque, sarebbe passato e sarei giunto a destinazione. Sollevato da questo pensiero, varcai il gate di imbarco e salii sul mio aereo, dove conobbi Roberto.

Eravamo vicini di sedile e bastò poco per capire che viveva i miei stessi turbamenti. Lavorava in una agenzia di viaggi e, proprio grazie alla sua professione, poteva godere di alcuni vantaggi tariffari che lo avevano agevolato in molti voli per Cuba. Mi raccontò di avere una relazione con una ragazza di Trinidad che lo stava attendendo all'Avana. Tra racconti e confessioni le dieci ore per l'Avana, sarebbero passate più velocemente.

"Io credo -disse mentre finiva di mangiare un biscotto- che il vero problema è il comunismo. Se Cuba si ribellasse al regime di Fidel, potrebbe godere di enormi vantaggi commerciali oltre alla libertà, che è totalmente assente dall'isola. Ti pare giusto che un cubano se vuole espatriare non può avere questo diritto?".

Questa era spinosa questione della realtà cubana che conoscevo e sulla quale non sapevo cosa rispondermi. Il mio silenzio fu interpretato come un assenso a questa affermazione e mi rese complice inconsapevolmente, del suo punto di vista. Continuò:" Gli Stati Uniti ed il mondo intero,potrebbero far cessare immediatamente l'embargo con notevoli ed immediati vantaggi economici, creando una benessere adesso sconosciuto, solo se il regime dittatoriale fosse eliminato".

Avevo degli appunti a tal proposito, che esternai immediatamente. "Non credi -dissi- che se si avverasse quello che tu auspichi, Cuba si trasformerebbe in una pseudo colonia nordamericana, magari governata da uno stato fantoccio, perdendo in questo modo, la sua peculiarità che la identifica, riportandola al tempo del regime di Batista?".

"Sei forse un comunista?" chiese con una smorfia.

"Non è una questione ideologica -replicai- quello che conta è, pur tra ingiustizie e sofferenze, Cuba dal 1959 ha la sua dignità nazionale che la puoi riscontrare attraverso dei risultati che ha acquisito. Ha eliminato l'analfabetismo, la mortalità infantile, lo stato -nonostante l'embargo- funziona in modo assistenziale, la medicina è all'avanguardia, come la cultura, lo sport...insomma dopo quant'anni di strangolamento economico mondiale, non si può chiedere di più".

"Sicuramente ci sono vantaggi e svantaggi come in tutte le cose" rispose imbarazzato.

"Vedi? Non si può giudicare tutto, tenendo conto dell'aspetto estetico delle cose. Capire vuol dire analizzare da più parti l'oggetto che ci interessa per metterci nella condizione di valutare in modo poliedrico, l'insieme delle cose. Ma, per tornare a Cuba, non bisogna censurare modi e maniere di fare politica, così solo per il gusto di farlo o per prevenzione. E' solamente un luogo comune che si ha per abitudine e, così facendo, si strumentalizza in un modo o nell'altro, una realtà storica e politica che ha radici profonde. Non è da Fidel che bisogna partire, bensì dalla prima fase del colonialismo spagnolo".

Roberto annuì distrattamente e si accesa una sigaretta. Di fronte a noi, uno schermo, mostrava una elaborazione computerizzata che delineava il nostro tragitto, man mano che questo si stava compiendo. Su di una cartina schematica si riconoscevano l'Europa ed il continente Americano. Un piccolo aereo stilizzato che si muoveva impercettibilmente ci indicava il punto della rotta che avevamo raggiunto.

"Dove ti stabilirai?" chiese Roberto cambiando il senso del discorso.

"All'Avana, in una casa particular al Vedado. E tu?" rimandai.

"Vado a Trinidad qualche giorno, poi mi avvicino all'Avana. Ho preso una casa a Playa dell'Este".

Playa dell'Este: rammentai quello che mi aveva suggerito Pierluigi a proposito delle località che si affacciano in questa zona, riproponendomi di passarci almeno un paio di giorni. Si abbassarono le luci ed iniziò la proiezione di un film poco interessante. Roberto si era assopito e restai senza compagnia. Comincia ad osservare i passeggeri intorno a me. Per ognuno immaginavo una storia, un nome. Alcune coppie sicuramente in viaggio di nozze. Lo capivo dagli sguardi innamorati e ardenti di passioni e dalle fedi di un oro nuovo, mai usato. Le camice a fiorellini, i jeans di marca, le Superga ai piedi. Erano il prototipo esemplare delle coppiette in luna di miele. Li avrei rincontrati al mio ritorno e li avrei riconosciuti nonostante l'abbronzatura patinata e le treccine che lei si sarebbe fatta fare in riva al mare in cambio di dieci dollari.

Vidi anche signori di una certa età soli con i propri pensieri. Vagavano nella loro memoria alla ricerca di amplessi sudati in una spiaggia caraibica.

Lo sguardo mi cadde su di una ragazza cubana. La pelle ambrata da secoli di sangue misto, gli occhi di un nero liquido, le lunghe trecce cadenti sulle minute spalle e sopra ad un prominente seno che fuoriusciva da una camicetta generosamente aperta sul davanti. Rientrava sicuramente, dopo una escursione nella terra del benessere e della libertà, da un invito fattole dal suo uomo italiano che si era beato di una graziosa parentesi esotica. Questa novia, ora, tornava con le valige piene di articoli di abbigliamento, saponi, profumi, medicine. Presto sarebbero divenute merce di scambio con fagioli, riso e pollo. Avrebbe continuato a fare la jinetera, magnificando con le sue amiche, la bella vita che aveva vissuto in Italia e, raccontando loro, del futuro matrimonio che ne avrebbe definitivamente cambiato l'esistenza. Ma, in cuor suo, sapeva che oltre alla realizzazione del sogno di espatriare quell'unica volta, forse, nella sua vita, nessun altro miracolo si sarebbe realizzato a discapito di tutti gli Horisha supplicati e sarebbe finita, dopo anni di facile prostituzione, per divenire la sposa di qualche manesco cubano dal quale avrebbe, probabilmente, divorziato per riaccasarsi con chissà chi. Il pacchetto di sigarette era quasi terminato, come la mia pazienza. Mancavano ancora un paio d'ore all'atterraggio e stavamo sorvolando le Bermuda. Il personale di bordo passò per l'ultima volta con i carrelli a distribuire bibite e sorrisi.

Poi, ci fu solo il sole dell'Avana.

17/03/2007 18:01
 
Quota
La lunga fila stava compostamente unita, in attesa di giungere fino al box del controllo passaporti. Il caldo umido mi aveva colpito come un pugno, durante il tragitto dal velivolo all'aerostazione, effettuato su di un pullman che aveva visto giorni migliori. La prima cosa che mi colpì, furono le grandi lettere che campeggiavano sull'edificio dell'aeroporto e che formavano il nome dello stesso: Josè Martì. Per fortuna, all'interno dello scalo, l'aria condizionata faceva il suo dovere abbastanza bene regalando, così, un deciso sollievo. Dopo circa le quindici ore passate tra aeroporti ed aeroplani, con le caviglie gonfie a causa del ristagno del sangue, stavo per realizzare il mio sogno. Il soldato del controllo passaporti rigirò diverse volte il mio documento, osservando prima la foto e poi la mia persona, per passare successivamente alla verifica della tarjeta del turista che era, in fondo, la richiesta del visto di entrata. Alla fine, appose dei timbri e, riconsegnandomi il tutto, mi augurò un felice soggiorno. Dopo aver recuperato il bagaglio dall'unico nastro trasportatore in funzione e aver negato di aver bisogno di albergo e taxi a delle gentilissime hostess addette alla cura dei turisti in arrivo, varcai finalmente la porta di uscita. Fuori, ad attendere chissà chi e chissà cosa, c'era una variopinta folla di cubani che indagai con lo sguardo. Il caldo mi aveva nuovamente assalito e mi ritrovai improvvisamente stanco e disorientato quando, una vocina, s'alzò da un crocicchio di persone. "Claudio!". Quando rividi Fidelia, confesso di essermi sentito appagato di quella lunga parentesi di attesa che era trascorsa da Varadero all'Avana. Mi corse incontro e mi abbracciò forte dandomi il suo benvenuto con un bacio che aveva un sapore dolce e profumato.

"Sono contenta che tu sei qui. Sai -confessò- fin quando non ti avrei visto arrivare, non lo avrei creduto possibile il rivederti".

Sorriso per il suo italiano un pò comico e per la gioia che mi era salita ascoltando le sue parole ma mantenei un briciolo di razionalità, anche perché non vedevo l'ora di stendermi su di un letto a recuperare le forze sciupate dalla stanchezza prodotta dalla posizione forzatamente noiosa del volo.

"Prendiamo un taxi? Hai visto la casa di tua zia?" le chiesi.

"Il taxi è fuori che ci aspetta. Lo avevo noleggiato prima, per arrivare all'aeroporto ed ho chiesto al padrone di aspettarmi. Adesso andiamo al Vedado da mia zia che ci porterà alla casa. SOno felice".

Seduto sul grande sedile posteriore di una Toyota decisamente nuova, ammiravo tutto quanto potevo cogliere con lo sguardo. Le case, le vie trafficate da biciclette e da motorini cinesi, da vecchie automobili statunitensi e da massicci camion sovietici. Ma, soprattutto, guardavo gli habaneri che si confondevano in modo omogeneo con l'architettura che, spesso, avevo ammirato nelle foto delle guide turistiche e dei libri che avevo letto a Milano. Fidelia tentò l'inizio di una conversazione. "Com'è stato il volo? Che tempo faceva in Italia? Hai mangiato?".

Estrassi dal pacchetto l'ultima sigaretta e l'accesi. "Il viaggio è stato stancante. L'altra volta, quando venni a Varadero, ricordo che fu più comodo, forse perché era un volo senza scali e cambi di aereo. Stamattina, a Milano, faceva un freddo boia, altro che tropici...ma tu, a proposito. Hai mangiato?". Scosse la testolina in segno di negazione e aggiunse "No. Tiengo hambre".

"Ma tua zia, quella che ci affitta la casa, ci può preparare qualcosa da mangiare se le diamo i dollari?" chiesi.

"Certo, ma ci vorrà del tempo per fare la spesa e trovare tutto quello che le chiederai...ma io ho fame adesso!".

"C'è un chiosco dove poter mangiare qualcosa affinché ti passi questa fame?". Senza rispondermi, chiese all'autista di fermarsi davanti ad uno dei pochi chioschi dove si poteva mangiare hamburger e hot dog. La macchina deviò dolcemente sulla destra ed imboccò il tunnel che ci conduceva all'inizio del Malecòn, il lungomare dell'Avana. Due ragazzini stavano giocando con delle camere d'aria gonfiate all'inverosimile che avrebbero usato come canotti e come oggetti da tirarsi addosso. La Toyota si fermò sulla sinistra del Malecòn, lasciandoci liberi di attraversare la strada per raggiungere la tienda che preparava spuntini veloci. Fidelia chiese un paio di perro caliente ed un succo di mango gelato mentre io continuavo a seguire con lo sguardo, quella banda di monelli svestiti che pareva essere un equipaggio della Tortuga. Pagai con cinque dollari senza aspettare il resto e generando, così, lo stupore e la disapprovazione di Fidelia che, però, non disse nulla. Con la bustina di plastica contenente i panini e la lattina di bibita, ci avviammo lentamente al taxi che continuò la sua traversata per l'Avana.

Il Vedado era uno dei quartieri della città. Una volta zona residenziale, conservava ancora intatta la sua condizione architettonica che si evidenziava attraverso i graziosi villini coloniali, tutti dotati di un minuscolo patio adibito, per lo più, a garage di vecchie auto d'epoca. A Calle 38 ci fermammo. Fidelia gridò qualcosa e subito si spalancò un portoncino dal quale emerse una bella mulatta. "Questa è mia zia Juliet" disse. La donna mi sorrise e di disse "Buenos Dìas senor. Todo bien?". RImasi colpito dalla dolcezza del suo tono di voce e dalla bellezza del suo corpo, cosa che Fidelia notò istantaneamente. "Ti piace mia zia?" disse dandomi una gomitata all'altezza dello stomaco.

La zia rise della scenetta di gelosia che era avvenuta davanti ai suoi occhi "Està loca por ti. Tiene miedo de perderte, Claudio" e, continuando a ridere, entrò in casa. Il conducente del taxi, scaricò i bagagli dentro l'abitazione che sarebbe stata il nostro nido per quelle due settimane. Si trattava del piano superiore del villino abitato da Juliet e da suo marito, ed era composto da una grande camera da letto dotata di un apparecchio di aria condizionata che avrebbe meglio figurato in un negozio di modernariato dei Navigli; un bel bagno con servizi completi ed un piccolo saloncino che completava l'aerea abitativa. Tutte le finestre erano saldamente impreziosite da artistiche inferriate costruite con tondino di ferro dipinto di un passato verde oliva.

"Te gusta?". Guardai Fidelia, rendendomi conto che, fino ad allora non l'avevo osservata attentamente. Ma a causa della stanchezza e dell'eccitazione di essere nuovamente a Cuba, mi era sfuggito il suo abbigliamento e quella sua bellezza che avevo tanto smarrito in Italia. Gli hot pant bianchi che indossava, le risaltavano le perfette forme del sedere e dell'incavo anteriore del bacino; così com'era, la stretta maglietta di cotone elasticizzato, le evidenziava il seno eretto e ben proporzionato. Il suo volto era delicato nonostante un trucco pesante che lo dipingeva e la pelle ricordava quella della pesca vellutata.

"Ti ho sempre pensata -le dissi- ed ora ti ho qui vicino...". La baciai teneramente pensando a quanto sarebbe stato bello fare l'amore in quel preciso momento. Discretamente, Juliet bussò alla nostra porta..."Ola...Julieta y Romeo" disse.

"Cazzo, che rompipalle mia zia...Que pasaaaa!" gridò quasi infuriata all'indirizzo della porta chiusa.

Seguì una animata conversazione tra le due, che non potei afferrare e, quindi, iniziai a disfare le valige.

"Claudio -fece Fidelia- ha detto mia zia sei vuoi mangiare aragosta o pescado...poi chiede se gli puoi dare i soldi, così può comprare quello di cui c'è bisogno...Dai, deciditi, così se ne va subito".

Volsi lo sguardo verso la stecca di sigarette che doveva ancora essere aperta. "Allora, da quello che mi hai detto sono trenta dollari al giorno per la casa, quindi un totale di 450 per quindici giorni. Poi, altri venti per colazione e cena per noi due...altri 300 dollari. Ecco questi sono mille dollari -dissi allungandole 10 pezzi da 100 dollari ognuno- dalli a Juliet, per pagarsi l'affitto e i nostri pranzi. Con il resto dille di comprare bibite, birre, rum...insomma, quello che vuole". Il danaro passò da una mano all'altra, con enorme soddisfazione delle due donne che avevano, momentaneamente, risolto il l oro problema economico. Colsi uno sguardo torbido negli occhi di Juliet accompagnato da una smorfia che fece non vista da Fidelia. Tutto ciò mi portò alla mente il romano conosciuto a Varadero che, in una situazione del genere, si sarebbe sollazzato con zia e nipote. Juliet uscì, lasciandoci nuovamente soli. Fidelia ne approfittò per chiudere le assicelle che facevano parte delle persiane della finestra della camera da letto in modo da nasconderci dalla vista di qualche curioso. Subito dopo si gettò sul letto restando in attesa della mia reazione.

"Fidelia, ho voglia di fare l'amore con te...ma, adesso, devo darti tutte le cose che ti ho portato dall'Italia" e così dicendo, posai sul letto il borsone da viaggio contenente i suoi regali. "Dai...su, dammi tutto!" implorò scherzosa. Iniziò a frugare tra pacchi e involucri, scartandoli uno ad uno e, ogni tanto, alzava un gridolino di soddisfazione e di compiacimento. Quando vide il bambolotto, si animò ulteriormente. Era una bambola verosimile nelle dimensioni e nella foggia, ad un neonato,per cui, il suo stupore aumentò a dismisura, nell'osservare a che tipo di giocattoli potevano esistere al di fuori di Cuba.

"Ma...è un nino vero!" esclamò con un filo di voce mentre lo cullava come se fosse suo figlio.

"Guarda...se premi sulla pancia, ti parla" le spiegai.

Iniziò la tortura che si protrasse per almeno una buona mezz'ora. Si divertiva a pigiare in continuazione la superficie anteriore del pupazzo e questo, a sua volta, attraverso un micro disco di plastica collegato ad un minuscolo altoparlante, emetteva parole del tipo 'mamma-papà'. Era così entusiasta di questa scoperta che si dimenticò di mangiare i due panini che aveva comprato al Malecòn. Ne approfittai per finire di svuotare le valige e per farmi una doccia ristoratrice. Poi, mi misi in libertà, sostituendo ai jeans e camicia, pantaloncini e maglietta. Fidelia accese la piccola radio che era appoggiata sul comodino ed accennò a dei passi di danza seguendo il ritmo della musica salsa che si alzava nell'aria.

"Claudio -gridò- te quiero mucho amorcito" e si rituffò sopra al letto raggiungendomi. Non accusavo più quel senso di torpore che avevo provato fino allora. La voglia di possederla con tutte le mie forze si era sostituita alla stanchezza prodotta dal viaggio e dalla tensione nervosa che lo aveva accompagnato. Il bolerino volò e cadde per terra, a fianco dei pantaloncini che si era già tolta, rimanendo coperta solo da un minuscolo tanga viola. Le sue unghie scoprirono man mano, il mio corpo, lasciando inciso un leggero sentiero rossastro, unico testimone del loro passaggio. Acuti brividi percorsero parallelamente i miei centri nervosi mentre raggiunsi uno stato estatico. Le sue labbra iniziarono ad esplorare tutti i miei punti sensibili, provocandomi l'aumento della pressione sanguigna che batteva sulle tempie. Non riuscivo controllare il mio stato d'animo e mi tornò in mente il fatto che erano mesi che non facevo più l'amore. L'ultima volta era stata proprio con lei a Varadero. Non che le avessi giurato fedeltà ma, a Milano, non ero riuscito a sintonizzarmi più con le ragazze con le quali abitualmente uscivo.

Ora, ero nudo e disteso sul quell'angolo di nuvola, con a fianco una bellissima ragazza cubana che diceva di amarmi e con una incontrollabile voglia di fare sesso. Mille perline di sudore incollavano ancor di più i nostri corpi avvinghiati in una ferrea morsa di piacere, mentre i raggi del sole, stavano lentamente calando, creando cupe zone d'ombra che oscuravano teatralmente la stanza. Come già avvenuto a Varadero, scoprii un clima selvaggio che prevalse sulla dolcezza dei primi momenti d'amore. In un caleidoscopio di sensazioni, un vortice d'emozioni e voglie represse, prese il sopravvento. Ritmicamente, la nostra danza iniziò dapprima in modo sincopato, per poi tramutarsi in un qualcosa che sfuggiva all'immaginazione dei più. Era il completamento di un sentimento che avevo cullato e nutrito per mesi, fino a farlo crescere parallelo alla voglia che avevo di lei. Le sue lunghe gambe di gazzella si incrociavano alle mie, stringendosi sempre più, mentre corpi ebbri, godevano degli ultimi fremiti della loro voglia di essere un unica persona. Alla fine, mi smarrii accanto a lei. La stanchezza s'impossessò di me e scivolai in un sonno profondo.

Quando mi sveglia, Fidelia non era più al mio fianco. Il lenzuolo copriva a malapena il mio corpo nudo e, senza vergogna, vidi che la porta della camera era aperta. Mi stropicciai gli occhi che mi bruciavano e sapevo di non avere un bell'aspetto. Presi dal comodino il pacchetto di sigarette e ne accesi una, cercando di indovinare che ora fosse. Dal di fuori, a parte il buio che aveva finito di avvolgere tutte le cose, si sentivano rumori di voci e suoni lontani, provenire da balconi e radio accese a tutto volume. Mi stiracchiai indeciso sul da farsi, ipotizzando il fatto che Fidelia fosse scesa dalla zia per mangiare qualcosa, oppure...ma le congetture s'infransero quando entrò Juliet.

"Holla Claudio...te gusta La Habana?" disse avvicinandosi senza dar troppo rilievo alla mia nudità affatto celata dal lenzuolo.

"Credo di si, anche se ancora non ho avuto modo di vedere bene la città...E Fidelia?" dissi molto imbarazzato, cercando di evidenziare, forse inconsciamente, il fatto che se io mi trovavo li, in quel momento, ero per via della nipote.

Juliet sorrise e si sedette sul bordo del letto prendendomi la sigaretta che stavo fumando e tirando un paio di boccate.

"Fidelia està hoy con mi hombre para buscar el pescado...cayate!" disse restituendomi la cicca ormai timbrata dal suo rossetto.

"Parli italiano?" le chiesi.

"No mucho...ma te intiendo sin problema. Tieni miedo de mi?" domandò avvicinandosi ancor di più. "No, ma sei una bella donna e non vorrei dare un dispiacere a Fidelia" risposi.

"Dispiacere?" rimarcò dubbiosa sul significato di tale parola.

"Dolor", precisai.

"Ay, dolor..." e sorrise avvicinandosi alle mie labbra.

Juliet era provocante e quel breve sonno aveva ritemprato le mie forze e la mia voglia. Non era giusto tradire Fidelia e stavo approfittando della situazione. Era solo una casualità alla quale non mi andava di rinunciarci, ma mi rendevo conto che non stavo pensando con la testa ma con il mio pisello."Cosa vuoi da me?" chiesi senza troppa convinzione solo per cercarmi una futura giustificazione.

"Hacer l'amor. Me gusti mucho Claudio". Juliet si sfilò il vestitino colorato restando nuda. Con stupore vidi che non indossava neanche le mutandine. Il suo corpo era perfetto, impreziosito da quella bellezza che solo chi ha passato i trent'anni può avere. Era un frutto arrivato alla sua giusta maturazione, quello che stavo per assaporare. L'amplesso, questa volta, sembrò prolungarsi in eterno. L'esperienza di Juliet, coniugata con una mia più calibrata voglia di autocontrollo, impreziosì quell'atto sessuale senza amore, valorizzandone tutti i suoi momenti. Finimmo per divorarci a vicenda mentre, pensavo, che non mi ero discostato troppo dal ruolo del turista incapace di chiudere in un angolo, il proprio egoismo.

Così com'era arrivata, Juliet se ne andò, lasciando la porta semichiusa e i miei pensieri liberi di vagare nell'aria. Ci trovammo quella sera riuniti intorno alla tavola apparecchiata. Juliet, sempre vestita con l'abitino stampato, era seduta acconto al marito Ernestito, un esile cubano nero come il carbone che proveniva da Baracoa. Fidelia, invece, si era accomodata vicino a me, felice di trovarsi dinnanzi ad una teoria di piatti precedentemente cucinati dalla zia. Ernestito mangiava in silenzio mentre le due donne chiacchieravano tra loro, alzando di tanto in tanto, il tono della voce, mentre mi lanciavano, ambedue, furtivi sguardi. Non sapevo se Fidelia si fosse accorta di quello che c'era stato tra Juliet e me, ad ogni buon conto, mi sforzai ad apparire normale.

"Te gusta el pescado?" chiese Fidelia cercando una improbabile conversazione.

"Decisamente buono. Fai i miei complimenti a tua zia, cucina proprio bene" risposi.

"Diglielo tu, visto che ti piace tanto..." replicò con una punta di acidità.

"Perché mi dici questo?" replicai lapidario. Non mi rispose riservandosi, forse, di ritornare sull'argomento in altra sede. Juliet riportò in cucina gli avanzi che, certamente, non sarebbero andati sprecati e tornò con quattro tazzine piene di fumante caffè. Ernestito si accese una popular senza filtro e accennò ad imbastire una conversazione. "Claudio, de donde eres tu?".

"Milano" risposi amaramente, pensando a quanto mi sarebbe piaciuto scegliere una città differente, una vita diversa. "Ay, me gusto mucho la Italia...pizza, spaghetti, Benetton..." continuò Ernestito, evidenziando oltre ai soliti luoghi comuni che accompagnano l'Italia all'estero, anche un inaspettato consumismo senza frontiere. "Non è tutto bello come credi" ma decisi di troncare la conversazione, ero troppo stanco per discutere con un cubano pieno di sogni ed illusioni.

"Sei stanco?" disse Fidelia correndo in mio aiuto. "Si. E' stata una lunga giornata e sono circa venti ore che non dormo. Penso che sia il caso di andare a riposare. Se tu vuoi -continuai- puoi restare con loro".

"Sei loco? Vengo con te...ma a letto, non a dormire" e s'alzò dalla sedia prendendomi la mano per condurmi docilmente in camera.

Spendi la luce del minuscolo abat-jour ed accesi la radiolina, abbassando il volume. Stavano trasmettendo vecchie arie di mambo famose negli anni cinquanta: gli anni d'oro del Tropicana, della dittatura di Batista e di quel casinò caraibico degli Stati Uniti che era, allora, Cuba. I nostri corpi si avvicinarono al buoi ma ero troppo stanco per un nuovo atto d'amore e mi addormentai dolcemente.

Il canto stridulo di uno striminzito galletto mi svegliò. Al mio fianco trovai una Fidelia vestita di sola pelle che continuava a dormire. La luce filtrava dalle asticelle di legno della finestra, giocando a fare capolino con le ultime ombre della notte. Percepii dei rumori provenienti dalla cucina e pensai che Juliet era indaffarata a preparare la colazione. Mi stiracchiai mentre, ormai sveglio, stavo accingendomi a farmi una doccia. Come percorsa da un brivido, Fidelia spalancò le sue lunghe ciglia nere e, con un filo di voce roca, mi offrì il suo buongiorno.

"Buongiorno amore. Dove vai?" mi disse ma, vedendomi indirizzato verso la porta del bagno, si rinfrancò, avviluppandosi dentro il lenzuola per trovare un pò di calore. Rinchiusi delicatamente la porta della camera ma, prima di entrare nella stanza da bagno, la curiosità mi portò a gettare una occhiata attraverso la finestra che dava sul cortiletto interno della casa. Juliet andava e veniva tra la cucina ed il piccolo patio, dov'era sistemato un armadio dal quale prendeva stoviglie e pentolini vari. Non capii come ma si accorse della mia presenza ed alzò lo sguardo al mio indirizzo, poi aprì uno smagliante sorriso e disse "Bueno Claudio. Quieres café?". Scesi le scale e mi ritrovai seduto su di una specie di sediolo in cucina. Juliet mi porse una tazza allungandomi con l'altra mano, il barattolo dello zucchero grezzo.

"Ernestito dorme?" le domandai.

"No. Cada dìa se va a trabajar muy pronto" ammiccò maliziosa. Bevvi il caffè con gusto anche se lo trovavo più leggero ed acquoso di quello che solitamente bevevo in Italia. "Muchas gracias por el café" le dissi posando la tazzina sopra al tavolino di formica celeste. S'avvicinò repentinamente e mi abbracciò, cercando di baciarmi senza preavviso. Riuscii a malapena a liberarmi dai suoi tentacoli, avendo realizzato che, al piano di sopra, Fidelia stava nel frattempo, uscendo dalla camera.

"Despues quiero restar sola con tigo" sussurrò Juliet allontanandosi come se nulla fosse accaduto e continuando a sfaccendare tra pentole e tegami. Guadagni le scale in tempo per vedere Fidelia uscire dal bagno e rientrare in camera. "Ola chica" le dissi raggiungendola. "Ciao, mio amor" rispose. "Oggi, voglio andare a vedere la città. Ti va?" le chiesi. Lei si rituffò nel letto e riaccese la radiolina. "Stai attento a tia Juliet" disse seria "E' malata".

"Come malata?" chiesi preoccupato. Emise un sospiro di commiserazione. "Deve fare l'amore più volte al giorno...non importa con chi, ma deve. Ne ha bisogno". Mi avvicinai. "E' ninfomane?" chiesi. "Non so come si dice in italiano. Ernestito non è suo marito ma un amante che ha trovato qualche tempo fa. Lui non le dice niente perché gli fa comodo essere ospitato da lei, ma tia Juliet continua ad avere altre avventure, quando Ernestito non c'è. Sicuramente vuole farlo anche con te...anche se sa che io sono muy gelosa" replicò. Rimasi a riflettere. Era allora questo il perché si fosse intrufolata nella mia intimità, la sera prima. Sicuramente avrebbe continuato la sua relazione clandestina durante tutto il mio soggiorno da lei. Decisi di interrompere subito qualsiasi rapporto che non fosse improntato sulla base di semplice cortesia: era troppo pericoloso quel gioco, avrei potuto perdere Fidelia. Dirottai il discorso sul cosa avremmo veduto in quella mia prima giornata habanera. Poi, scendemmo per fare colazione. Juliet aveva preparato il tavolo solo per noi due, segno evidente che non voleva alimentare sospetti con la sua ingombrante presenza. Discretamente servì caffè, pane imburrato, frullato di Mamei e latte, omelette al lardo. Fidelia, come al solito, mangiava tutto con ottimo appetito volgendo, di tanto, il suo sguardo su di me. Alla fine del pasto, salì in camera a prendere il suo zainetto che aveva già preparato in precedenza. "Eccomi, amor" squillò scendendo le scale.

"Come ci muoviamo?". Rise a causa di quella mia sciocca domanda. Uscendo dal portone, fummo inondati da un sole che, nonostante l'ora mattutina, già scottava. Un gruppetto di ragazzi erano radunati intorno ad una Cadillac Sedan del '57 color crema e volsero la loro attenzione su di noi. "Taxiiii" urlò Fidelia. Un paio di loro s'avvicinarono a lei, iniziando una fitta conversazione in cubano, gesticolando per meglio capirsi. Poi Fidelia si ricolse a me "Vogliono 25 dollari per stare tutto il giorno con noi. Ci portano a fare un giro per L'Avana. Ti sta bene?". Senza attendere il mio parere, la Sedan mosse lentamente, fino a raggiungerci. Il conducente, che era anche il proprietario dell'auto, si chiamava Francisco. Dopo le scuole dell'obbligo aveva rinunciato a frequentare l'Università per industriarsi, invece, a guadagnare dollari come tassista abusivo. Non era dell'Avana ma di Campo Florido, una minuscola località dell'entroterra, ubicata tra la capitale e Playa dell'Este. Parlava un pò italiano, appreso dai turisti che scarrozzava, ma non era di molte parole. Nonostante i suoi venticinque anni, appariva maturo e riflessivo. Amava il baseball, le belle macchine e, soprattutto, ballare. Tutto sommato era contento della vita che conduceva, pur lamentandosi in modo velato, del regime castrista.

"Dove andiamo?" domandò. "Vorrei fare una visita panoramica della città ma poi, vorrei visitare il Museo della Rivoluzione e l'Avana vieja...decidi tu, per il resto" dissi.

La pachidermica vettura arrancava sulle strade mal asfaltate delle città mostrando, in pieno, tutta la sua veneranda età. Imboccammo il Malecòn che risultava essere il fulcro di qualsiasi tragitto stradale per l'Avana quando, alla fine del lungomare, Francisco mi indicò con la mano una costruzione. "Quello è l'Hotel Nacional. E' un albergo storico e molto caro...adesso scendiamo per il Malecòn fino al Castillo de la Punta e poi entriamo all'Avana vieja. Ti piacerà". Ammiravo la larga via a quattro corsie che, ai tempi coloniali, era una discarica. Sapevo che i lavori per la costruzione del lungomare erano terminati alla fine degli anni '20. Ma restavo stregato dalle abitazioni che si affacciavano davanti all'oceano. Case e costruzioni in stile coloniale, risalenti al secolo scorso, mal conservavano i loro originali colori che, però, si facevano il largo tra crepe e macerie d'ogni tipo. Era un accostamento di pastello celeste, giallo, rosa, ocra, verdino, bianco che, straordinariamente, si miscelavano insieme in un voluto disordine cromatico.Alcune case erano ancora abitate e lo si evinceva dei panni stesi alle finestre ad asciugare o dalla gente affacciata a curiosare la vita dai minuscoli balconi in ferro battuto. La via era popolata soprattutto da persone che facevano l'autostop. Questo, a Cuba, risultava essere un modo alternativo decisamente acquisito per raggiungere la destinazione e, in particolare all'Avana, evitava di utilizzare uno strano autobus pubblico, di color rosa, denominato 'cammello', per via della sua forma oblunga e gibbosa. Francisco parcheggiò l'ansante vettura quasi davanti al Museo de la Revolucìon dove erano riuniti cimeli di tutte le guerre di indipendenza cubane. Oltrepassammo la grande entrata e, dopo aver pagato l'ingresso, salimmo per la grande scala ottocentesca che conduceva ai due piani soprastanti dove, attraverso un percorso obbligato, si potevano scoprire vari momenti storici dell'isola. Si partiva, come era ovvio, dalla scoperta di Cuba da parte di Colombo e, di conseguenza, dalla feroce lotta di conquista contro gli indios Siboneys e Tainos, gli abitanti autoctoni dell'isla. In un susseguirsi di sale, incisioni, reperti archeologici si attraversavano in pochi metri, quasi cinquecento anni che avevano lo stesso denominatore comune: le lotte per l'indipendenza. Era stata maggiormente messa in risalto la politica coloniale che aveva caratterizzato il diciannovesimo secolo, contro il dominio spagnolo e gli uomini che lo combatterono, tra cui spiccava il poeta e patriota José Martì. Martire della terza guerra di liberazione avviata nella seconda metà dell'ottocento contro la Spagna fu, oltre che un agguerrito rivoluzionario, un affermato scrittore ed alcuni suoi versi, furono utilizzati per musicare la celebre 'Guantanamera'. La storia della politica di indipendenza raggiungeva il suo apice nelle sale dedicate alla rivoluzione castrista, iniziata con il fallito assalto alla Caserma Moncada di Santiago de Cuba e terminata vittoriosamente nel gennaio del 1959. Passando da un ambiente all'altro, potevo osservare oggetti ed icone che denunciavano guerra, lutti, brutalità: dalle garrote spagnole agli archibugi, dalle camice insanguinate dei barbudos, ai mitra di fabbricazione sovietica utilizzati dal M-26 sulla Sierra Maestra. La visita terminava, dopo aver riguadagnato il piano terra, con una sosta al giardino del Museo dov'erano parcheggiate jeep, autovetture, un piccolo aeroplano e un autoblindo, utilizzate durante la rivoluzione dagli uomini di Fidel. Tra questi autentici pezzi da museo, si insinuava in un padiglione chiuso ma dal quale si poteva accedere con lo sguardo attraverso spessi vetri di protezione, lo yacht 'Granma' , il quale fu utilizzato da Castro e da una ottantina di suoi seguaci per iniziare la lotta di liberazione cubana, trasportando il gruppo di rivoluzionari dal Messico alle coste di Cuba. Per un attimo pensai a come sarebbe stata l'isola se, quella minuscola imbarcazione, non fosse mai salpata da Tuxpan e mi resi conto che il gioco dei 'ma' e dei 'se' era duro a morire. Fidelia iniziò a sbadigliare cercando, così, di conquistare la mia attenzione: probabilmente non era una buona compañera e della Revolucion, non gliene importava granché. Tornammo verso la macchina ma di Francisco non v'era traccia. Ne approfittai per raggiungere a piedi il Parque Central portandomi appresso una Fidelia decisamente poco allineata con la mia sete di conoscenza. La gente mi colpiva sempre di più anche se, fastidiosamente, veniva quasi in processione a domandarmi di acquistare sigari, rum o guide. Fidelia aveva allertato tutti i suoi sensi per proteggermi e, quindi, per tutelare il suo piccolo bene. Allontanava jineteri e jinetere con modi sbrigativi e risoluti che non ammettevano replica, pur rendendosi conto, che quello che sarebbe stato il pedaggio da pagare stando con me. Ci fermammo ad una tienda che disponeva di tavolini e sedie protetti dal sole grazie a degli ombrelloni dall'equilibrio precario. Davanti ad una cerveza e al solito succo di mango chiese del perché di quel suo ombroso modo di fare. "Mi stanno tutti sul cazzo!" rispose. "Ma perché? In fondo stanno cercando di guadagnare qualche dollaro..." replicai.

"Quelli ti tirano anche le maledizioni -fece lei seriamente- Sai cosa mi dicevano? Di aiutarli a farti spendere qualche soldo perché, in fondo, io ero come loro e che quando tu sarai ripartito, sarò costretta a fare come loro...stando senza dollari a sbattermi per trovare il sistema per mangiare". Pensai a quello che mi aveva detto "Ma che c'entrano le maledizioni delle quali parli?" Lei cercò un gomma da masticare nella sua borsetta e aggiunse "Perché a Cuba c'è la Santeria. Sono pratiche magiche che possono essere buone oppure cattive. A Santiago le fanno bene...io lo so". Continuò a sorseggiare il suo mangojuice dalla cannuccia di plastica senza distogliere il suo sguardo da me. "Non ci credi? Anch'io ti ho fatto fare una santeria. Per farti innamorare di me e, infatti, sei tornato a Cuba, adesso". Scossi la testa dimostrandole così che non credevo a quelle cose e ai suoi riti. "Sono qui per mia scelta e non perché qualche stregone mi ha costretto a tornare -dissi-. Ti amo perché mi piaci e perché l'amore non ha spiegazioni logiche, altro che pratiche magiche....". "Vuoi assistere ad un rito?" chiese posando la lattina ormai vuota sopra al minuscolo tavolino di formica. "Non saprei...non sono molto attirato" risposi. "Entonces, tieni miedo" disse ridendo fragorosamente. "Ma quale paura...solo che non ci credo. Potrei anche assistere a questa cerimonia, solo per dimostrarti che non ci credo. Adesso torniamo alla macchina" chiusi deciso. Raggiungemmo Francisco che stava frugando dentro al cofano dell'auto. "Problemi?" chiesi quasi irretito dalla conversazione precedente. "No problem -risposte in inglese- Donde vamos?" chiese gentilmente. "Bodeguita del Medio e poi in giro per l'Avana. Cerca un ristorante dove poter mangiare qualcosa, ok?".

Non percorremmo molta strada perché stavamo già nella città vecchia. Proseguimmo a piedi fino alla Plaza de la Catedral, dov'era situato un animatissimo mercatino a favore dei pepes di turno. Decine di bancarelle esibivano ai turisti, souvenir e prodotti dell'artigianato locale in una confusione di voci e rumori indecifrabili dove spuntavano dialetti di tutto il mondo. Gruppi di stranieri, condotti in pullman fino al vicino parcheggio, fotografando e filmando, cercavano di aprirsi dei varchi attraverso i quali passare per giungere alla BdM, il celebre bar ristorante che era stato un punto di incontro di artisti e gente famosa.

Hemingway, che era solito bere il suo mojito alla Bodeguita, era stato l'ultimo grande rappresentante di quell'intelligenza mondiale ormai introvabile nel paese del comunismo reale. Della vecchia Bodeguita restava il nome, la Calle Emperado 27, le scritte graffite sui muri del locale, una icona turistica e turisti vuoto a perdere. Rifiutai di entrarci dentro quale 'tappa obbligata' e decisi di rimanere ancora un pò a ciondolare tra le bancarelle della piazza. Fidelia mi prese lievemente la mano e seguì docilmente il mio galleggiare nel colore locale. Ci soffermammo davanti ad una bancarella che vendeva alcune sculture riproducenti le case ed i palazzi dell'Avana Vieja. In scala ridotta, l'artista, aveva realizzato dei piccoli capolavori di scenografia tridimensionale che ritraevano le parti più interessanti dei più bei scorci architettonici della vecchia città. Per 30 dollari, divenni proprietario di un angolo del Malecòn in miniatura. Lentamente raggiungemmo la macchina, facendoci largo tra la folla devastante che continuava a riversarsi nel Barrio. Francisco ci condusse in un ristorante del quartiere cinese, anche se definirlo quartiere era una esagerazione. Si trattava, infatti, di due vie vicine al Capitolio Nacional, la Calle Zanja e la Calle Rayo, che costituivano il punto di riferimento di quasi duemila cinesi che vivevano all'Avana. Davanti ad un piatto di insipidi involtini primavera e maialino in agrodolce, stavo riflettendo sulla eccentricità di quella città che avevo iniziato ad amare prima di conoscerla. Fidelia mi strappò dai miei pensieri. "Non ero mai stata in un ristorante cinese".

"Ti piace la cucina?" le chiesi. "Non so...basta che riempio la mia pancia anche oggi anche se non sono abituata a questi sapori. Però sono contenta di stare insieme a te".

"Fidelia -dissi- lo sai che ho atteso questi momenti per tutto il tempo che mi ha diviso da te? A Milano non facevo altro che pensarti sempre. In ogni cosa che facevo, c'eri tu, ad attendermi".

Mi fissò compiaciuta. "Non so se hai conosciuto a Varadero, quell'italiano...Pierluigi -continuai-. Beh, lui è uno che conosce molto bene Cuba perché ci viene spesso da tanti anni. L'ho incontrato a Milano e ci siamo visti spesso. Solo con lui riuscivo a stare a mio agio, perché potevo sfogarmi e sapevo, in cuor mio, che lui capiva i miei pensieri". Mi accesi una sigaretta ed aspirai avidamente come per cercare una giusta concentrazione. "E' stato difficile vivere di ricordi e di speranze. In Italia mi sentivo fuori posto, come dissociato...capisci?". Lei, continuava a mangiare l'intruglio cinese e rialzando la testa rispose "Non ti capisco bene ma l'importante è che tu mi ami. Mi ami veramente?" aggiunse per avere conferma.

"Hai dei dubbi?" avanzai.

"Tu, in Italia hai molte donne ed io sono gelosa" replicò vezzosamente.

"Invece, non ho nessuna -risposi-. Ti ho pensato spesso ed è per questo che sono ritornato: per conoscerti meglio, perché vorrei stare insieme a te".

Miagolò la sua soddisfazione meglio che poteva, addolcendo ancor di più, il suo sguardo languido. "Non voglio più andare con i turisti. Solo con te sto veramente bene e mi sento vera. Quando conosco ragazzi stranieri, devo sempre fingerli di amarli per avere quello che mi interessa" ammise tristemente.

"Ma perché non abbandoni questa vita?".

La mia domanda non rimase vuota e spiegò. "Vedi, Claudio. Io, al mio paese, sono povera e non posso permettermi nulla. Niente vestiti e niente divertimenti. Nada de nada. Ma ciò che è tremendo è che non c'è nulla da mangiare. La libreta non riesce a coprire i bisogni reali e ci si deve arrangiare come si può. Per questo ho iniziato a frequentare i turisti. Solo grazie a loro riesco a guadagnare dollari e vestiti, oltre ad approfittare dei divertimenti che mi offrono. E una volta che inizi la vita da jinetera, non è facile staccarsene, perché i vantaggi sino tanti per chi non ha niente".

"Come fai a pensare che io sia diverso dagli altri turisti?" le chiesi curioso.

"Tu cerchi di capire noi cubani. Poi, non ti sei approfittato di questa situazione e questo già te l' ho detto a Varadero. Il fatto che tu sia ritornato dopo breve tempo, significa che ho ragione". Sentivo che stava sgranando tutto il suo miglior repertorio al fine di convincermi della sua sincerità, ma percepivo una stonatura che non sapevo decifrare. Sorvolai sull'indagare quel senso di vuoto che avevo provato nell'assimilare quella sua ultima frase, preferendo cambiare discorso.

"Cosa vuoi fare stasera?" domandai.

"Possiamo andare a ballare, se vuoi" rispose, conoscendo in anticipo la mia risposta.

Finimmo di pranzare velocemente dentro il locale deserto, segno inequivocabile che i cubani non potevano permettersi neanche una piccolissima distrazione. Uscimmo dal ristorante raggiungendo un Francisco a guardia della sua macchina. Lasciammo il Barrio, passando questa volta per il Capitolio e, subito dopo, per Plaza de la Revolucion.

Passeggiando tra i giardini quasi sterili di quel luogo, mi venivano in mente le adunate oceaniche che erano solite svolgersi nelle occasioni politiche più importanti. Il grande ritratto del Che emergeva dalla parete di un palazzo, accompagnando l'ideologia del comunismo cubano anche a distanza di tanti anni dalla sua morte. Quante illusioni nate e svanite nel corso di qualche decennio. QUante persone immolatesi nel nome di una causa che non era riuscita a realizzare i suoi propositi. Fidelia, come al solito, mi riportò alla realtà.

"Andiamo al Mirador?".

"Cos'é?" chiesi non ricordandomi nulla delle guide turistiche lette a Milano.

"Lo vedrai tra poco. Ritorniamo alla macchina".

Dopo aver percorso nuovamente il Malecòn, Francisco ci accompagnò al Mirador. Si trattava semplicemente del Castillo de los Tres Reyes del Morro, costruito nel 1600 su progetto dell'italiano Antonelli. Si trovava sulla punta della riva orientale del canale del porto, ed era stata considerata, secoli addietro, una delle fortezze più temibili di tutto il Mar dei Caraibi. Dal cortile antistante il Castello, si godeva una superba vista della città dell'Avana, in cui si evidenziava il prospiciente lungomare, il canale del porto e i grattacieli che si stagliavano alti nel cielo, staccandosi prepotentemente dai vicoli del Barrio.

"E' bellissima" dissi convinto.

"E' poverissima" rispose pragmatica Fidelia.

"Tutta Cuba è poverissima" aggiunsi.

"Tutta colpa del Bloqueo e dei gringos" replicò severamente.

Ci abbracciammo come se, con quel nostro gesto, potevamo esorcizzare tutte le paure ed i sogni irrealizzati del popolo cubano. Francisco ci ricondusse a Calle 38, davanti alla casa di Juliet dopo aver incassato i dollari pattuiti per il servizio di taxi e ricandidandosi in caso di una nostra nuova necessità. Ci salutammo cordialmente certi di rivederlo nuovamente ad armeggiare dentro il cofano della sua macchina dalle parti della Calle. Juliet ci venne incontro sempre sfoggiando il vestitino a fiori stampati e ci salutò calorosamente. Ernestito stazionava in soggiorno a guardare la televisione. In casa aleggiava un forte odore di cucina ma Fidelia mi spinse su per le scale imboccando decisamente la porta della nostra stanza.

"Finalmente soli" disse.

"Stanca?" domandai.

"Un poco...vado a farmi una doccia ma non andartene" e sparì con il mio asciugamano da bagno portandosi appresso anche la mia camicia pulita. Guardai attraverso la finestra. La strada era piena di animazione. Oltre alla gente che passava, notai un gruppetti di ragazzi che stavano seduti su di un muricciolo ascoltando musiche salsa da un voluminoso radioregistratore. Non erano poi tanto diversi dai loro coetanei neri americani che si potevano trovare nel Bronx o a Venice a ballare hip op o rap. Alcune vecchie auto attraversavano di tanto in tanto il mio sguardo, oltrepassando biciclette che, abbastanza numerose, erano considerate il più popolare mezzo di trasporto dopo i piedi. Con una trentina di dollari, una pesante bicicletta cinese poteva cambiare proprietario ma questi, doveva custodirla e proteggerla come un bene prezioso, dagli innumerevoli ladri che imperversavano nell'isola. Il bisogno di mangiare e l'esigenza del sopravvivere quotidiano, accompagnata dalla civetteria di possedere qualcosa di superfluo, aveva indotto molti ragazzi 'svegli', a rischiare anni di carcere durissimo, tentando furti non solo a discapito di turisti ma anche degli stessi connazionali. Per questo, ogni abitazione, era dotata di inferriate alle porte ed alle finestre per essere meglio difesa da quella che stava diventando una piaga certa, frutto del malessere cubano. Ovviamente, in tutti gli alberghi, funzionava un rigido servizio di sicurezza che interdiva, di fatto, l'accesso nelle aree di proprietà dell'albergo a tutti i cubani che non faceva parte dello staff di servizio. Questo per evitare episodi di furto che potevano limitare l'immagine di isola felice e sicura che doveva essere esportata all'estero dai turisti che avevano soggiornato nella Patria del Caribe.

"Ay mio amor..."gridò Fidelia rientrando in camera. Era appena uscita dalla doccia, avvolta nell'asciugamano bianco che le copriva, solo parzialmente, il corpo ancora umido. Le trecce dei suoi capelli gocciolanti, le scivolavano davanti agli occhi, nascondendo uno sguardo assassino che indicava chiaramente le sue intenzioni. Con mosse calibrate, come imitando una top model, guadagnò il letto sul quale si stese, rimanendo però protetta dal telo di spugna. La raggiunsi e mi misi a scartare l'insolito involucro con la stessa voluttà con la quale un bambino scarta la sua caramella preferita. Era bellissima. La dolcezza del mio amore si impadronì di lei che, pure vogliosa, giocava a fare resistenza di fronte alle mie carezze. Poi, tutto scomparve: i rumori della strada, la musica che si diffondeva dalla radio, lo spignattare che saliva dalla cucina, le considerazioni vuoto a perdere che mi avevano tenuto compagnia fino ad allora. Il vortice di emozioni che stavo vivendo, cancellò proprio tutto, lasciando nitido solo lei: il suo corpo, il suo profumo animalesco, il suo essere.

Alla fine dell'amplesso dove non vi erano stati vincitori e vinti, accesi l'ennesima sigaretta della giornata con la quale mi divertii a fare anelli di fumo.

"Sto proprio bene con te" le sussurrai all'orecchio.

"Anch'io, amore mio" rispose con un filo di voce roca.

Guardai l'ora pensando che a Milano, in quel preciso istante, la gente stava affannandosi dentro al metrò, nelle strade trafficate di lamiere, in fila agli sportelli delle banche e degli uffici postali, svincolando sotto il magma di smog ed inquinamento che permeava costantemente la città della Madonnina. Quanto era distante quella cappa plumbea dal sole ormai tramontato di quell'isola tropicale. Eppure, Cuba non aveva la bellezza esotica delle Seychelles o delle Maldive, non ostentava quella ricchezza sfrenata della Bahamas o delle altre isole delle Antille. Il mare, seppur turchese e cristallino, era da considerarsi quasi 'normale' paragonato a quello incredibile della Polinesia. Eppure, quell'isola aveva il suo particolare fascino che la rendeva unica e preziosa.

Un rumore di passi interruppe i miei pensieri.

Juliet bussò alla porta che aprì senza attendere risposta.

"Ay Fidelia. Que pasa?" domandò però guardando me e non la nipote.

"Cazzo, zia -rispose scocciata Fidelia- Eres loca?".

"No. Tiengo hambre, Fidelita. No puedo esperarte por toda la vida y tambien Claudio tiene hambre" replicò.

Fidelia le lanciò uno sguardo di fuoco.

"Che c'entro io?" dissi per evitare l'inizio di una disputa tutta in famiglia nella quale mi sentivo come un osso tra due cani.

Fidelia rispose "La zia dice che tu hai fame perché pure lei ha fame. Quindi, è venuta a dirci di scendere così lei può mangiare. Non ha capito che tu hai pagato e quindi sei tu che decidi quando e cosa fare. Poi, mi sta sul cazzo perché ti guarda troppo".

"Non litigate. Poi -aggiunsi- io non comando proprio niente. Ho pagato per avere un servizio ma non per rendere le persone schiave di obbedire ai miei comandi". Mi guardò con indignazione.

"Non hai capito nulla, pobrecito. A Cuba tu paghi e devi avere ciò per il quale hai pagato. La zia ha preso mille dollari per due settimane ed ha guadagnato tanto con questo negozio. Deve stare al nostro servizio perché così funziona qua e non si deve più permettere di decidere per noi".

"Ma dai...-dissi concludendo- In fondo è tua zia".

"Che cazzo me ne frega! -rispose con accento quasi romanesco- Se non la smette le riprendo i dollari e cerco un'altra casa".

Juliet dopo aver seguito minuziosamente la nostra conversazione, richiuse la porta e se ne tornò in cucina.

"Devi capire Claudio -disse calmandosi- che non siamo in Italia. Ci sono altre regole di vita che tu non conosci. Ti rispettano perché sei un turista ma si approfittando perché non sai ancora nulla. La gente, i cubani, si incazzano quando ti vedono insieme a me perché sanno che io ti proteggo da loro. Anche mia tia Juliet è una hjia de puta: quella, oltre ai soldi, ti vuole pure singare, l'ho capito, sai?".

"Fidelia, adesso calmati. Non roviniamo questi giorni che abbiamo aspettato così a lungo. Cerchiamo di essere più tolleranti, in fondo, non c'è niente di male. Altrimenti corriamo il rischio di incazzarsi su ogni cosa. Per me, l'importante è starti vicino....il resto non conta".

La bacia come per suggellare quella voglia di serenità di cui avevo bisogno e per chiudere definitivamente il suo sfogo.

Seguirono, uno dopo l'altro, giorni incantevoli. DI giorno, sfrugugliavo la città cercando di impossessarmi dei suoi piccoli mille segreti custoditi all'interno dei suoi quartieri. Tornai anche alla Bodeguida e, trovandola meno affollata, ne approfittai per bere un mojito decisamente annacquato e per apporre la mia firma sulle luride pareti. Visitai la Cattedrale dai due campanili che aveva ospitato le ceneri di Colombo e mi soffermai alle tre fortezze della città: la Fuerza, la Punta ed il famoso Morro che già conoscevo. Ma era il susseguirsi di emozioni che traeva forza dalla gente dell'Avana Vieja a rendere i miei stimoli più netti. Vecchi dalla facce incartapecorite dal tempo, bambini alti meno di un metro giocosi tra le sudice strade, ragazze dal fare provocante alla ricerca del turista da catturare, ragazzi che si sbattevano per guadagnarsi l'oggi, incastrandosi tra i molteplici traffici illegali. Il tutto, era condito dall'architettura coloniale del quartiere e dalle vecchie automobili nordamericane di quasi mezzo secolo, parcheggiate nelle anguste viuzze. Ogni tanto si apriva una piazza coi suoi bei palazzi d'epoca, ospitante un vecchio Convento o una Chiesa del tempo che fu. E, tra la sporcizia generata da un dignitoso ma inesorabile degrado, trovavano il loro spazio i venditori ambulanti di cultura, che proponevano sopra a delle minuscole bancarelle, libri di ogni tipo e foggia. Curiosando, si potevano trovare veri pezzi d'antiquariato, rappresentati da testi editi nell'Ottocento; gli stessi si confondevano con libri apparsi dopo la Rivoluzione da dove emergevano scritti di Castro e Guevara. Ma, insieme all'opera omnia di Martì e Neruda, trovavi riviste sovietiche in puro cirillico confuse con le edizione degli anni '40 di Life.

Le sere passavano tra il dolce far nulla casalingo, magari seguendo alla televisione una telenovela messicana datata di vent'anni prima, oppure approfittando della conoscenza dei locali della città che aveva Francisco, andavamo in giro con lui a divertirsi tra salsa e merengue.

Juliet era restata al suo posto, pur tentando velatamente di farmi capire la sua piena disponibilità. A volte cercavo di capire il perché di quel mio unico atto di debolezza con lei, senza trovare alcuna giustificazione plausibile e la cosa, mi rendeva impotente nei confronti di quel mio gesto gratuito. Durante quel periodo, avevo conosciuto più a fondo Fidelia che mi seguitava a raccontarmi la sua battaglia quotidiana per rimediare beni introvabili e le varie vicissitudini che l'avevano accompagnata e la stavano ancora accompagnando, per svoltare la vita. Anche lei non si era potuta sottrarre al destino che accomunava circa undici milioni di cubani nell'arte di arrangiarsi. I giovani godevano, però, di migliori opportunità per emergere da quel magma di disperazione in quanto, avevano dalla loro, la vitalità propria della loro età e non avevano conosciuto il passato pre rivoluzionario. Le ragazze emigravano dai loro miseri paesi verso le più note località di villeggiatura che accoglievano, ogni anno, migliaia di turisti stranieri in cerca di esotiche emozioni. Da qui, il proliferare di quella filosofia di vita, definito jinetero, che relazionava gli autoctoni con i ricchi stranieri, ben felici di trovare una disponibilità a buon mercato. Fidelia mi disse che, in un primo momento i jineteri, seppur illegali, erano tollerati dal regime castrista perché, attraverso il loro modo di relazionarsi con i turisti soddisfandoli nelle loro esigenze, causavano una buona cassa di risonanza a favore del turismo che vedeva, stagione dopo stagione, l'incremento dei visitatori che portavano preziosi dollari nelle magre casse dello stato.

Ma, con l'andare del tempo e come tutte le cose, l'effetto jineteros era degenerato a causa di una maggiore richiesta di turismo sessuale che aveva iniziato a crescere sulle spalle della disperazione. A volta non si trattava più di semplici prestazioni ma di vere e proprie aberrazioni. Era stato scoperto un giro di prostituzione minorile, un altro legato alla pornografia e, come ovvio, aveva iniziato a diffondersi la droga, importata da Santo Domingo e tagliata in casa.

Tutto questo, se non frenato in tempo, avrebbe avuto un effetto boomerang nata dalla delinquenza in crescente aumento e all'incontrollabilità di alcune situazioni che, certamente, non avrebbero generato buona pubblicità all'isola. Ma, non solo si doveva tutelare maggiormente il turista, iper proteggendolo da vari pericoli ma si doveva, nel contempo, eliminare quella piaga giovanile che, con l'andar del tempo, poteva diventare una minaccia per il regime che governava il paese. Erano, quindi, state emanate alcune leggi che, con ferma repressione, tendevano a far diminuire il fenomeno dei jineteri, ritenuti principali responsabili di quella situazione. Fermi e controlli iniziavano a stringere l'afflusso di ragazzi cubani provenienti dai loro paesi d'origine verso le località turistiche come, di contro, i jineteri già presenti dovevano essere molto prudenti nella loro condotta per evitare fogli di via che li avrebbero marcati a vita. Fidelia mi confessò di essere già stata fermata in differenti occasioni e che le sarebbe già stato intimato l'ordine di tornare al suo paese. Varadero stava cambiando proprio in virtù del giro di vite messo in atto dalla Fuerza Armata Revolucionaria e dalle varie istituzioni di controllo dell'ordine pubblico. I ragazzi che restavano, mi spiegò, erano abitanti regolari oppure jineteri confidenti della polizia.

"Capisci amore -disse- non potrò più andare a Varadero perché se mi fermassero, rischierei di andare in prigione. Così, dopo che tu sarai partito, sarò costretta a tornare a casa dai miei a Moròn".

"E cosa farai a casa?" chiesi sollevato dal fatto che avrebbe smesso la vita.

"La fame. Non c'è nulla da fare e non ci sono turisti. Mi alzerò la mattina tardi così ho meno tempo per sentire la fame. Poi mi metterò seduta fuori casa a sentire la radio e a litigare con mia mamma. Se ci sarà da magiare, mangerò...ma verso le cinque del pomeriggio perché così si divide la giornata in due parti e da noi si mangia solo una volta al giorno e sempre congrì. Poi chiacchiererò con le mie amiche fino a sera. Si guarda la televisione e si aspetta il sonno per andare a dormire e questo tutti i giorni allo stesso modo".

"Ma non puoi andare a lavorare? Ti passerebbe il tempo e guadagneresti soldi" le chiesi speranzoso.

"Per cinque dollari al mese e fare un culo così? No grazie, resto a dormire..." rispose.

Era la filosofia dei jineteri: guadagnare molto, spendendo tutto e subito e col minimo sforzo. Anche Fidelia non si staccava dall'ottica dell'abitudine, ormai radicata in lei, generata da anni di vita più o meno facile ma, indubbiamente priva di responsabilità, qual'era quella del jinetero.

"Cosa ti aspetti dalla vita?". Ci pensò un attimo e rispose "Che tu mi sposi e mi porti in Italia. Sarei felicissima di questo, ed anche mia madre".

"Perché -chiesi- conosce la nostra storia?"

"Certo, le dico sempre tutto. Quando telefonavi oppure arrivava una tua lettera...lei, però, mi dice che tu sei come gli altri: non mi vuoi bene e mi fai tante promesse che non manterrai". Mi prese in contropiede. Di promesse ne avevo fatte tante a Varadero ma non mi ero impegnato nello sposarla o nel portarla a vivere in Italia. Forse era vero quello che pensava sua madre, non ero dissimile da altri che erano stati con lei prima di me.

"Senti Fidelia. Non ti ho mai detto che ti avrei sposata ma non ho neppure detto il contrario. Adesso, però, ti faccio una promessa vera: ti porterò in Italia a stare qualche tempo con me. Ci conosceremo meglio e tu potrai vedere come si vive da noi...devi solo avere pazienza ma te lo giuro" dissi solennemente. I suoi occhi s'illuminarono di gioia mentre mi stringeva in un forte abbraccio dove potevo intuire tutta la sua infantile genuinità. Chissà quante altre volte si era trovata in quella stessa situazione. Chissà quanti sogni aveva riposti nel cassetto della sua illusione. Non dovevo deluderla, doveva realizzare il suo sogno.

La luna splendeva piena. L'alone pallido che la circondava, spargeva una fioca luce sulle tenebrose nuvole che la incorniciavano, creando un effetto tridimensionale delle stesse. Una polvere di stelle brillava disordinatamente nelle zone terse del cielo sopra noi. Una brezza di un vento caldo scompigliava i nostri capelli che, fluttuavano nell'aria. Tutto appariva melanconicamente magico in quella notte habanera. In lontananza, solo un cane triste lanciava il suo disperato abbaiare. Alle quattro della mattina tutto era immobile e silenzioso. La folla quotidiana si era dissolta nel nulla lasciandoci padroni della città.

Noi, il nostro amore e L'Avana.

Tutto si fondeva meravigliosamente creando una atmosfera difficile da scordare.

Mi ero svegliato quasi di soprassalto poco prima, alzandomi dal letto dopo una incredibile serata di amore. Fidelia avevo seguito il mio peregrinare lungo le Calli del Vedado, fino a trovare una piazzetta dov'eravamo seduti a contemplare quel silenzio esclusivamente nostro.

"Chissà se a Milano, le notti sono così belle" mormorò.

Non valeva la pena spiegarle che in Italia era difficile vivere dei momenti così unici e pieni di poesia come quello che stavamo passando il quel preciso istante. Come poterle far capire la convulsità della nostra vita occidentale che ci separava sempre più dai rapporti umani, dalle nostre radici esistenziali, dalla tranquillità di una vita serena senza traguardi da dover raggiungere, senza mete da conquistare man mano.

Non avrebbe mai infranto il suo sogno rappresentato dal benessere esibito da orde di turisti che sfoggiavano, magari in quell'unica settimana di vacanza trascorsa a Cuba, il frutto di undici mesi di risparmi strappati alla voracità delle bollette da pagare, delle tasse da evadere, degli aumenti di tutti i beni e servizi quotidiani. Come dirle che la maglietta di Benetton era indossata solo per dissetare quel narcisistico consumismo che la pubblicità opprimente alimentava in noi?

Era preferibile farla cullare nelle sue illusioni: le avrebbero reso la sua esistenza meno amara da vivere. Dolcemente le presi le mani snelle.

"Amore -dissi- con te sarebbe magnifico in qualsiasi parte della terra".

Rimase soddisfatta di quelle parole e posò la sua testolina sul mio petto. Scrutavo il cielo, ora illuminato da miliardi di astri. Le nuvole che prima oscuravano una parte della volta celeste, si erano dissolte come per incanto.

Cos'è una intuizione d'amore? Un attimo fuggente di armonia col creato ottenuta attraverso una bene quasi palpabile. Ma, in quel momento, volai in alto seguendo la poesia del mio cuore.

"Guarda -dissi-. Osserva bene....la vedi quella stella là in alto?" e le indicai un puntino luminoso tra i tanti ma così luminoso che si staccava dagli altri.

Lei alzò lo sguardo seguendo la rotta indicata dal mio dito, poi annuì.

"Ora ti faccio un grande regalo....quella stella è tua, d'ora in poi. Ricordati che, in qualsiasi momento della tua vita che la guarderai, ed in qualsiasi parte della terra ti troverai, potrai dire a tutti che in una notte stellata, un uomo italiano l'ha donata a te e che questo tuo regalo, ti seguirà per tutta la vita".

Scoppiò in un sommesso pianto di gioia. Fra tutti i doni che aveva ricevuto, proprio quello meno concreto, meno utile, meno divertente, si era trasformato in un prezioso giuramento d'amore. Fidelia aveva capito cosa vibrava in me ed era commossa e felice allo stesso tempo come lo ero io. Si stava avvicinando il momento della mia partenza e durante quei giorni avevo capito quanto fosse importante per me quel rapporto nato all'ombra di un popolo fiero e cordiale. Ma cosa amavo? Fidelia, in quanto tale oppure solamente perché cubana? Non potevo districare quel groviglio di emozioni che formavano i miei sentimenti. Non vi era un confine delineato, tutto s'amalgamava insieme, non lasciando trasparire vie di distinzione tra i vari elementi che componevano quella sciarada. Avevo imparato molto dalle due settimane trascorse in una situazione quasi vera, non più da totale turista. In mezzo alla gente potevo scorgere la miseria prodotta da un embargo che non aveva simili nella storia recente dell'umanità. Questo piccolo paese in mezzo al mare, ancora spaventava il mondo del dollaro che continuava, con tutti i mezzi possibili, a combatterlo duramente per sopprimerlo definitivamente. Tutto questo mi appariva come inconcepibile e tutt'altro che dignitoso. E, in quell'impari lotta, soffriva un popolo intero che era arrivato alla fame pur di mantenere intatto il suo diritto di sovrana indipendenza.

L'aeroporto era differente ma la storia si ripeteva con una più marcata intensità rispetto a quella già conosciuta a Varadero, la prima volta. Gli ultimi dollari avanzatimi erano passati nelle mani di Fidelia, nella speranza che potessero essere utilizzati per alleviarle, almeno per un pò, le sofferenze della grigia esistenza che l'attendeva. Anche questa volta avevo saccheggiato quasi interamente il mio bagaglio, regalando tutto quello che potevo a Ernestito, Juliet, Francisco e Fidelia. Tornavo con gli indirizzi di tutti loro ben scritti su di un minuscolo foglietto di carta ingiallita, con la promessa di spedire una cartolina ad ognuno di loro, al mio arrivo in Italia. Rimuginavo su Juliet e a come mi aveva baciato sulla bocca per augurarmi il buon viaggio, prima di lasciare la linda casetta che mi aveva ospitato. Così come mi capitava di pensare ad Ernestito e alla sua strana vita coniugale.

Mi rammaricavo, però, di non essere tornato da Mama Estrella, con la quale avrei voluto parlare ancora di Guevara e della Cuba eroica del dopo rivoluzione.

Molte cose errano rimaste dentro alla nicchia dei desideri ma il tempo trascorso all'Avana non era stato mal speso. Un pò più cubano nell'anima e con altre esperienze nello zaino, stavo rientrando nel mio mondo che mi stava già aspettando per rifagocitarmi nei suoi assurdi ingranaggi.

L'aereo bianco dalle lunghe strisce parallele gialle e rosse dell'Iberia era parcheggiato sulla pista in attesa del popolo dei vacanzieri. Lo potevamo guardare attraverso le grosse vetrate del bar del primo piano dell'aerostazione. Il sole splendeva alto all'inizio di quel pomeriggio che mi vedeva partire dopo aver espletato le procedure di imbarco, ed io invidiavo chi era appena arrivato con il volo proveniente dall'Europa.

Fidelia aveva indossato un sobrio vestito verde smeraldo che ne risaltava le forme perfette. Era bellissima come sempre anche se, una tristezza evidente, ne imbronciava il candido viso di mulatta. Gli occhi spenti, gli angoli delle labbra abbassati, il suo fare taciturno: tutto contribuiva a quella sua tristezza che stonava col variopinto mondo che ci circondava.

"Mi telefonerai?" disse con un filo di voce.

"Stai tranquilla. Non posso più abbandonarti...lo sai, no?".

"Veramente mi inviterai in Italia?" continuò come per cercare il cordone ombelicale della sua speranza in me.

"Questa volta l'ho promesso, ricordi?" replicai.

L'altoparlante del 'Josè Martì' annunciò in spagnolo la chiamata all'imbarco per il mio volo, l'unico in partenza intercontinentale per quel giorno.

La baciai lungamente per avere il sapore della sua bocca dentro di me per tutto il viaggio, dopo di che m'affrettai al controllo passaporti.

L'omino con la divisa militare seduto dietro al box armeggiò col mio documento e con il visto, visibilmente soddisfatto del suo potere.

"Señor, tiene una novia aquì?" chiese.

"Non una novia -risposi- una mujer cubana".

"Pues entoces, hasta luego y buen viaje" aggiunse.

Restituendomi il documento non si accorse delle lacrime che segnavano il mio volto.





17/03/2007 18:02
 
Quota
Vagavo per la città immersa nella sua primavera fatta di nebbia e sole pallido.

Cuba e Fidelia erano radicate dentro me in modo indissolubile. Per i miei due viaggi e tutto ciò ad essi collegato, avevo dato fondo a tutti i miei risparmi. Non ero ricco, non lo ero mai stato. Avevo avuto la possibilità, nonostante il fatto che vivessi da single, di accantonare qualcosa ma, fra regali bollette telefoniche e viaggi per Cuba, avevo quasi azzerato il mio piccolo capitale.

Ogni giorno rammentavo la promessa dell'invito fatto a Fidelia e, appena giunto in Italia, mi procurai tutte le necessarie informazioni.

All'ambasciata cubana mi spiegarono che avrei dovuto compilare una richiesta ufficiale nella quale mi assumevo tutte le responsabilità di mantenimento della ragazza, le spese di viaggio e le spese proprie dell'invito. Poi, avrebbero rilasciato il visto ma, sarei dovuto andare alla Questura la quale doveva autorizzare il visto provvisorio di entrata in Italia. Tutta questa trafila implicava la presentazione di molti fastidiosi documenti che erano, di fatto, dei voluti ostacoli nei confronti di tutti coloro che, per un verso o per l'altro, non godevano di una ferma salute economica.

Il mio pensiero correva alle spese necessarie per l'invito,il viaggio e la permanenza di Fidelia a Milano che sarebbe costata, anche per via di tutte le cose che desiderava comprarsi una volta arrivata in Italia. Durante i momenti trascorsi a Cuba a parlare del suo sogno di venire in Italia, spesso mi raccontava di cosa avrebbe acquistato per lei e per i suoi famigliari. Mi parlava dei viaggi e delle città che avrebbe voluto visitare una volta giunta nel Belpaese. E, la somma di tutte le spese che avevo preventivato, andava ben oltre a quelle che erano le mie reali capacità del momento. Non desideravo affatto fare marcia indietro ma, a conti fatti, sarebbe costato meno un mio improbabile ritorno a Cuba che non una sua venuta in Italia. Di questa preoccupazione non ne feci parola durante le lunghe telefonate che, almeno una volta alla settimana, varcavano l'Oceano. Lei non avrebbe compreso i problemi ed avrebbe equivocato la mia posizione, collocandomi nella galleria di coloro che l'avevano già presa in giro. Temporeggiavo anche nelle lettere, spiegandole che in quel momento, il lavoro mi portava spesso fuori città e, di conseguenza, una sua visita in Italia sarebbe stata fuori luogo. Preso dall'ansia, avevo cercato di mettermi in contatto con Pierluigi per avere un consiglio ma, ogni mio tentativo naufragava all'incontro con la segreteria telefonica del suo cellulare.

In quel periodo, solo il ricordo di quella notte all'Avana, mi consolava. Trovavo conforto solo rifugiandomi nei meandri della mia memoria, dai quali catturavo episodi vissuti a Cuba durante la mia seconda esperienza. La mia attività lavorativa proseguiva atona, come tutte le cose della mia vita, in attesa di poter mantenere fede alla mia promessa. Quando ero particolarmente triste, entravo dentro ad una agenzia di viaggio per prendere depliant di Cuba che mi ritrovavo a sfogliare a casa, ringiovanendo quel dolce ricordo fatto di sensazioni malinconiche. Il tempo scorreva lento e senza punti di riferimento. Avevo esaurito la possibilità di ipotizzare un mio ritorno a Cuba, non più praticabile per via della feroce politica del risparmio che avevo iniziato a realizzare per racimolare, il prima possibile, i fondi necessari per invitare Fidelia a Milano.

Nel frattempo, per dimostrarle il mio reale interessamento, avanzai la richiesta per il suo invito all'AMbasciata Cubana che, dopo un paio di settimane, mi inoltrò copia dell'avvenuto atto ufficiale trasmesso in originale alla Consulteria Juridica dell'Avana. Nelle breve comunicazione allegata alla fotocopia, mi si informava che l'originale sarebbe stato inoltrato per posta a Fidelia a Moròn. Alla ricezione di quel documento, Fidelia avrebbe potuto richiedere il suo passaporto.

Le telefonai quel giorno stesso per comunicarle la notizia.

"Ciao amore...ho una bella notizia da dirti" iniziai allegramente.

"Vieni a Cuba?" rispose.

"No. Ho ricevuto il tuo invito firmato dall'Ambasciata Cubana in Italia. La tua copia ti arriverà a casa tra breve. L'hanno spedita per corriere diplomatico all'Avana e da li, la spediranno a casa tua. Con questo foglio potrai richiedere il passaporto...sei contenta?".

Dall'altro capo del filo potevo seguire rumori di strada e strilli di bambini.

"Si -rispose senza entusiasmo- ma per il passaporto devo pagare 150 dollari ed io non li ho....come faccio?".

"Questo è un problema -mugugnai- non so come farteli avere".

"Ascolta -continuò dando prova di essere già a conoscenza di un sistema sicuro- Una mia amica ha avuto lo stesso problema. Il suo ragazzo è andato alla Banca dell'Agricoltura e ha potuto mandarle i soldi necessari. Fallo anche tu".

"Domani mi informerò su come fare e poi ti telefonerò per dirti come ho risolto".

La conversazione fu interrotta all'improvviso: la linea si era interrotta lasciandomi cretino con la cornetta stretta in mano.

Dovevo spedirle quei soldi per continuare ad alimentare il suo sogno.

L'indomani trovai un intervallo di tempo libero. Nel centro città, il solito caos fatto di traffico, riempiva l'aria di benzene.

Varcai la soglia della Banca di Piazza Fontana e mi diressi allo sportello assegnato alle operazioni estere. Quando uscii, avevo in tasca la ricevuta del bonifico effettuato per 500 dollari e cioè per la somma che ritenevo necessaria per il pagamento delle spese di passaporto e di visto di Fidelia.

Quello stesso pomeriggio le telefonai di nuovo per avvisarla dell'arrivo di quel bonifico ma non riuscii a trovarla. La vicina di casa mi disse che era partita insieme alla madre per andare in campagna, da un loro parente, per rimediare qualcosa da mangiare e che non sarebbero tornate prima di un paio di giorni. Riagganciai deluso e rimasi ad immaginare cosa stesse facendo in quel preciso momento, senza però riuscire nell'intento, interrotto dallo squillo del telefono.

"Ehi, camajan!" era l'allegra voce di Pierluigi.

"Ciao! Non sai che piacere mi fa risentire una voce amica -dissi entusiasta-. Ti va la solita pizza?" "Certamente -rispose- così mi dirai della tua esperienza habanera...Ho ascoltato i tuoi messaggi in segreteria ma ero a Santiago".

"Santiago? E quando sei tornato?" domandai.

"Ieri e sono ancora un pò fuso, ma una pizza l'accetto volentieri dopo tanto pescado e congrì" rispose.

Avevano appena servito le pizze nel localino dei Navigli, e dopo averla ammirata, Pierluigi iniziò a degustare con sano appetito la sua Quattrostagioni.

"Pizze così a Cuba, però, se le sognano proprio..." disse soddisfatto del sapore.

"Così rinunceresti all'Isla per una pizza?" scherzai.

"Non ho detto questo...ma una buona pizza fa sempre piacere. Ma raccontami, piuttosto, le tue impressioni sull'Avana" fece serio.

"Come immaginerai -risposi- hai avuto ragione un'altra volta. Non è possibile descrivere le sensazioni che si provano vivendo quella città. Sono entusiasta di tutto, dagli habaneri all'architettura cittadina...".

"E con la tua novia, com'è andata?".

"Sono innamorato perso. E' stato meraviglioso lo stare con lei, il conoscerla, l'apprezzarla. Ho saputo molte cose e molte altre le ho vissute...Ma la gente -proseguii- spontanea, armoniosa, genuina. E poi, gli scorci, i panorami, le vedute, i sapori della città vecchia. Mi ha intrigato tutto quello che ho provato anche se ho molti rammarichi per non aver fatto molte cose e visto molte altre che avrei voluto".

"Tornerai tra breve" disse lapidario finendo di mangiare un grosso boccone di pizza.

"Si...e come? A parte il lavoro e le ferie che ho già esaurito. Ma poi ho un grande problema. Anche per questo avevo bisogno di vederti, per chiederti un consiglio".

Pierluigi fece cenno al cameriere indicando i nostri boccali vuoti di birra sollecitandone altri due pieni, poi ricolse nuovamente la sua attenzione su di me.

"Dimmi pure, non farti scrupoli di sorta".

"Il problema è che ho promesso a Fidelia di invitarla in Italia a stare a casa mia per un mese".

"E qual'è il problema? Mi sembra bello".

"Sono stato a Cuba due volte nel giro di pochi mesi e, soprattutto la seconda volta, tra spese, viaggio, regali...insomma ho quasi finito i miei risparmi e, per invitarla in Italia, ho bisogno non solo dei soldi del biglietto ma anche di quelli che sarebbero necessari per farla felice".

"Vuoi un prestito?" chiese sospettoso.

"No. Non cercavo soldi. Ho fatto dei calcoli e potrei permettermi quanto occorre ma solo il prossimo anno, non prima. La mia paura è quella che lei mi creda uno dei soliti bugiardi che le hanno promesso cose che non hanno, in seguito, mantenute. Allora...per dimostrarle la mia buona intenzione le ho già fatto l'invito e le ho spedito i soldi necessari per le spese del suo passaporto e del visto di espatrio...ma adesso come mi comporto? Non so come continuare. Non posso confessarle di non avere le possibilità per farla venire in Italia ma non so come temporeggiare altrimenti. Ho pensato che tu, forse, potevi suggerirmi qualche scappatoia per uscire dal vicolo cieco nel quale mi sono cacciato".

Pierluigi guardava perplesso la punta della forchetta sporca di mozzarella appiccicaticcia, come se stesse osservando chissà quale magia della natura.

"Claudio -disse emergendo dalla sua ipnosi- non hai che due possibilità: la prima è quella di dirle tutto e la seconda quella di trovare i soldi per farla venire a Milano. Nel primo caso potrebbe prenderti per un millantatore e cessare d'amarti, come potrebbe capirti, aspettando pazientemente che tu le realizzi il suo sogno anche se, in questo caso, temo che la sua fiducia nei tuoi confronti svanirebbe inesorabilmente".

Accesi una sigaretta cercando un conforto con non trovavo.

"Lo immaginavo..." dissi laconico.

"Senti...forse tu non sai che noi abbiamo stabilito un patto non scritto -disse serio- per il quale, chi si trova come noi, si deve aiutare reciprocamente. Se mi fossi trovato io nella tua condizione e se tu avessi potuto aiutarmi lo avresti fatto?" domandò.

Annui silenzioso non sapendo a cosa mirava il suo discorso.

"Allora, che problema c'è? Per mia fortuna ho possibilità economiche migliori delle tue e sono in grado di darti i soldi necessari...ovviamente si tratta di un prestito d'onore. Diciamo che, invece di accantonare mensilmente i tuoi risparmi, sconterai con me pian piano il tuo debito. Non vedo altre soluzioni".

Non riuscivo a crederci. Pierluigi mi offriva la soluzione su un piatto d'argento. Non ero andato all'appuntamento con l'intenzione di spillargli dei soldi ma con la certezza di trovare un sollievo alla mia preoccupazione. Eppure, senza conoscermi da molto tempo, il mio amico aveva dimostrato una decisa fiducia e generosità, evidenziandosi da un mondo che non lascia spazio ai rapporti umani, lasciandomi stupito e senza parole.

Senza altro aggiungere, estrasse dalla tasca il portafogli e tirò via il carnet degli assegni compilandone uno che mi allungò sorridendo.

"Penso che questa possa bastare" disse.

Era molto di più di quello che mi occorreva.

"Ma è troppo!" esclami convinto.

"Vedrai che ti sarà appena sufficiente. Non conosci bene le cubane, tu" rispose.

Ero stordito e non sapevo come continuare la serata, tanto era grande il mio imbarazzo.

"Perché?" chiesi.

Con calma accese il pestilenziale sigaro aspirandone l'inizio con celeri piccole boccate.

"Vedi, Claudio. Io non ho amici. In fondo sono triste qua in Italia. La mia ex moglie afferma che sono una nullità ma questa nullità quanto le interessa quando riscuote l'assegno del mantenimento a fine mese....i miei figli sono già adulti e camminano per la propria strada. Non hanno nostalgia di me, forse perché, da bambini, non mi hanno conosciuto. Il lavoro mi ha sempre strappato alla famiglia ed io, per compensare quella latitanza coatta, stupidamente li riempivo di giocattoli e doni cercando di ovviare alle mie mancanze. Sono cresciuti viziati e senza conoscere bene il gioco delle responsabilità perché, tanto, tutto era loro dovuto facilmente. Non c'è mai stato un forte legame famigliare tra noi e, ben presto, al sentimento si è sostituito l'interesse".

Ascoltavo in silenzio il suo sfogo attento a non perdere una sola parola.

"Poi, c'è stato il mio primo viaggio a Cuba -continuò-. Conoscevo già i Caraibi. Ero stato nei peggiori trojai di Santo Domingo e Jamaica, tanto per divertirmi un pò e così, decisi di cambiare isola. Ma, una volta giunto a Cuba, trovai una serenità che non mi era più nota in Italia. Assaporavo tutto, con una incredibile intensità. E tutto aveva uno spessore sconosciuto che mi lasciò istantaneamente stregato. Il passo al divorzio fu breve ed indolore, ormai avevo asciugato tutte le lacrime piante. Ho vissuto intense emozioni, le stesse che tu stai provando adesso, ed ho imparato a conoscere quella gente e la loro realtà. Poi, ho incontrato la mia prima novia che mi iniziò a far conoscere i jineteri...dopo cinque anni, mi lega all'Italia solo il mio lavoro, attraverso il quale, riesco a guadagnare quello che mi occorre per vivere e divertirmi. Non ho amici e tu sei il solo che frequento perché, in fondo, un poco mi assomigli".

E così, quella era la storia di Pierluigi, quello che avevo catalogato come playboy sul viale del tramonto...

Riprese a parlare dopo aver bevuto un pò di birra scura. "Allora. Quando mi farai conoscere la tua bella mulatta?" chiese passando ad un tono scherzoso.

"Adesso dovrò richiederle il visto d'entrata in Questura e poi...comunque, penso entro un paio di mesi. Ma dimmi, invece, le tue impressioni su Santiago".

"Devi assolutamente andarci. Dopo L'Avana è un posto magico. Pensa che fu la prima città costruita in epoca coloniale ma, a parte l'architettura che ricorda in alcuni punti L'Avana Vieja, devi scoprire la gente. In Oriente in cubani sono più schietti ed allegri. Ma, soprattutto, devi entrare nel mondo misterioso della Santeria".

"Ne ho sentito parlare -affermai- Ma tu ci credi veramente?".

"Ho visto riti magici in tutto il mondo -rispose- Da quelli fatti dai bramini indiani fino ai maestri di voodù giamaicano. Se riesci ad essere introdotto senza passare per quell'enorme mercato religioso dedicato ai turisti, puoi assistere a fatti inenarrabili che ti origineranno parecchi dubbi. Per tornare alla tua domanda, ti rispondo di si: credo ai Santeri cubani".

Riflettei seriamente anche se non mi ero mai posto il problema. Ero uno dei tanti cattolici non praticanti che non credono a nessun dogma e non osservano alcun comandamento ma che sono sempre pronti a pregare Dio, in caso di propria necessità. Il mondo magico, poi, era lontanissimo dai miei pensieri e non avevo mai avuto, in passato, alcuna curiosità da soddisfare.

"Ho chiesto a Fidelia di farmi una santeria positiva al fine di avere fortuna" dissi allegramente. Pierluigi mi guardò perplesso.

"Non devi scherzarci sopra. Potrebbe essere pericoloso" rimandò lui.

La serata poi terminò in un localino alternativo dalle parti di Brera, dove brindammo al nostro sviscerato amore per tutto ciò che significava 'Cuba' per noi, tra racconti di vita vissuta e ricordi di emozioni passate.

Il poliziotto stava verificando nuovamente il tutto dopo aver già abbondantemente vivisezionato il dossier contenete la richiesta per la concessione del visto di entrata in Italia a favore di Fidelia. Aveva messo ordinatamente a posto i documenti obbligatori previsti da una severa procedura atta, secondo i migliori propositi, a selezionare l'arrivo di stranieri in Italia. Ma, la pignoleria quasi ottusa, con la quale l'agente procedeva nella sua ispezione, mi stava dando i nervi. Alla fine, riscontrando il fatto di non poter muovere alcun appunto, rimise il tutto nel dossier e mi congedò, dandomi appuntamento dopo un paio di settimane per il ritiro del sospirato visto.

Erano trascorsi tre giorni dall'ultima volta che avevo telefonato a Cuba ed ora, alla luce degli ultimi fatti, potevo dare la lieta notizia a Fidelia.

Il mondo mi sorrideva ora che, egoisticamente, potevo realizzare il mio sogno. Tanto lontana appariva la gente del Barrio, con le proprie preoccupazioni così come tanto appariva vicina, la possibilità di rivivere dei dolci momenti con la mia amata.

Mentre percorrevo le strade della città, iniziai ad immaginare come potevano apparire agli occhi di uno straniero desideroso di impregnarsi di tanto consumismo, le sfavillanti luci delle insegne, le colorate scenografie delle vetrine, il caravanserraglio di negozi del centro. Chissà come sarebbe apparso tutto questo a Fidelia che immaginavo percorrere lentamente via Montenapoleone, pronta a meravigliarsi delle lussuose vetrine, oppure seduta in un Caffè della Galleria intenta ad assaggiare un dolce, con davanti un cappuccino bollente. Pregustavo la luce dei suoi occhi, la smorfia sorridente del suo volto, la gioia del suo spirito. Avrebbe sicuramente apprezzato la caotica Milano con tutti i suoi difetti e manchevolezze, solamente paragonandola alla sua minuscola Moròn, così vuota e priva d'attrattive.

Una volta giunto a casa, mi avvicinai al telefono ancora pieno di gioia, impaziente di telefonarle. Una voce di uomo rispose dall'altro capo del filo "Fidelia no esta aquì" e riagganciò brutalmente. Restai senza parole, pensando di aver sbagliato numero che ricomposi pazientemente e con più attenzione.

Questa volta una voce di donna aprì le mie speranze.

"Buenos dìas. Quiero hablar con Fidelia Zunigo" dissi nel mio precario spagnolo.

"Eres tu Clausio?" rispose sbagliando il mio nome.

"Si. Claudio" rimarcai.

"Momentito por favor...." ascoltavo in sottofondo una ridda di voci che parlavano frenetiche in dialetto che non avrei mai compreso. Un altro interlocutore venne al telefono, questa volta parlandomi in italiano.

"Hola...-disse con voce monocorde- Fidelia non sta aquì. E' stata presa dalla polizia. Sta in prigione".

"In prigione? Cosa è successo?" chiesi allarmato.

"L'hanno fermata tre giorni fa vicino a Santa Clara e non sappiamo altro. Forse la liberano oggi o tra una settimana...Quien sabe?" rispose.

"Ma il motivo? Potete vederla?" chiesi sempre più preoccupato.

"Non sappiamo nulla e nessuno può vederla. E' la polizia che decide..."rispose laconico ed impotente.

"Quando esce dalla prigione, dille di telefonare a Claudio di Milano. Capito?" urlai sfogandomi con quel poveraccio che aveva avuto l'incarico di tradurmi i fatti.

"Si, claro, señor. Hasta luego".

Cosa era successo? Era stata fermata per un semplice controllo o perché jinetera? C'entrava la droga, la prostituzione o cos'altro? Mi rigiravo nel letto, non riuscendo a prendere sonno tanti erano gli interrogativi che formulavo in continuazione, senza poter elaborare delle risposte concrete.

Che strana la vita...quel giorno così serenamente trascorso all'insegna di una bella cosa pronta a realizzarsi, finito in modo angosciante e senza gloria. Ero seriamente preoccupato per il prossimo futuro, senza sapere cosa fare per risolvere quel problema. Non avevo indicazioni e, l'unica cosa certa, era quella di restare quotidianamente in contatto con Cuba per seguire gli sviluppi della situazione. Mi addormentai tormentato dall'angoscia che, ormai, si era impadronita di me.

Ma ne il giorno successivo ne l'altro ancora avevano portato buone notizie: Fidelia era come scomparsa. Nessuno sapeva dove realmente fosse e consideravano quel fatto, come un normale episodio della vita di ogni cubano. Pierluigi non era raggiungibile attraverso il suo cellulare se non attraverso il filtro della sua segreteria telefonica.

Mi era più volte venuta l'idea di partire per Cuba, prontamente, però scartata dal buon senso. Non avrei saputo dove cercarla e cosa fare una volta giunto sull'isola.

Convivevo con la mia impazienza continuando a svolgere, come un automa, la mia solita vita fatta di lavoro, traffico e noia.

L'idea di sapere Fidelia chissà dove mi rendeva insofferente e nervoso e, anche se era già trascorsa una settimana, non me ne ero affatto abituato. Come in passato, venne in mio aiuto Pierluigi che, dopo aver ascoltato i miei numerosi messaggi, venne a cercarmi a casa.

"Credo di aver capito" disse serio, dopo aver ascoltato la storia.

Pendevo dalle sue labbra. Forse, suo tramite, avrei compreso qualcosa a me poco noto.

"Fidelia è una jinetera e come tante, è schedata dalla polizia. A Cuba, è prassi per le forze dell'ordine, fare controlli e portare in prigione le persone sospette o non in regola. In molti casi cercano di farle collaborare in qualità di informatori...sai il fare nomi di persone legate a traffici, prostituzione eccetera, promettendo loro l'impunità futura per il proseguimento della loro attività di jineteri. La tua novia potrebbe essere incappata in un semplice controllo ed in una successiva forzatura per costringerla a cooperare ma, se non ha commesso nulla, debbono rimetterla in libertà entro una dozzina di giorni...". Si accese l'immancabile sigaro e continuò.

"La seconda ipotesi è quella che sia stata colta in flagrante mentre compiva un reato e, quindi, sia stata arrestata e si trovi attualmente in attesa di giudizio. In questo caso, però, i suoi famigliari dovrebbero saperlo".

"Loro dicono di non sapere nulla...neppure dove si trovi adesso. L'unica cosa che sanno è che il fatto si è svolto a Santa Clara" dissi mogio.

"Se non sanno realmente nulla -aggiunse- significa che devi considerare altamente probabile la prima ipotesi che ti ho spiegato".

"Tu che conosci bene il loro dialetto, potresti telefonargli? Loro, con te, si spiegherebbero meglio".

Dopo cinque minuti, Pierluigi stringeva la cornetta nella mano e parlava spedito un misto di cubano e spagnolo, con l'invisibile interlocutore dell'altro capo del filo. Osservavo i movimenti delle sue labbra, il lieve socchiudersi dei suoi occhi, le pieghe che si formavano agli angoli della bocca man mano che discorreva, cercando così di percepire il suo stato d'animo e decifrare, in quel modo, il senso della conversazione in atto.

Dopo aver riagganciato, gettò all'indietro la testa tenendosi il collo tra le mani stringendolo nel contempo. Aveva chiuso gli occhi come cercando le parole giuste per comunicarmi una dolorosa notizia.

"Allora?" feci impaziente.

"Alejandro, così si chiama il tizio che mi ha risposto, ha chiarito quello che è accaduto a Fidelia. E' stata arrestata una decina di giorni fa vicino a Santa Clara perché si trovava in compagnia di uno straniero che ha subito un furto. La polizia l'ha fermata per accertamenti e, controllando il suo passato, ha trovato dei precedenti. Al momento è in prigione in attesa che venga chiarita la sua posizione ma la dovrebbero rilasciare quanto prima perché è risultata estranea al fatto...hanno trovato gli autori del furto".

"Allora tutto risolto?" chiesi più sollevato.

"Per questa cosa sembra di si...ma ci potrebbe essere un problema per il rilascio del suo passaporto, se risultano carichi a suo nome" disse preoccupato.

Un'altra bella tegola sopra la mia testa.

"Quando si saprà qualcosa?" chiesi.

"Alejandro dice che domani deve andare a Santa Clara per avere delle informazioni e, forse, potrà anche incontrarla. Sarà il caso di mettersi nuovamente in contatto con lui ma non prima di tre o quattro giorni".

Cercai le sigarette dentro ad un pacchetto ormai deserto e ripiegai sul Montecristo offertomi da Pierluigi.

L'acre sapore del tabacco nero mi riportò alla mente la fabbrica di puros che avevo visitato all'Avana dove, da mani abili, venivano rollati i sigari famosi in tutto il mondo. Restammo in silenzio per un pò, riflettendo sopra a quella storia che ci univa in un sentimento fraterno.

Fu Pierluigi a rompere quel silenzio fatto di solitudine.

"Perché non vai da lei?".

"Scherzi?" risposi però compiaciuto dell'idea.

"Affatto -proseguì- tu attendi che ti consegnino i l visto per Fidelia, che da come mi hai spiegato, sarà pronto tra breve. Poi, parti per L'Avana e lì noleggi un auto e prosegui per Moròn...pensa: conoscerai la sua città, la casa dove vive, il suo mondo. Immagina la sua sorpresa nel vederti spuntare all'improvviso, tanto più che non le dirai nulla prima. Poi, la seguirai nei suoi giri per ottenere il passaporto che, a Cuba, è una questione di un paio di giorni e successivamente rientri con lei in Italia. E' meraviglioso!" esclamò felice dell'idea.

"Sembra così facile..." pensai ad alta voce.

"Perché no? Potresti prendere le ferie di quest'anno, una borsa e via..."continuò imperterrito nella sua convinzione.

"Fammi riflettere -dissi-. L'idea mi affascina, inutile negarlo, ma devo focalizzare molti particolari che...".

Pierluigi lanciò uno sguardo di commiserazione.

"Suvvia. Non inventarti difficoltà che non ci sono se non dentro la tua caoticità" terminò quasi sfinito da quella assurda competizione coi miei rimorsi.

Se ne andò dopo aver terminato il suo sigaro, lasciando nell'aria, oltre all'aroma del tabacco, anche la dolce prospettiva di un nuovo viaggio a Cuba.

Varcai il portone della Questura immergendomi nella bolgia della città stressata dal traffico e dalla confusione. Avevo ritirato il permesso d'entrata e ancora non sapevo che decisione prendere a proposito dell'idea suggeritami da Pierluigi.

Qualche giorno prima avevo risentito, con estremo sollievo, la vocina di una Fidelia spaventata appena rimessa in libertà. Mi aveva spiegato che gli accertamenti ai quali fu sottoposta null'altro erano che dei tentativi coatti per ottenere una sua collaborazione. Poi, non riuscendo nell'intento, l'avevano liberata cercando di minacciarla per conquistare il suo silenzio sull'intera faccenda. Nel frattempo, aveva ricevuto l'avviso del bonifico che le avevo fatto ed era felice di poter disporre di quell'ingente somma per disbrigare tutte le incombenze relative al rilascio del passaporto e del visto d'uscita, ma aveva sollecitato l'invio per corriere, del visto d'entrata e del biglietto aereo che erano fondamentali per raggiungermi a Milano.

A piazza Cinque Giornate presi la decisione che non poteva più aspettare: avrei seguito il consiglio del mio amico, sarei andato a scoprire una Cuba insolita ma, soprattutto, avrei coronato il più bel sogno di Fidelia.



17/03/2007 18:04
 
Quota
La piccola Suzuky, divorava la striscia d'asfalto disuguale che stavo macinando tra L'Avana e Ciego de Avila. Con una moderata velocità costante, sorpassavo camion inventati dalla fantasia e dalla disperazione, spesso costruiti, adattando un vagone ferroviario su di una vecchia motrice di trattore.

Lungo il paesaggio monotono, scorgevo il lontananza, case uguali tra loro, edificate con pochi mattoni uniti a fantasmagorici materiali, avanzati da chissà quale destino. Sterili palmizi si facevano largo tra la folta vegetazione tropicale cercando una loro identità.

Sulla strada, erano appostati ad ogni crocicchio, gruppi di persone in attesa di veder arrivare, arrancando tra una nuvola di fumo nero, la guagua che li avrebbe riportati là, da dove se ne erano venuti. Alle rare autovetture che transitavano, chiedevano un passaggio al fine di evitare, così, la lunga attesa che li avrebbe visti salire su di un pullman stracarico di persone e cose che, se aveva la fortuna di non guastarsi prima, li avrebbe ricondotti a destinazione, per pochi pesos cubani.

Si distinguevano contadini che pedalavano pesanti biciclette, rientrare a casa dopo una lunga giornata di lavoro, passata su campi riarsi da un impietoso sole che cuoceva terra e sudore delle persone.

Il cielo si era rannuvolato d'improvviso, come spesso accade ai tropici, oscurando il globo luminoso e creando delle ampie zone d'ombra sopra il paesaggio circostante, dove gli unici padroni erano gli avvoltoi che svolazzavano in circolo. Ero preoccupato per il cambiamento repentino che non lasciava presagire nulla di buono. L'unica autovettura che avessi trovato al noleggio dell'aeroporto dell'Avana, era sprovvista di capote.

Le prime gocce di pioggia iniziarono a bagnare la mie testa poco dopo, seguite da una vera e propria mitragliata d'acqua. Come tutte le strade dell'isola, era difficile trovare un riparo. Le rarissime stazioni di servizio, erano distanti tra loro diversi chilometri e, tranne rare eccezioni, non esistevano punti di ristoro dove potersi riparare dal maltempo. Continuai ad avanzare dal momento che non v'erano alternative, nella speranza di vedere in lontananza, qualche possibile riparo. I tergicristalli dell'auto, si ruppero poco dopo, aggravando la già precaria visibilità.

Nonostante tutto, ero felice.

Avevo telefonato a Fidelia il giorno prima, assicurandomi senza destare sospetti, che sarebbe rimasta a casa per i prossimi giorni. Poi, ero volato all'Avana portando, oltre ad un voluminoso bagaglio fatto interamente di regali, anche il mio cuore strabocchevole d'amore. Pierluigi aveva aumentato il suo credito, integrando con un altro assegno, il prestito già concessomi per mettermi nella condizione di realizzare l'idea che aveva avuto e, delle quale, si sentiva orgoglioso.

La pioggia non mi spaventava anche se, ormai, ero bagnato fino al collo e mancavano ancora duecento chilometri a Ciego de Avila da dove, poi, avrei dirottato su Moron.

Durante il volo, mi aveva tenuto compagnia, l'immaginazione che mi aveva fatto sognare tutte le cose che avrei vissuto al mia arrivo a casa di Fidelia. Mi sforzavo, soprattutto, di visualizzare la faccia sorpresa dal mio inaspettato arrivo. Desideravo lei con tutte le mie forze e questo pensiero, alimentava tutto l'amore che provavo per Cuba.

La notte era scesa. La potevo riconoscere dal fascio di luce proiettato dagli asfittici fari dell'auto che frugavano, indiscreti, il buio. Aveva smesso di piovere sulle mie ossa inzuppate quando giunsi a Ciego de Avila. Ero stanco ed infreddolito e mancava ancora un ora di viaggio per giungere da Fidelia. Decisi che sarebbe stato più opportuno presentarmi il giorno dopo quando, con il conforto della luce del sole e ben riposato, avrei fatto la mia teatrale apparizione davanti casa sua. Scorsi l'insegna di un piccolo albergo, dove decisi di passare un'anonima notte.

Il gallo di Moron, campeggiava all'entrata della piccola ma linda cittadina. Si trattava di una scultura di metallo che riproduceva un galletto stilizzato preso come simbolo della città. Gli abitanti del luogo ridevano della posizione in cui era stato posta la statua in quanto, dicevano, che il gallo indicava con il suo becco, il capoluogo della provincia, Ciego de Avila, ma con il culo, il paese che avrebbe dovuto rappresentare.

Il sole era già alto nel cielo, facendo risplendere il paesaggio pulito dalla pioggia del giorno prima. Chiesi ad un ragazzo dove si trovasse la Calle quatro, quella tra l'Avenida de Tarafa y Serafina, dov'era la casa di Fidelia.

A Cuba, tutte le strade erano numerate ma, per decifrarne la posizione, bisognava cercarne anche gli incroci che ne identificavano l'esatta ubicazione. Questo, in un piccolo paese dove tutti conoscono tutti, non era di grande difficoltà ma, in una città come L'Avana, tutti problemi legati a questo sistema di segnalazione stradale, emergevano impietosamente. Il ragazzo si offerse di accompagnarmi, sperando di ricevere in cambio un paio di dollari che non mi chiese. All'imbocco della Calle, scese dall'auto, soddisfatto della piccola mancia che gli avevo elargito e mi salutò con gratitudine.

La strada, piuttosto centrale, divideva in due un agglomerato di piccole casette di legni con i tetti di lamiera arrugginita. Si assomigliavano tutte fra loro: due piani di miseria ed insetti divisi tra un minuscolo patio, un ingresso utilizzato anche come cucina, una piccola camera, un bagnetto senza servizi ed una scala che conduceva al piano superiore dov'era sistemata pretenziosamente la camera matrimoniale. Fuori, ogni veranda aveva la sua sedia a dondolo, privilegio di comodità destinata al capofamiglia e agli ospiti di riguardo.

Imboccando la strada alla ricerca del numero civico, notai il fatto che ogni sedia a dondolo era occupata da persone che, dondolandosi, parlavano fra loro oppure erano intenti a fare qualche piccolo lavoretto o a leggere il Granma. Era un giorno come tanti altri a Moron così come in tutti i piccoli paesi dell'entroterra cubano, esenti dai clamori del turismo occidentale.

Quando vidi Fidelia, lei ancora non si era accorta del mio arrivo. Stava rannicchiata sulla sedia, dondolandosi con gli occhi chiusi e la cuffietta del walkman ben piazzata sulla testa. Le treccine erano meno lucide e non indossava che una stinta vestaglietta abbastanza lisa. Non portava tacchi a spillo ma, posate per terra al fianco della sedia, scorsi un paio di scolorite ciabatte da mare. Arrestai la Suzuki davanti al piccolo patio mentre i vicini seguivano la scena con attenzione e curiosità.

Seguì un urlo e Fidelia corse dentro casa sbattendosi rovinosamente sulla porta di ingresso. Rimasi stupito dalla reazione. Avevo sognato che mi sarebbe corsa incontro per buttarmi le braccia al collo e per darmi un lungo bacio ed invece, nulla di tutto ciò: solo un grido e la fuga in casa. Ero smarrito quando la porta si riaprì delicatamente facendone uscire una donna dall'aria dignitosa che sapeva di buono.

"Buenos Dias, Claudio. Yo soy Fanny Maria, la mama de Fidelia. Desculpame, para nosotros esta es una sorpresa muy grande. Tenerte aquì ahora...ès imposible" disse veramente sincera. "Encantado -feci- y Fidelia?".

La donna aprì il portoncino, scivolando dentro la casa facendomi cenno di seguirla.

Fidelia era in un cantone con le mani sul viso e stava piangendo.

"Amore mio" le dissi avvicinandomi impercettibilmente.

Lei corse da me, abbracciandomi come avevo sognato. Le lacrime le scendevano tempestose accompagnate da singulti strozzati.

"Sono felice, amore mio...io non sapevo...perché non mi hai detto che venivi a Cuba?" disse tra i singhiozzi.

"Ti ho fatto una sorpresa -risposi- La prima delle tante...".

Si staccò ricomponendosi le treccine ed asciugandosi le lacrime col bordo della vestaglia che sollevò, mostrandomi senza imbarazzo le sue belle gambe.

"Quali sorprese?" domandò curiosa. Era tornata ad essere la gattina astuta che avevo imparato a conoscere; aveva accantonata la tristezza per recuperare quell'autocontrollo generato da anni di vita jinetera.

Uscii per andare alla jeep a prendere la grossa valigia che avevo preparato per loro. Quando Fidelia ne estrasse il contenuto, un moto di soddisfazione dipinse il suo viso. Mama Fanny osservava divertita ma compiaciuta, tutte le cose che sua figlia stava estraendo come una Mary Poppins cubana e che sarebbero state loro.

Dalle scale scese frignando un bambino nero come la pece.

"Chi è?" domandai.

Fidelia, senza alzare lo sguardo dagli indumenti che stava provandosi mimando una ideale vestizione, rispose senza alcuna emozione.

"E' Miguelito, un mio cuginetto che dorme da noi".

Il niño corse verso il tavolo dov'era posata la grossa valigia, mostrando un acuto interesse verso una piccola automobilina di plastica che era stata accantonata sul bordo.

"Por ti" gli dissi allungandogli il giocattolo.

Immediatamente corse fuori, imitando il rombo del motore e sparì dalla mia vista.

"Mama! Cafè!" grido Fidelia.

La donna andò ad aprire un piccolo armadio che fungeva da credenza, tirando fuori un'antica macchinetta napoletana e s'industriò con una confezione di Cubita per riempirne il serbatoio. Poi, accese l'unico fornello e ci mise sopra la vecchia caffettiera.

Si aprì nuovamente il portoncino fatto di vetuste assi di legno marcio tenute insieme da strani ingranaggi arrugginiti.

"Ola, amigo italiano!" un ridente negrone varcò l'ingresso, catapultandosi verso me.

"Claudio, questo è il mio patrigno, Hector" disse Fidelia dopo aver riposto un vestitino che le avevo comprato a Milano.

"Ma tutti sanno che sono qui?" dissi divertito.

"Moron è un paesino e l'arrivo di uno straniero non è certo passato inosservato..."rispose sorridente.

"Le altre sorprese?" insistette.

"Ho con me il tuo visto di entrata in Italia ed il biglietto aereo. Chiederai subito il passaporto ed il visto di uscita. Nel frattempo, resterò con te a Cuba e, poi, partiremo insieme".

Questa volta rimase ammutolita dalla sorpresa mentre Hector mi aveva stretto tra le sue braccia volendomi, così, dimostrare tutto il suo affetto.

Il brontolio del caffè in ebollizione interruppe la scenetta famigliare.

"Mama! Vado in Italia!" gridò piena di gioia.

Fanny ed Hector la guardarono intensamente, soddisfatti della notizia che era entrata improvvisa nella loro casa. Mama, andò a togliere il caffè dal fuoco mentre il patrigno osservava curioso il contenuto della valigia ormai saccheggiata.

"Domani andremo a Ciego per richiedere il mio passaporto" fece contenta.

"Señor, quieres cafe?" disse Hector porgendomi una tazzina sbeccata.

La casa era esattamente come me l'aveva descritta decine di volte Fidelia ma fui sorpreso dal calore provocato dalla famigliarità che mi pervase fin dal primo istante che vi entrai.

"Claudio, mentre bevi il tuo caffè io vado a prepararmi, così poi usciamo. Ti voglio far vedere il paese ma ti voglio presentare ai miei amici".

Si rintanò nella minuscola camera che dava sull'ingresso dove eravamo, scomparendo alla mia vista.

Miguelito rientrò rumorosamente sempre giocando con la macchinina colorata, poi s'avvicinò. "Gracias señor" e uscì nuovamente suscitando una generosa risata da parte di Mama Fanny. "Ah, los niños..." sospirò fissandomi negli occhi.

"Como estas Claudio?" chiese il marito.

Sorrisi mentre stentatamente cercavo di fargli comprendere la mia felicità di trovarmi con loro in quel momento. Il caldo si era fatto soffocante e il piccolo ventilatore da tavolo riusciva solamente a sputare aria ancor più umida di quella che entrava dalla finestra che dava sulla calle. Odore di cucina, caffè, sudore e povertà aggredivano le mie narici piacevolmente assetate di quegli aromi che ubriacavano la mia mente.

Le mosche facevano larghi giri nell'aria, alla ricerca di qualcosa su cui tuffarsi e rapirono per un attimo la mia attenzione. Fidelia uscì vestita di tutto punto, pronta ad esibirsi davanti all'intero paese.

"Vamos Claudio".

Dopo aver passato la mattinata accompagnandola attraverso i suoi capricciosi giri, conoscevo a memoria tutta la cittadina. Eravamo andati a trovare tutte le sue zie e i suoi amici più cari. Tutti mi conoscevano tramite i racconti che Fidelia aveva propinato loro, ingigantendomi fino all'inverosimile. E da tutti ricevevo sorrisi, strette di mano, abbracci e baci.

Fidelia si era messa in ghingheri, utilizzando subito gli abiti che le avevo portato dall'Italia. Ma aveva portato con se parte dei miei regali che aveva a sua volta donato alle persone che eravamo andati a trovare.

"vedi, Claudio -spiegò mentre rientravamo a casa- le mie zie e i miei cugini sono molto buoni con me. Se non abbiamo da mangiare, loro ci danno della roba e così possiamo cucinarla. E così, se io ho qualcosa in più, gliela regalo con piacere perché loro sono poveri".

Pensai che neanche lei era ricca ma, a differenza di loro, coltivava il sogno di venire a vivere in Italia con me. Questo pensiero la rendeva più solida rispetto a chi, come i suoi parenti, aveva appeso i propri desideri ad asciugare al filo della disperazione.

"Sai cosa facciamo adesso? Prendiamo tua madre, il tuo patrigno e chi altro vuoi ed andiamo a mangiare in un ristorante" dissi sorvolando sulle mie considerazioni.

Ritornammo a Calle Quatro. Davanti alla casa, si era radunato un piccolo gruppetto di persone che stavano parlando con Fanny. Al nostro arrivo si scansarono con fare reverenziale, aprendoci un corridoio dove farci passare per raggiungere il portoncino di casa.

"Che sorpresa, my amor. Tu es loco, gringo maldito!" fece scherzando e alludendo alla mia venuta a Cuba.

Hector era uscito per tornare al lavoro e Fanny si affacciò in casa parlando velocemente con Fidelia.

"Mama dice che va ad accompagnare Miguelito da una zia...ma è una scusa per lasciarci soli. Ho tanta voglia di te amore...seguimi". Salì le scale che conducevano alla camera matrimoniale arredata con pochi mobili malandati. Alcune vecchie fotografie erano appese alle pareti con lo scopo di rendere meno triste il colore della stanza, senza riuscire nell'intento. Fidelia chiuse silenziosamente la porta. Il caldo era opprimente ed il sudore le fasciava il vestito facendolo aderire al suo corpo in maniera quasi indecente.

S'avvicinò fino a prendermi l'anima. Una esplosione di colori avvolse quel nostro amplesso cospargendolo di tutta quella poesia di cui eravamo capaci. I lunghi giorni passati a sognare chi si amava, apparivano ora, distanti. Non esistevano più ansie, paure, preoccupazioni, bisogni. C'eravamo solo noi, vivi e palpitanti, che emergevamo da un torpore quasi letargico per riprenderci il gusto dell'essere innamorati. Le lenzuola bagnate di umori e sudore, mute testimoni del sentimento che ci univa, erano scivolate sul pavimento di pietra grigia, rendendo ancor di più l'idea dell'impeto col quale ci eravamo uniti e dal quale ci eravamo saziati.

"Ho guardato la mia estrella tutte le sere" confessò piano.

Accesi la solita sigaretta e mi volsi verso di lei.

"Anch'io ma a Milano, vedere il cielo stellato non è sempre possibile".

Mi accarezzò delicatamente il petto, giocando con la peluria che lo infoltiva.

"Ti ho sempre pensato -continuò- e vorrei avere un figlio da te, in modo che la nostra unione duri per sempre".

Non avevo mai pensato ad una eventuale paternità ma, l'idea di mettere al mondo un piccolo niño mulatto che riunisse in se tutta la dolcezza e la carica di umanità caraibica col quale giocare ad essere finalmente adulto e responsabile, non mi dispiacque affatto. Avrebbe indubbiamente cementato l'unione con Fidelia ma, dopo l'egoismo del momento, sarei stato capace di assicurare tutto l'affetto e l'amore di cui aveva bisogno? Riflettendoci su, non m'accorsi del cambiamento d'umore di Fidelia.

"Non devi sentirti obbligato -disse- ti ho solo raccontato uno dei miei sogni".

Chissà quanti altri ne custodiva nel cassetto del suo cuore, pensai.

"Stavo pensandoci su...-risposi- immaginando quanto potrebbe essere bello. Mi piacerebbe mettere su la mia famiglia con te".

Un lampo di dolcezza sfiorò il suo viso subito scomparendo.

"Ma tu vivi in Italia ed io qui...Come crescerebbe il nostro bambino senza suo padre, in un paese dove non c'è nulla per lui?" mi domandò, cercando il conforto della mia risposta.

"Potresti venire a vivere in Italia con me. Poi...una volta all'anno si potrebbe tornare a Cuba con il bambino per fargli conoscere la sua Patria e le sue radici" dissi convinto.

"My amor, sarebbe bellissimo. E' questo che spero dalla vita, ma so che non si realizzerà".

Perché? -feci caparbio- Se questo è il nostro comune desiderio, lo possiamo realizzare con le nostre sole forze".

"I sogni non si avverano mai -aggiunse laconicamente- ed io non voglio soffrire di più di quello che già soffro a causa della tua lontananza". La strinsi forte a me. Non volevo deluderla specie ora che mi aveva confessato il suo segreto più grande che iniziavo a condividere.

La Consulteria Juridica di Ciego de Avila ci vide uscire raggianti.

Fidelia stringeva tra le mani, il suo passaporto, col quale aveva raggiunto una condizione quasi privilegiata rispetto alla maggioranza di cubani che ne era sprovvista. Il documento, bruttino da vedere, rappresentava il primo passo verso il volo che l'avrebbe condotta al di là del regime di Castro, dentro al mondo ipocrita fatto di luci ed edonismo occidentale che non avrebbe mai capito.

"Amore mio, grazie!" ripetè fino ad arrivare alla nostra auto.

Aveva, successivamente, inoltrato la richiesta per ottenere il visto d'uscita ma avrebbe dovuto attendere una settimana, per averlo. Potevamo restare tranquilli per tutto quel tempo, in attesa della nostra partenza per l'Europa. Era al settimo cielo ora che tutte le pratiche erano state espletate e che si trattava solo di contare i giorni.

"Ritorniamo all'Avana" domandò.

"Mi piacerebbe conoscere Santiago de Cuba, Trinidad e Santa Clara..."risposi.

"Santa Clara no, por favor..."disse intristendosi dei suoi recenti ricordi.

"Va bene. Torneremo all'Avana da zia Juliet, se vuoi. Per me, l'importante è stare insieme a te".

"Allora,portami al Correo da dove posso telefonare a mia zia" comandò.

Mezz'ora più tardi, filavamo sulla strada che avevo percorso qualche giorno prima, sotto il temporale. L'Avana ci stava nuovamente aspettando.

Il Vedado era così come l'avevo lasciato. La sua aria demodé piena di atmosfere riempiva le strade specialmente verso quel tratto chiamato "La Rampa", centro della cultura e della città moderna. Le vie erano, come al solito, animate dalla stessa gente che si poteva trovare in una qualsiasi città e paesino dell'isola. Biciclette arrugginite dal tempo e scassati motorini, sorpassavano le difficoltà prodotte dalle salite che si aprivano improvvise nel quartiere collinoso. La Calle 38 si trovava poco dopo la minuscola piazzetta dove avevo passato una delle notti più dolci della mia vita. Arrivai davanti alla casa di Juliet e suonai due volte con il clacson per avvisare del nostro arrivo. Si aprì il portoncino e Juliet uscì col suo solito scanzonato sorriso e, come la prima volta che la vidi, ne ammirai il superbo corpo fatto solo per amare.

"Claudio -gridò correndomi incontro- My amigo".

S'arrampicò su di me come volendomi possedere davanti a tutti, ignorando completamente Fidelia. Cercai di liberarmi da quel moto di eccessivo affetto, accingendomi a prelevare il bagaglio dal sedile posteriore del fuoristrada.

Fidelia fulminò con lo sguardo la zia, dopo averla freddamente salutata, ed entrò in casa.

"Claudio...quieres un café, una cerveza, ron?" disse amabilmente Juliet.

"Una cerveza para mi y...tienes un jugo de mango por Fidelia?" domandai.

"No" rispose con una velata soddisfazione per quella piccola vittoria presa sopra le voglie della nipote. Salii le scale che conducevano a quella che ormai considerava come la 'nostra' camera. Fidelia stava svuotando il suo bagaglio riponendo, con estrema attenzione e cura, gli abiti dentro il minuscolo armadio senza ante.

"Hai finito mia zia di baciarti?" disse in un tono che non ammetteva repliche. "Ti ho detto che quella vuole singare con te..." continuò.

"Non litighiamo. Lascia che lei abbia il suo sogno..."risposi per consolarla.

"E allora scopatela! Così sarete felici.." replicò seccamente.

"Perché sei gelosa? Non ti fidi di me?" chiesi.

S'imbronciò ancor di più come se la mia domanda avesse provocato l'effetto contrario di quello che mi ero prefissato.

"Te gusta! Lo vedo..." gridò incollerita.

"Non è vero. Io penso solo a te...come puoi credere una cosa simile?" dissi cercando di mantenere un contegno impassibile.

Restò muta anche quando mi avvicinai per cingerla appassionatamente.

La baciai quasi castamente ed aggiunsi "Smettila di vedere cose che non ci sono. Pensa solamente che tra una settimana sarà tutto diverso".

Il ricordo della sua prossima partenza la calmò e si rimpossessò dell'atteggiamento che aveva sempre avuto durante i giorni di Moron.

"Domanda a tua zia cosa ha preparato per cena. Ho fame e tu?" le chiesi.

Annuì con la testa e s'affrettò a scendere le scale per andare a curiosare in cucina. La radiolina a transistor era sempre sistemata in bella mostra sul comodino. Girai la piccola manopola di plastica bianca e subito le note di una moderna salsa riempirono le mie orecchie, cancellando i rumori della strada sottostante.

Era tutto così lindo nonostante il calore soffocante che imperava. Il condizionatore della stanza si era guastato ed era stato sostituito, nell'arduo compito di rinfrescare l'ambiente, da un paio di ventilatori arcaici che a malapena avevano la forza di far girare le pale annerite da una polvere mai pulita. Mi stesi sul minuscolo letto, chiudendo gli occhi cullato dalla musica della radio e dagli odori provenienti dalla cucina.

Stavo ancora dormendo quando una mano sfiorò il mio viso facendomi sobbalzare di scatto. Gli occhi limpidi di Fidelia si specchiarono nei miei, chiedendo ed offrendo amore. Non potevamo resistere a quell'istinto meraviglioso che era dettato dai nostri sentimenti. Avevamo già consumato tre giorni, ciondolando per l'Avana ma non tralasciandone i dintorni tra cui la Marina Hemigway, dalle ricche barche nordamericane stazionanti clandestinamente, in attesa di uscire per dar la caccia a giganteschi marlyn. Ma la figura di Gregorio Fuentes, amico di Hemigway e che gli suggerì il protagonista de "Il vecchio e il mare", non esisteva più. Al suo posto un grande albergo, tiendas, banchine costose per yacht di lusso, ristoranti ed un servizio di sicurezza degno di un paradiso caraibico. Avevo scoperto un altro tassello del mosaico delle stridenti contraddizioni di Cuba. Quell'isola di contrasti, dove tutto era possibile, continuava a stregarmi tra telenovelas propagandistiche trasmesse da Cubavision e file di ordinati scolari, vestiti della propria divisa bianco e vinaccia, in attesa di entrare a scuola. Quotidianamente trascorrevo qualche ora al Parque Lenin, gioia del suo ideatore Fidel Castro, passeggiando all'interno dei suoi 700 ettari di natura, senza però tralasciare la visita agli interessanti Musei cittadini, passando da quello Antropologico al Napoleonico, attraverso la casa di Josè Martì e godendo, nel contempo, della splendida vista dell'architettura coloniale habanera che si magnificava nelle piazze, palazzi e chiese della città.

Dovunque mi recassi, ero sempre accompagnato da Fidelia che, dal suo canto, filtrava con fare critico le mie sensazioni sempre tese ad una entusiastica visione delle cose.

In alcuni momenti apparivo come un fanatico internazionalista addetto alla propaganda dell'isola, tanto era il fervore e l'entusiasmo che accompagnava le mie nuove scoperte. Ma Fidelia mi riportava sempre al contatto con una realtà fatta di stenti e paure, che non aveva proprio nulla del clima idilliaco che io interpretavo.

Con maggior consapevolezza della volta precedente, evitavo di cadere nei luoghi comuni del turismo di massa che prevedeva escursioni all'orchidario di Soroa e serate al Tropicana, per rifugiarmi, invece, nelle piazze adiacenti l'Università dove potevo respirare l'aria della nuova cultura cubana che si evinceva nei discorsi di giovani studenti con i quali mi relazionavo, e che erano felici di aprirsi in confidenze con uno straniero meno turista del solito.

La quotidianità mi portava sempre qualche sorpresa che ero pronto a cogliere con l'entusiasmo derivato dalla felice coniugazione delle mie aspettative felicemente realizzate. Ripensavo spesso ai momenti di cupa nostalgia vissuti in Italia ed essi mi apparivano come spettri lontani, frutto di incubi sciolti sotto il caldo sole del Mar del Caribe.

Trovavo meraviglioso quel clima, come meravigliose erano le persone che avevo incontrato, tutte disposte ad offrire un sorriso alla vita.

"Andiamo a trovare Mama Estrella?" chiesi al debutto di una radiosa mattina.

"Non preferisci vedere Santiago? Ora che ho il passaporto posso prendere anch'io l'aereo e quindi..."disse Fidelia.

Riflettei sulla sua proposta. Ero curioso di conoscere Santiago e la gente dell' Oriente cubano e, tra l'altro, mi venivano in mente tutti i discorsi sulla Santeria fatti con Pierluigi.

Fidelia continuò "A Santiago ho un cugino che potrebbe ospitarci a casa sua senza avere problemi con gli alberghi".

Sembrava che avesse già deciso per me e mi lasciai trasportare dalla sua volontà.

Il Santero teneva stretto un grosso incredibile sigaro, intervallando lunghe boccate di fumo a dei piccoli sorsi di una strana bevanda cui attingeva da una piccola tazza di coccio, successivamente sputando per terra e mormorando frasi apparentemente senza senso.

Era stato Camilo a condurci in quel luogo ma, per riuscirci, sua cugina Fidelia aveva dovuto vincere non poche resistenze che erano state erette a difesa di un mondo per pochi eletti.

La piccola sala, conteneva il Sancta Santorum , cuore del mistero e altare dei feticci simboleggianti le varie divinità. Il rito al quale stavo assistendo, era stato tramandato dagli schiavi Yoruba e prevedeva il raggiungimento di una sensazione estatica che avrebbe condotto l'officiante ad essere in contatto con gli Orishas, gli dei della Santeria e parlare per loro voce. All'inizio, il Santero e due suoi assistenti, avevano cercato il mio "Angel de la Guardia", cioè l'Orisha a cui appartenevo, gettando piccole noci e conchiglie in un grande piatto di legno coperto di polvere sacra di erbe.

Mi fu spiegato che quella era la prima iniziazione e che, per il momento, non si poteva fare di più. Per ottenere il Cofà, il vaso segreto della divinazione simbolo del secondo passo, avrei dovuto rimanere segregato per tre giorni a casa del Santero in totale astinenza e dormendo su di un letto di erbe purificanti. Alla fine ci sarebbe stata una cerimonia dove avrei bevuto una pozione di erbe per Ossain, il dio della vegetazione, in quanto solo Ossain possedeva l'axè, la grande magia. Alla fine della cerimonia, gli assistenti del Santero fecero cenno di uscire dalla stanza. Il rito era concluso con un pò di delusione.

Uno degli aiutanti mi consegnò un piccolo sacchetto di juta che avrei dovuto portare sempre con me, legato al collo da un laccio di cuoi.

Camilo aprì lo sportello sinistro dell'auto, facendoci entrare dalla sua parte. A Cuba possedere una vettura era un lusso anche se funzionava solo uno sportello.

Da tre giorni eravamo ospiti del cugino di Fidelia che aveva profuso, fin dal nostro arrivo, una cordialità fuori dal normale.

Ci aveva accompagnato per le strette vie di quella che era stata la prima capitale dell'Isla, facendoci ammirare le bellezze della città vecchia sviluppata intorno al Parque Cèspedes. Avevo visitato la casa di Diego Velasquez, attuale sede del Museo dedicato all'arte coloniale; passando per la Cattedrale ed il Palazzo dell'Ayuntamiento, senza per questo tralasciare la stupenda Casa de la Trova, il Museo Bacardi ed il Cimitero di Santa Ifigenia, ospitante la tomba di Martì. Tutto era sempre circondato da una contagiosa allegria che si poteva trovare per le calli o fuoriuscita dalla case, memoria forse, del famoso Carnevale cittadino.

La gente era più cordiale di quella dell'Avana. Ai miei occhi tutti apparivano dolci, sensibili e disinteressati anche se, Santiago, non si discostava affatto dalle altre città di Cuba, in preda alla miseria e alla pochezza prodotta dal periodo speciale.

Terra degli schiavi neri, l'Oriente riassumeva a sé la gioia di vivere, la passione per l'amore, il rispetto per la religione, la felicità dell'amicizia, il senso di indipendenza. Santiago ne era la degna incarnazione. Dalle rivolte degli schiavi fino all'assalto al Quartel Moncada, lo spirito di libertà aveva sempre animato la gente dell'Oriente cubano, fertile terreno della Rivoluzione Castrista. Anche se affascinato da tutti quei nuovi stimoli, provavo una sorda nostalgia per l'Avana e convinsi Fidelia di tornarci subito. Dovevamo prepararci alla prossima partenza per l'Europa, dove il sogno si sarebbe avverato.

Camilo ci salutò con le lacrime agli occhi e con 200 dollari in tasca che aveva lungamente rifiutato prima di accettarli. Per lui, l'amicizia era un dolce sentimento e non una opportunità da sfruttare. Per me, era il proseguimento di una scoperta che non finiva mai di emozionarmi.

Ma l'aeroporto Josè Martì ci stava aspettando.

Juliet era sensualmente radiosa. Aveva atteso il nostro ritorno con impazienza essendo rimasta sola. Il suo uomo era partito per Pinar del Rio dov'era andato a trovare i suoi genitori, lasciando la casa del Vedado ed una Juliet in acuta crisi di solitudine.

"Zia ha preparato gamberoni e bistecche di tartaruga" disse Fidelia tornando in camera dopo essere passata dalla cucina.

Quei giorni passati fuori dalla sua gelosia, avevano smorzato i toni polemici che contraddistinsero i primi giorni all'Avana in compagnia della zia. Juliet, dal canto suo, aveva prudentemente evitato di assumere degli atteggiamenti sconvenienti ma, si notava la forzatura alla sue reali intenzioni. Mancavano ancora un paio di giorni alla nostra partenza e decisi di recarmi da solo all'ufficio della compagnia aerea per riconfermare le nostre prenotazioni:

Lasciando Fidelia, avrei goduto di una maggior libertà di movimenti senza essere condizionato dal suo umore.

Respiravo l'aria proveniente dal mare, inalandola a pieni polmoni.

Godevo di quei momenti, in cui rubavo con lo sguardo, vedute di una città che mi aveva ammaliato e dove scoprivo sempre, qualcosa di nuovo ed imprevedibile.

Passeggiando senza meta, arrivai all'Avenida del Puerto ed imboccai Calle Leonor Perez. In fondo alla strada, fui rapito da una musica proveniente da una chiesetta diroccata. La curiosità fu tale che varcai uno dei due portoncini di ingresso che m'introdusse nell'interno di una navata centrale dove, un gruppo di ragazzi, stava provando un brano di musica classica. Fui colpito dal gioco di luci che si sviluppava grazie ai raggi del sole che filtravano da grandi finestre a vetri colorati. Stavano suonando "La Follia" di Corelli e mai, note così particolari, ebbero sede più appropriata per esternare tutta la loro musicalità armoniosa.

Rientrai a casa con un animo intriso di poesia e serenità.

L'aeroporto Martì era animato come al solito, pieno di turisti in partenza dall'isola. A differenza di qualche tempo prima, il mio stato d'animo era diverso, grazie alla compagnia di Fidelia.

Stringeva a se il piccolo zainetto contenente le poche cose che l'avrebbero accompagnata in Italia, con la stessa intensità con la quale un genitore segue all'altare il proprio figlio il giorno del suo matrimonio.

I suoi occhi sprizzavano una gioia incontenibile e contagiosa.

L'eccitazione del viaggio e della realizzazione del suo sogno, aveva iniziato a prendere corpo con 48 ore d'anticipo rispetto alla partenza per l'Europa. Aveva perfino accettato le avances che, negli ultimi giorni, Juliet aveva iniziato a farmi in modo spudorato. Febbrilmente contava le ore e perfino i minuti che la separavano da quel momento così lungamente atteso, non riuscendo a contenere l sua eccitazione.

Davanti al banco di accettazione porse tremante il suo passaporto e il biglietto accompagnato dal prezioso visto d'uscita, ormai in regola con tutto il mondo. Tutto le era nuovo: la dogana, i negozi del piccolo duty free che vendevano souvenir e folklore, la scaletta dell'aereo, l'aviogetto così grande e pulito sul quale prese posto.

Ormai era a bordo, e sarebbe scesa in un altro mondo senza doversi più preoccupare del congrì e delle noiose telenovelas in bianco e nero.

Fidelia stava nascendo in quel momento.







17/03/2007 18:05
 
Quota
Le ore che ci separavano dal nuovo continente, trascorsero in fretta.
Fidelia era emozionata dalla sua prima esperienza di volo, visibilmente fiera della status che aveva guadagnato di fronte ai suoi connazionali rimasti sull'isola.
Curiosava su quanto avveniva all'interno dell'aeromobile, dalla distribuzione dei pasti agli annunci ogni tanto provenienti dalla cabina di pilotaggio.
La luce azzurrognola e nitida del pomeriggio venne ben presto scavalcata dalla fascia bruna della notte alla quale correvamo incontro.
Volutamente, la lasciai sedere sul posto a fianco del finestrino, dal quale si vedeva il panorama incantato del cielo sopra le nuvole. Spesso sentivo il suo sguardo posarsi su di me, che emanava una profonda gratitudine per quello che avevo fatto per lei.
"Te amo my amor" sussurrò quasi estatica.
Era iniziata la sua avventura, che proseguì all'aeroporto di Madrid, dove eravamo sbarcati in attesa di proseguire per Milano.
Fu piacevolmente sorpresa dalla grandezza della sala di aspetto dello scalo spagnolo, non sapendo più dove indirizzare la sua attenzione, ormai suddivisa tra le dozzine di negozi duty free. E, per ognuno, c'era un commento, una voglia, un desiderio immenso di affrontare quel mondo consumista che aveva fino ad allora solo minimamente sognato sfogliando le riviste italiane nei lunghi pomeriggi di Varadero.
Anche la sua proverbiale fame era passata in secondo piano, tanto era presa nello scoprire quella realtà fatta di desideri mortificati dal socialismo reale al quale era abituata. I suoi occhi brillavano di un vivo e nuovo interesse mentre passava al setaccio le diverse boutique dello scalo madrileno. Non aveva ancora preso il coraggio di chiedermi nulla, tanto era grande la sola gioia di ubriacarsi la vista di tanto inaspettato benessere.
I suoi sguardi, la sua cupidigia, la sua voglia continuarono in una Milano primaverile, mentre un bianco taxi, tagliava in due la città per condurci a casa.
Le vetrine si susseguivano accompagnate da una teoria ininterrotta di sospiri e gridolini di stupore, tutti emessi da quella che era la mia bambina felice seduta di fianco a me.
Dinnanzi al palazzo dov'era la mia casa, Fidelia ammutolì.
"Tu vivi qui?" domandò quasi incredula.
Era un normalissimo palazzo, anonimo come tanti altri, di una città triste e laboriosa.
"Si, al sesto piano" risposi aprendo il portone.
La casa odorava di niente e polvere dopo due settimane di vuoto assoluto, dove solo gli acari avevano continuato ad averne il dominio. Spalancai le finestre.
"E' solo tua?" continuò a domandarmi.
"Si. Ci abito da solo. Lo dovresti sapere...". Iniziai a disfare la valigia mentre Fidelia iniziò a gironzolare per la casa osservando minuziosamente l'arredamento, le suppellettili, gli elettrodomestici come se si trattassero di cose aliene.
"Ma è tutto tuo?".
La presi delicatamente per mano e l'accompagnai in un secondo giro di ispezione.
"Vedi -le dissi pacatamente- quello che vedi è mio. Ma non pensare, per questo, che sia ricco. Solamente, in Italia, tutti gli oggetti che vedi in questa casa, sono di uso comune e si trovano generalmente in tutte le abitazioni".
Guardava con estrema attenzione il videoregistratore, la televisione, il mini complesso hi-fi, che erano alloggiati in un angolo del minuscolo disimpegno che fungeva da salotto per single.
"La camera da letto è molto bella" ammiccò con fare compiacente.
"La inauguriamo?" chiesi scherzoso.
Si sdraiò mimando un micino in cerca di carezze e strinse a se un cuscino.
"Vieni" disse imperiosamente.
La seguii ancora una volta in quella sua bramosia spasmodica che era impregnata della mia voglia d'amore cieco.

"Dobbiamo fare la spesa. Non c'è nulla da mangiare...vieni?" domandai.
S'alzò di scatto, infilandosi negli stretti jeans che le mettevano in risalto le sue forme perfette. Scesi nel garage per prendere l'auto, seguito come un ombra da una Fidelia un pò intimorita.
"E' tua?" disse guardando la mia semplicissima utilitaria.
Sorrisi annuendo con la testa. Poi, feci finta di arrabbiarmi.
"Senti...tutto quello che vedi che prendo, che indosso o che mi circonda è mio! Capito?".
Intuì lo scherzo e domandò "Allora, perché non prendiamo quella macchina più bella?" indicando la lucida fuoriserie che era parcheggiata a fianco.
Ridemmo fino ad arrivare al grande supermercato che stava in fondo alla strada. Il fare la spesa, rappresento per lei, una nuova emozione. Abituata alla tiendas per soli cubani dove si accedeva con la libreta, quel supermercato rappresentava il più grande concentrato di benessere che avesse mai visto fino ad allora. Toccava tutto con curiosità, domandandomi ogni volta, l'utilizzo dell'articolo che aveva catturato la sua attenzione. Col carrello strabocchevole ci avviammo alla cassa, dov'era una discreta coda di persone, in attesa di pagare.
"Sono tutti ricchi?" domandò seria.
Avevamo un pò di tempo prima di giungere alla fine della fila ed iniziai una breve spiegazione su come funzionasse l'economia capitalista. Doveva pur imparare qualcosa se si voleva immergere per qualche tempo nel clima occidentale, così ascoltò attentamente e senza fare domande, rendendomi così incerto se avesse o no compreso la mia farraginosa spiegazione.
Tornammo a casa e, dopo aver sistemato la spesa, preparai da mangiare.
"Cosa mangiamo?".
Avevo scartato l'idea di un risotto per puntare sull'italica pastasciutta.
"Penne all'arrabbiata come primo piatto, poi straccetti di carne con rucola per secondo. Ti va?" chiesi.
"Tutto questo per pranzo? Ma mangi una sola volta al giorno anche tu?" domandò.
"No, questo è per il pasto di mezzogiorno...per la cena ho preso delle pizze surgelate, in cinque minuti sono pronte..." risposi mentre aprivo un barattolo di pomodori.
"Ma così divento cicciona..."esclamò sincera.
"Non preoccuparti. A Cuba avrai tempo per riprendere la linea".
Non continuò la mite protesta.
Restavano ancora ventiquattro ore di tempo prima di rientrare nella routine del mio lavoro ma non ne avevo voglia. Il solo pensiero di avere Fidelia a casa e di lasciarla tutto il giorno sola, mi rendeva insofferente anche se poi, riflettendoci, avevo tutti i motivi per essere felice di quella situazione.
"Devo farti conoscere Pierluigi, quel mio amico che ama Cuba più di me" le dissi alla fine del pranzo.
"Si. Ma non mi va di parlare di Cuba...per un mese voglio dimenticare tutto quello che è la mia vita cubana. Fallo per me" implorò con tono supplichevole.
Come farle capire i brividi che mi erano stati vicini durante i momenti passati all'Avana, Moron, Santiago? Era vero che io non appartenevo a quella gente, alla sua gente...ma avevo apprezzato vivamente la magia di quel mondo a metà tra esotismo e ideologia, cultura e miseria, dignità e disperazione. Ma lei, era una di "loro" che aveva sempre vissuto sulla propria pelle la realtà amara che io vedevo solo da molto lontano e sempre accompagnato dai dollari che costituivano una armatura a loro non permessa.
Non vedevo via d'uscita a quella incompatibilità che prendeva corpo ogni qualvolta si parlava della sua isola.

"Avete tutti questi canali" domandò curiosa mentre saltava da un tasto all'altro del telecomando della televisione.
"Si. E' quanto ci meritiamo!" risposi con una non compresa ironia.
"E' bellissimo! Ci sono anche le telenovelas cubane?" chiese ingenuamente.
"Non credo...solo messicane e brasiliane"risposi laconicamente.
Le immagini in tv si sovrapponevano l'una all'altra seguendo il giocoso impulso delle dita nervose di una Fidelia che non sapeva dove domiciliare la sua attenzione.
Squillò il telefono.
"Hola camajan! Me la fai conoscere quella tua novia sexy" disse Pierluigi in vena d'allegria.
"Ciao...-risposi- Non puoi sapere quanto è bello quello che sto vivendo. Grazie ancora per il tuo aiuto...Vieni a cenare stasera? Ma bada, solo pizze surgelate e coca-cola".
"Il ron lo porto io...almeno si berrà qualcosa di decente" aggiunse.
Quando riagganciai il ricevitore, mi sentivo sollevato da un invisibile peso che mi costipava da qualche tempo. Aleggiava nell'aria una sensazione non definita che mi dava la sensazione di qualcosa di stonato che, ormai, percepivo da qualche tempo ad intermittenza. Avevo analizzato succintamente le varie cose ma non avevo decifrato alcun indizio che mi riconducesse all'origine di quel mio stato d'animo. Anzi, avrebbe dovuto essere il contrario: effettivamente ero felice di stare con Fidelia a Milano ma, qualcosa mi impediva di viverne appieno, la giusta felicità.
La visita di Pierluigi mi serviva, forse, a comprendere cos'era quel sentore d'angoscia che, larvatamente, provavo nel più recondito nascondiglio della mia anima.

Le pizze furono divorate in pochi minuti, accompagnate da innumerevoli bicchieri di rum e coca-cola. Grazie all'alcool, le nostre menti si erano sciolte in modo disinibito e veleggiavamo tra le onde di aneddoti e ricordi spiritosi. Pierluigi aveva rilevato la regia della serata, mettendosi subito a suo agio con Fidelia, trovando con lei un denominatore comune, causato da alcune comuni conoscenze cubane. Ma, avvertivo in lui, un fare lievemente forzato come chi continua ad interpretare un ruolo che si era auto assegnato all'inizio della serata. Mi pareva cogliere, a tratti, dei repentini cambiamenti di stati d'animo che, per associazione di idee, mi riconducevano a quella dissonanza che ogni tanto mi perseguitava.
"Hai capito, Claudio?" fece Pierluigi "Delia è la cugina di Alina, una mia amica di Matanzas. Quant'è piccolo il mondo....poi, a Cuba, tutti sono imparentati con tutti".
"Alina è stata la tua novia?" chiesi curioso.
"No...io, a quel tempo, stavo insieme ad una ragazza dal nome Maria Pilar. Non era una bellezza tropicale, anzi...una biondina tutto pepe che si ossigenava i capelli per renderli più bianchi. Alina la conobbi al Cuevo e passai con lei un paio di sere...ma era così matta che non posso scordarmene".
Fidelia intervenne "Mia cugina, adesso vive ad Holguin e si è sposata un tizio che le ha cambiato vita. Il marito è uno dell'esercito".
"Figurati....-replicò lui- sposata con un militare che legge il Granma e Verde Olivo...lei che bastava un niente per farle prendere fuoco come un cerino. Non ci posso credere!".
Lo interruppi. "Lo sai che Fidelia mi ha portato da un Santero di Santiago?".
"E' stata un cerimonia vera?" chiese ignorandomi e volgendo la domanda a Fidelia.
Lei annuì finendo di bere un altro bicchiere di Cuba Libre.
Pierluigi rimase pensoso come se volesse soppesare le parole che stava per pronunciare ma, invece, cambiò il filo del discorso lasciandomi perplesso.
"Allora a quando le nozze?".
Fidelia rise divertita e disse "Ma Claudio non vuole stare con me...pensa solo al lavoro".
Apparve il solito sigaro che riempì l'aria del suo aroma potente.
"Il lavoro è una cosa seria e indispensabile. Eventualmente, in assenza di Claudio -scherzò Pierluigi- potrei venire io a darti compagnia...ma senza che lui lo sappia".
Fidelia gli strizzò l'occhio aggiungendo "Va bene. Basta che te ne vai da questa casa prima che lui ritorni...".
Scoppiarono a ridere avendo notato il mio lieve cambiamento d'umore. Anche se sapevo che era solo una presa in giro, rimasi quasi ingelosito dal pensiero che lei potesse realmente stringere altre amicizie che avrebbero potuto portarla via da me.
"Ma Claudio....-supplicò Pierluigi- per un amico...".
La serata si concluse a tarda notte, dopo aver finito un'altra bottiglia di Havana Club e un'altra di Bacardi.
Pierluigi uscì allegro per tornare, come ci disse, nella sua vuota casa a sognare Cuba dalle verdi palme reali.

In una settimana, Fidelia aveva saccheggiato le vetrine di quasi tutti i negozi di Milano ed il mio conto in banca. Era stato necessario acquistare due grosse valige per stipare tutte le cose cha avrebbe dovuto riportare con se a Cuba. Dai vestiti di ogni foggia e colore alla biancheria intima, dalle medicine ai prodotti per l'infanzia, passando tra casalinghi e cosmetici. Le borse erano divenute il ricettacolo di ogni suo capriccio che era accompagnato da una prima velata richiesta e, in caso di insuccesso, da una pietosa implorazione.
Uscivamo nel tardo pomeriggio al mio rientro dal lavoro, per scoprire la città dei negozi e delle boutique. Avevo dei rimorsi per non poter rimanere con lei durante il giorno ma mi consolavo, sapendo che dormiva fino a tarda mattina e che riempiva le ore in mia attesa, guardando instancabilmente la televisione. Alla fine della giornata, facevamo l'amore come solo noi potevamo fare, pieno di sentimento, bramosia, piacere.
Mentre passavano i giorni, mi rendevo conto di quanto lei fosse importante e di quanto non ne avrei potuto più fare a meno in seguito, intimidendomi dell'avvicinarsi del suo rientro in patria.
Decisi che dovevo cancellare quell'ansia: Fidelia sarebbe stata mia per sempre e con qualsiasi mezzo. D'altronde non chiedeva altro.

"Ma è incredibile!" gridò.
Eravamo appena scesi dal treno che ci aveva condotti per quel week-end a Venezia e, uscendo dalla stazione di Santa Lucia, c'eravamo specchiati nelle verdastri acque del Canal Grande.
Per chi arriva a Venezia la prima volta, l'impressione più grande ed immediata che si prova, uscendo dalla stazione, è appunto la scenografia che si incontra all'improvviso.
Fidelia era ammutolita, mentre ammirava le bellezze della città dei Dogi che apparivano, l'una dopo l'altra, come per incanto. Il vaporetto ci stava portando verso San Marco e, il Canal Grande che stavamo percorrendo, offriva vedute incomparabili di una città unica al mondo. I palazzi marmorei che si stagliavano nel limpido cielo emergendo dall'acqua salmastra che li rendeva ancor più belli, facevano da contrasto con le povere case veneziane dalle mura inzuppate di alghe miste ad una atavica miseria che non li riguardava più.
Alcune gondole scivolavano silenziosamente, con il loro carico di turisti vuoto a perdere, tra canaletti che dividevo le isole sulle quali posava la città vecchia mentre, nel cielo, giocavano colombi innamorati.
Come sempre, i progetti minuziosamente stabiliti, erano andati scemando per tutta una serie di motivi. Non avrei potuto portare Fidelia a visitare Roma e Firenze, come stabilito da un impreciso ruolino di marcia, ma non potevo farle non vivere almeno una Venezia che doveva sostituire il ricordo della laboriosa Milano.
A questa città toccava il compito di impreziosire i ricordi che Fidelia avrebbe riportato a Cuba.
"Non ho mai creduto che ci potesse essere una città così bella..."esclamò sincera.
Aveva con se una piccola macchinetta fotografica che usava con fare civettuolo sin dal suo arrivo alla stazione.
A Piazza San Marco si estasiò nuovamente alla vista del Palazzo Ducale e della Basilica. Era raggiante quando arrivammo al piccolo albergo che avevo prenotato. Tutto era perfetto, come un classico viaggio di nozze.
"Is this our honeymoon?" disse con un forte accento spagnolo.
"No. La nostra luna di miele la faremo veramente quando ci sposeremo e dovunque tu vorrai" risposi.
Il tempo correva inesorabile anche nella città dell'amore. Avevo interpretato il ruolo di una brava guida turistica, conducendola per la Venezia storica e patinata del turismo di massa, ma anche tra le calli meno conosciute, alla scoperta di una città che stava morendo. Sempre con la solita dedizione, Fidelia aveva cessato di interpretare il ruolo della turista a caccia di negozi per indossare i panni di una semplice ragazza che si affacciava per la prima volta e con umiltà, a conoscere qualcosa più grande di lei.
In quei tre giorni mi chiese molte cose sulla storia e sulle origini dell'Italia che lei conosceva molto vagamente. Mi confessò di aver interrotto gli studi alla fine delle scuole dell'obbligo non avendo voglia di frequentare l'Università. Il periodo speciale, fulcro della più dura crisi economica vissuta a Cuba, aveva evidenziato la voglia popolare dell'arte di arrangiarsi e, grazie al turismo straniero, istigava giovani cubani a divenire jineteri, smettendo di essere studenti per attivarsi al servizio del turista, dal quale ricavavano sempre dollari e benefici sconosciuti al resto della popolazione.

Ci sedemmo davanti al ponte dell'Accademia. Il sole stava tramontando ed arrossavo con i suoi ultimi raggi, una città uscita dall'estro di Pratt.
"Sei felice, amore?" le chiesi prendendole la mano.
"Non sai quanto ho atteso questo momento. Non conoscevo Venezia, ma sognavo di trovarmi seduta vicino a te in una piazza di Milano. Immaginavo che tu mi prendessi le mani e mi baciassi. Questo mio desiderio mi ha accompagnato per tanti lunghi giorni a Moron. Quando non avevo da mangiare ed avevo molta fame pensavo: vedrai, Claudio ti porterà in Italia. Quando le mie amiche mi prendevano in giro dicendo che ero scema, mi ripetevo: guarda la stella, è solo tua. Si...sono incredibilmente felice e non vorrei lasciarti mai".
Il suo bacio era sincero e solo io capivo quanto mi amasse. Per la gente che passava, eravamo solo una coppia di innamorati nella città dell'amore.
Ci recammo alla Taverna Montin. Non era più il locale naif che avevo conosciuto negli anni '70. La popolarità ottenuta per aver ospitato alcune scene di 'Anonimo Veneziano' lo avevano reso insensibile al suo vecchio stile fatto di semplicità e colore per trasformarlo in una icona turistica-cult.
Ci appropriammo di un piccolo tavolo già apparecchiato in attesa di un cameriere annoiato. In lontananza s'udiva la melodia di una canzone napoletana cantata in modo tenorile ed accompagnata dal suono di una fisarmonica. Turisti e flash, accomodati in due gondole, scoprivano una Venezia by night.
Tra le spire di fumo dell'ennesima mia sigaretta, vedevo il volto caffellatte di Fidelia che mi osservava silenziosa. Era la nostra ultima sera a Venezia e tra qualche giorno sarebbe definitivamente partita.
"Ti amo".
"Te quiero mucho".

Era bellissima come sempre, semplicemente vestita in jeans e con i suoi lunghi capelli corvini intrecciati.
Alcuni gatti miagolavano alla luna nascente che si faceva largo tra le nuvole argentate mentre lo sciabordio delle onde prodotte dal passaggio di un ultimo vaporetto, accompagnava i nostri passi nella Venezia addormentata.
Ci mettemmo seduti sulla base di un antico pozzo situato al centro di un campo vicino al Ghetto.
Fidelia si accovacciò vicino, rabbrividendo a causa della leggera nebbiolina che era calata sulla città. Soli come quella notte al Vedado.
"Mira mi estrella".
Sollevai lo sguardo per individuale l'astro più luminoso.
Continuò innamorata. "Anche se non la trovi, io so che c'è e che rimarrà mia per sempre".
"Fidelia -la interruppi- lo sai che ti amo follemente?".
Mi fissò con i suoi occhi liquidi ed annuì.
"Vorrei vivere sempre con te -continuai- e per far questo, credo di doverti sposare. Vuoi essermi vicina tutta la vita?".
"E' quello che voglio, amorcito" rispose con un groppo alla gola.
Mi baciò appassionatamente, fortemente convinta delle mie intenzioni.
Non mi seppi spiegare, però, per quale motivo riassaporai quella strana sensazione di insofferenza che avevo abbandonato a Milano.
Volevo amarla con tutte le mie forze, volevo costruire un cordone ombelicale con l'isola più bella di tutti i Caraibi, che avrei dovuto mantenere anche dopo la sua definitiva venuta in Italia, se l'avessi sposata.
Volevo il cielo, la lune, le stelle e l'infinito intorno a noi che vedevo tra le pieghe delle mura antiche di Venezia. Il mio senso dell'essere si manifestava orgogliosamente immenso in quella notte fresca e dolce che mi faceva sentire sereno della decisione presa. Improvvisamente la luna scomparve dietro ad una fitta coltre di nuvole nere, gettando nel buio più totale, il campo dov'eravamo.
"Tiengo miedo" disse con un filo di voce.
"Sono qui con te" la rassicurai.
"E' così bello che ho paura che quanto mi hai detto non sia vero".
La strinsi forte per tranquillizzarla.
"Non preoccuparti. Il mio amore ti proteggerà da tutte le ansie. Ora rientriamo in albergo, è l'ultima notte a Venezia". Così dicendole la presi per mano e l'aiutai ad alzarsi dalla scomoda posizione, allontanandoci stretti verso gli attimi di dolcezza che chiusero quella notte.

Avevo mal di testa. Forse a causa della stanchezza accumulata nei giorni passati a Venezia oppure dalla poca voglia di rimettermi al lavoro. Avevo lasciato una Fidelia addormentata e mi ero precipitato in ufficio neppure notando il solito traffico che animava la città.
Sin dalla prima volta che andai a Cuba, il rientro alla mia vita lavorativa era stato molto difficile. E più passava il tempo, ed ogni volta che ritornavo da Cuba, la mia attività mi veniva a noia. Affrontavo il normale svolgimento dei mici incarichi, senza stimoli ed in modo pesante. Già dalla mattina mi sentivo esausto come se una sanguisuga avesse, durante la notte, succhiato tutte le mie energie. Certo, adesso son Fidelia mia ospite e con la nostra voglia di amore e sesso, la cosa poteva trovare ampia giustificazione ma, in cuor mio, sapevo che quello non era il vero motivo.
Era semplicemente il rifiuto di una vita condotta all'insegna della convivenza capitalistica. Non era, la mia, una improvvisa presa di posizione ideologica, solo che mi ero reso conto durante i miei viaggi, di aver sempre coltivato il sogno non dell'essere bensì dell'avere, del quale, il lavoro, rappresentava l'energia trainante. Per queste mi erano venute a noia le strategie di marketing, il management, il know-how aziendale, il budget, il break event point, i linguaggi informatici, la telematica, il multi level e tutte le altre componenti della mia professione. Nei momenti in cui la crisi del lavoro raggiungeva il picco culminante, ero solito rifugiarmi nella mia isola, fatta di palme ma anche di macheteros che tagliavano la canna da zucchero per oltre dieci ore sotto il sole bruciante del tropico. Nonostante l'immane sforzo fisico, immaginavo, quella visione era per me defatigante come un bagno alle alghe giapponesi. Inutile dire che il mio livello di produttività era gradualmente sceso e tutti in azienda, si erano accorti che qualcosa non andava, che io non ero più quello di prima in quanto non ero più ricettivo come una volta.
Ma la società non ti consente il cambiamento repentino e, come un cane che cerca di mordersi la propria coda, vegetavo disperato in attesa di trovare una soluzione. Avessi potuto, sarei corso a raccogliere tabacco a Cuba ma quella non era la mia realtà ne avrebbe potuto mai diventarlo. Ero ingabbiato da problemi economici che mi vedevano al centro delle mie responsabilità: la restituzione dei soldi concessimi da Pierluigi ma anche il bisogno di accumulare una nuova provvista destinata all'eventuale matrimonio. Fattori, questi, che andavano ad aggravare la routine dei costi di gestione della mia vita privata.
Ma la vita proseguiva senza badare alle mie preoccupazioni, sempre pronta ad offrirci e a toglierci tutto. E con quella considerazione finale, iniziai la mia giornata di lavoro.

Erano diversi giorni che non avevo più contatti con Pierluigi. Dalla sera della pizza a casa mia, era semplicemente sparito, eclissatosi per farmi viverre pienamente, la mia storia d'amore. Come sempre, i suoi consigli e le sue analisi mi mancavano.
Alzai il telefono e composi il numero del suo cellulare, trovando ad attendermi, la solita segreteria telefonica. Lo immaginai alle prese con chissà chi e chissà dove, accompagnato dalla sua presenza da uomo vissuto dalla perenne abbronzatura e dai lunghi capelli che lo facevano corsaro del mondo. Fidelia stava sfogliando riviste di moda immagazzinando nella sua memoria immagini che la facevano sognare. Fuori, un temporale allagava la città pulendola dal troppo smog.
"Vuoi sposarmi veramente?" disse chiudendo il giornale svogliatamente.
Avevamo fatto l'amore da poco, spossandoci come al solito senza risparmiare nulla alla nostra voglia e alla nostre fantasie. La televisione inviava immagini di un vecchio film in bianco e nero e l'ambiente era intriso del fumo di molte sigarette consumate sopra alle cose della vita.
"Si. Anche se non ho idea di quando sarà possibile, lo voglio...te lo giuro" risposi.
Allargò i suoi già grandi occhi neri cercando di analizzarmi con lo sguardo per indagare circa la mia convinzione.
"Mi dispiace ripartire per Cuba -continuò- anche se da un lato sono contenta. Non vedo l'ora di dirlo a mia madre e a tutti gli amici che ho a Moron. Però...mi mancherai tantissimo. Non sai quando potrai tornare a prendermi?".
"Spero presto -risposi-. L'importante che tu abbia fiducia in me. Adesso, quando tu partirai, devo fare molte cose per mandare avanti il nostro progetto. Devo mettermi in contatto con la tua Ambasciata per chiedere spiegazioni sul come sposarti e farti venire in Italia. Ma devo concentrarmi sul mio lavoro...sposarsi, viaggiare, insomma tutto questo costa parecchi soldi. Di conseguenza devo essere nella condizione di avere i soldi necessari per fare quello che mi sono prefissato. Capisci, amore mio?".
Fidelia continuava ad osservarmi. Poi, all'improvviso cambiò d'umore.
"Tu non vuoi sposarmi. Stai cercando delle scuse per lasciarmi ed io soffro...". Iniziò a piagnucolare come una bambina capricciosa. Quel suo atteggiamento mi creava delle perplessità ma, forse, faceva parte del gioco.
Con infinito tatto mi avvicinai a lei, iniziandole a spiegarle le cose.
"In Italia, non è come da voi. La vita costa cara. Se compri un vestito, un paio di scarpe...oppure vai al supermercato a fare la spesa..tutto costa parecchio. E per pagare il telefono, l'affitto di casa, l'energia elettrica occorrono molti soldi. I voli ed i miei soggiorni a Cuba hanno esaurito i miei risparmi che avevo da parte. Non ti sto rinfacciando nulla ma voglio spiegarti che, non essendo ricco, ho bisogno di lavorare per mantenermi e per mantenere te, un domani, quando sarai mia moglie e vivrai in Italia...".
"Sicuro che non mi lasci per una blanca?" chiese sospettosa.
"Ma se ti amo! Non ti lascerei per nessuna donna, capito?" dissi in tono alterato.
Scivolammo sotto le coperte e la sentii appoggiarsi a me. S'addormentò poco dopo, lasciandomi solo coi miei pensieri.
Credevo di averle dimostrato tutto il mio amore e le mie buone intenzioni e, per raggiungere questo obiettivo, avevo dato fondo a tutto quello che avevo. Perché allora, m'angosciava con domande puerili? Perché non comprendeva il mio sentimento? Eppure, non eravamo più a Cuba, non doveva più conquistarsi solo una promessa. Era arrivata in Italia, dentro al suo sogno, con me.
Ricusavo il senso di stonatura e cercai di individuare cosa fosse. Iniziavo a pensare che il mio sesto senso era troppo allarmato da ingiustificate supposizioni e ci dormii sopra.

Sulla mia scrivania trovai un appunto lasciatomi dal direttore che mi invitava a recarmi da lui per una riunione informale.
La giornata non era iniziata bene. Avevo perso del tempo da un mio potenziale cliente che, dopo una lunga ed articolata trattativa, aveva rinunciato a firmare il contratto.
Adesso stavo precipitandomi nella fauci del [SM=x1272167] che mi invitava gentilmente, a scambiare le classiche quattro chiacchiere.
"S'accomodi...".
Il direttore non era un gran personaggio con quella sua calvizie ed il naso adunco. Quando si presentava, forte del ruolo che aveva guadagnato in azienda, solitamente i clienti restavano increduli. Il phisique-du-rôle aveva ancora la sua importanza nel mondo della comunicazione pubblicitaria dove svolgevo la mia professione. Ma la diligenza lavorativa abbinata ad anni di risultati positivi, avevano fatto in modo che il suo anonimo aspetto fisico, passasse in secondo piano, senza ostacolarne l'ascesa ai vertici della società alla quale dedicava ogni attimo della sua esistenza.
"Ho trovato il suo messaggio..."dissi con voce forte e chiara.
Era uno dei piccoli trucchi che insegnavano all'inizio di quella carriera: rendersi sicuri di sé, dando così l'impressione di avere sempre la situazione sotto controllo.
"L'ho chiamata dopo averci ben riflettuto. Da quasi un anno a questa parte, il trend della sua professionalità ha subito un crollo inaspettato ed ingiustificabile. Da una brillante posizione conquistata con merito, è sceso ai gradini più bassi delle vendite apparendo, anche in ufficio, assente e poco disponibile al confronto dei suoi colleghi". Così dicendo, estrasse dal cassetto della scrivania, un fazzolettino di carta e s'asciugò il naso raffreddato. Poi, aggiunse con un intimidatorio tono pacato. "Ho saputo del suo amore per una ragazza di colore, ma non credo che questo c'entri con la sua debacle aziendale e poi -tagliò corto- non sono cose che riguardano noi. Ma, effettivamente, la sua crisi é iniziata al suo rientro da Cuba....a proposito, quante volte c'è stato?".
"Tre volte..."risposi.
"Tre viaggi ai tropici nel giro di un anno...non sono così costose come credevo, allora..." annotò con fare sarcastico.
Squillò il cellulare che aveva sopra la scrivania di mogano tirata a lucido.
Rispose brevemente e lo spense subito dopo per restare tranquillo.
"Dicevamo...ah, si i tropici. Senta -intonò con fare paterno- in nome della sua precedente posizione e abilità dimostrataci per anni, l'azienda le offre ancora una opportunità di ritornare ad essere quello che era. Le diamo, però, dei tempi...se nel giro dei prossimi tre mesi non torna a dimostrare la sua efficacia con un rinnovato atteggiamento e con dei risultati tangibili, la società si vedrà costretta a rinunciare, suo malgrado, alla sua collaborazione. Le cose personali le tratti in altro modo, senza che queste siano d'ostacolo al suo lavoro...". Si soffiò nuovamente il naso, poi, cambiando ruolo e divenendo più bonario aggiunse "Mi dia retta. Qui ha la possibilità di fare una buona carriera, lo sa. Ha maturato l'esperienza necessaria per fare il gran passo, non la sciupi con storielle romantiche che la impegnino più del necessario a discapito del lavoro. Guardi me. Ho rinunciato a tutto...ma vuole mettere le soddisfazioni professionali che mi sono tolto? Dia retta a chi ne sa più di lei delle cose del mondo...".
Alzò il ricevitore e chiese alla sua segretaria di portare il caffè.
"Adesso beviamo un buon caffè e poi...al lavoro!".
Sarebbe valso a qualcosa se gli avessi spiegato il mio stato d'animo? Il mio amore per Cuba e per Fidelia mi aveva cambiato, lo sapevo già. Ma non immaginavo di essere sul punto di dover ricominciare tutto, perdendo quello che avevo fino ad allora, raggiunto. Mi ero incasinato troppo per le mie possibilità.
La strada di casa mi appariva più lunga del solito ed i miei pensieri correvano incontro alle mille supposizioni che il mio cervello elaborava. Non potevo rinunciare al mio amore ma non potevo neppure rinunciare al quel lavoro che mi aveva assicurato la relativa tranquillità economica di cui avevo fino ad allora goduto, anche se ormai esaurita a causa di Fidelia e della mia passione per l'isola. Avvertivo l'esigenza di confrontarmi con Pierluigi sempre introvabile. Parcheggiai le mie preoccupazioni insieme alla macchina in garage. Fidelia mi stava aspettando da una intera giornata.

Ancora un giorno ed il volo dell'Iberia avrebbe strappato Fidelia via da me.
La tristezza della nostra separazione si faceva ogni ora sempre più grande, incupendo quegli ultimi attimi da vivere insieme.
Le valige erano già pronte, preparate meticolosamente per far entrare tutte le cose che avrebbe riportato a Cuba.
Il mattino ci aveva colto di sorpresa, dopo una notte passata a parlare del nostro futuro. Progetti come quelli che qualsiasi coppia di fidanzati è solita elaborare, prendeva forma nelle nostre speranze, alimentate da sogni forse irrealizzabili ma dettati da tanto amore.
"Cosa fari senza di me?". "Mi penserai a Cuba?" Domande stupide che rimanevano appese alla finestra della nostra cupezza. Milano, invece, aveva iniziato a splendere sotto un nitido sole.
"Hai telefonato a tua madre? Ti verrà a prendere all'Avana?" domandai per immaginarmi la scena che avrebbe vissuto a meno di quarantotto ore.
Ripercorrevo con la memoria il nostro volo di un mese prima. Quanta gioia e quanta emozione coronarono quel viaggio che era sempre stato nei sogni di Fidelia come un qualcosa di irraggiungibile. Con dei rapidi fashback rivivevo le immagini che avevano caratterizzato la sua permanenza in Europa, sin dal suo arrivo a Madrid e gli sguardi increduli sulle vetrine dei negozi duty free, le serate in discoteca a Milano, le corse pomeridiane per il centro città a caccia di negozi alla moda, la pizza con Pierluigi, le cene nei locali alternativi dei Navigli e di Brera, la curiosità nata alla vista delle gondole, la serata passata al campo del Ghetto, l'abitudine presa nel fare la spesa al supermarket vicino casa. Quante cose mi sarebbero mancate e quante sarebbero mancate a lei, smarrita in una Cuba ancor più ostica da vivere con miseria e povertà da combattere quotidianamente.
Quei trenta giorni passati in Italia sarebbero divenuti episodi ed aneddoti che avrebbero spaziato liberi per una Moron che avrebbe riaccolto Fidelia nelle sue piccole Avenidas polverose piene di mosche e piattole, portate dal vento della Sierra.
Ancora una volta, però, il fascino di Cuba mi rapì portandomi con se lungo i crinali dell'Escambray, sulla Baia di Playa Giron, tra le Calli del Vedado con le mura colorate da murales di lotta e miti passati.
Dovevo ancora superare molti ostacoli prima di giungere ad una dimensione di serenità che auspicavo possibile per noi due.
Lo squillo del citofono mi distolse dalle mie considerazioni.
"Sono Pierluigi...posso salire?".
Entrò portando una bottiglia di rum ed un pacchetto incartato.
"Non potevo lasciar partire Fidelia senza salutarla..." disse mentre si accomodava famigliarmente sul divano.
"Holaaaaaaa, gringo!" lo apostrofò Fidelia nel frattempo entrata nel piccolo disimpegno.
"Come siete sbattuti!" continuò scherzando il mio amico.
"Figurati. SIamo così tristi che ci è passata qualsiasi velleità, t'assicuro" precisai.
Fece un cenno di disapprovazione indicando in quel modo, la sua incredulità.
"Si, immagino proprio che vi sia passata la voglia...ma a chi vuoi darla a bere!" continuò sorridendomi.
"Quando mi vieni a trovare a Moron?" disse Fidelia guardando,però, il pacchetto che stringeva tra le mani.
"Credo che sarò a Cuba tra un paio di mesi. Ma vado a Santiago...comunque vedrò di passare per Ciego de Avila così mi sarà possibile venirti a trovare al tuo paesello".
"Lo sai che Claudio mi ha chiesto di sposarmi?" disse con aria civettuola.
Pierluigi inclinò la testa come per ascoltare meglio, poi volse il suo sguardo su di me.
"Complimenti. Non pensavo che foste a questo punto...comunque, auguri e figli maschi!".
Aprì la bottiglia di Havana Club etichetta oro e riempì tre bicchieri che aveva preso dal mobile del bar.
"Allora festeggiamo l'avvenimento con un brindisi d'augurio. A proposito, questo pacchetto è per te" e porse il pacchetto a Fidelia.
Lei lo afferrò, iniziando a scartarlo con cura finche non ne uscì un piccolo astuccio di pelle rigida che aprì accompagnando l'apertura della scatolina con un urletto di gioia.
"Ma è stupendo!" esclamò.
Era un piccolo anello d'argento con una pietra dura, di foggia orientale, che Fidelia infilò immediatamente al suo anulare.
"E' un piccolo pensiero per te. L'ho comprato a Kuala Lumpur la scorsa settimana, in una piccola bottega al quartiere cinese. Dicono che porti fortuna".
"E' stato un bel gesto, quello di ricordarti di lei" dissi con una punta di stizza.
"Stai tranquillo gelosone, non te la rubo mica" rispose Pierluigi accorgendosi del mio cambiamento d'umore.
"Non litigate -disse Fidelia- io ho fame...." e così dicendo andò in cucina, lasciandoci soli.
"Allora, come te la passi?" mi domandò.
"Con tanti problemi...la paura di perderla, la voglia di tenerla stretta, il voler godere di tutti i momenti passati insieme ed il mio amore per Cuba mi hanno fatto perdere la concezione del lavoro. Sono stato avvertito, con una specie di ultimatum, che se non ritorno ad essere 'normale' sarò presto licenziato. A questo fatto, devo aggiungere che vivo a volte delle strane sensazioni che sono come segnali di un tormento occulto del quale non capisco ne l'origine e tanto meno il significato...per questo ti avevo cercato, volendomi confrontare con te".
"E' dura, lo so. Ora hai vissuto un mese con lei, ti sei fatto una idea del vostro rapporto e puoi decifrare meglio i tuoi sentimenti. Partendo, Fidelia ti lascerà il tempo e lo spazio necessario per recuperare gli stimoli necessari per continuare alla meno peggio il tuo lavoro..." disse senza convinzione.
"Tu credi?" ribattei.
Fidelia entrò portando un vassoio contenente una cena fredda per tre.
Era l'ultima che avrebbe consumato in Italia.
Pierluigi si fermò il tempo necessario per scambiare quattro chiacchiere, lasciandoci nuovamente soli per godere delle ultime ore rimaste a nostra disposizione in quella breve ultima notte.
Mestamente rientrammo in camera da letto dove, con gesti quasi innaturali, ci spogliammo per andare a dormire.
Il rumore del silenzio era rotto solo dal ticchettio della minuscola sveglia posata sul comodino. Ero sdraiato vicino a lei e riuscivo a percepire la sua tormentata angoscia.
"Mi mancherà tutto quello che ho avuto questo mese" disse lievemente.
Non avevo che parole vuote per consolarla, così rinunciai a risponderle.
Singhiozzò sommessamente, quasi si vergognasse di dimostrarmi tutto l'amore che sentivo scendere dalle sue lacrime.
"Non piangere, ti prego".
"Come faccio...ti perderò, lo sento".
Il dolore è angosciosamente comunicabile a volte e anch'io stavo vivendo svisceratamente l'ansia che covava nell'animo suo, anche se non condividevo il motivo che l'aveva generata.
Le risposi mentre i miei occhi si stavano inumidendo.
"Non mi perderai. Hai visto anche tu che le mie promesse sono divenute realtà...Non devi temere di perdermi. E' doloroso per entrambi il separarci nuovamente ma mi consolo sapendo che sarà una delle ultime volte. Pensa -continuai- a quando potremo vivere insieme tutti i giorni per tutti i mesi e per tutti gli anni della nostra vita. Come sarà bello! E lo sarà ancor di più di adesso, quando sapremo che nessuno ci potrà più dividere. Non credi?".
Strozzò i suoi singhiozzi e s'asciugò le lacrime col bordo del lenzuolo.
"Si mi querido" rispose.

Le accarezzai le sue lunghe treccine fino ad addormentarmi stretto a lei.



17/03/2007 18:07
 
Quota
Erano passati dieci lunghi mesi dal giorno della sua partenza. Il ricordo della mia promessa, aveva fatto si che il mio lavoro riprendesse a girare come una volta. Non potevo permettermi sbagli e non dovevo, quindi, correre il rischio di rimanere disoccupato. Da quella piattaforma, anche se molto pesantemente, decollavo ogni mattina per raggiungere i traguardi che mi avrebbero permesso di conquistare l'obiettivo rappresentato dalla realizzazione del sogno.
Restavo in contatto con Fidelia grazie alle numerose lettere ed alle telefonate che, settimanalmente, partorivo come una panacea alla mia sofferenza. Ma le tristezze erano messe da parte, annullate da quegli stimoli che si erano magicamente generati in me e, grazie ai quali, ero risorto ad una nuova concezione di vita. Era come se, cinicamente, avessi vivisezionato il mio stato d'animo, eliminando le fonti dei miei malesseri e delle mie angosce.
Il mio amore per Cuba rimaneva immutato e lo rafforzavo ogniqualvolta avevo l'occasione di incontrare Pierluigi, al quale stavo restituendo periodicamente, la somma prestatami. Ci scambiavamo pareri che poi analizzavamo analiticamente, trattando lo stesso denominatore comune: quella Cuba che avevamo imparato ad amare, la sua gente che ammiravo e le nostre donne che ci avevano rapito il cuore.
Fidelia era rientrata senza clamori a Moron distribuendo, come previsto, regali a tutti i suoi conoscenti. Mi aveva confessato di portare sempre con se le foto che aveva scattato in Italia, affinché le fosse possibile esibire la prova della sua visita e dei progetti che ne erano successivamente scaturiti.
Non era più stata a Varadero ne a Santiago, non le interessava e poi non avevo i soldi necessari per effettuare viaggi. I suoi spostamenti erano limitati a raggiungere in bicicletta Patria, un paesino vicino Moron, dove abitava una sua cugina e, tutt'al più, Ciego de Avila, dove risiedeva una sua zia. Per il resto, vegetava fuori dalla sua casetta guardando le poche macchine passare mentre ascoltava la radio, in attesa di una mia lettera.
Aveva eliminato, a poco a poco, i suoi vecchi "fidanzati" stranieri che ogni tanto le scrivevano per comunicarle nuovi ritorni a Cuba e invitandola a passare qualche giorni insieme a loro. Fidelia, non interessata, non era più la jinetera conosciuta ma solamente una donna innamorata in attesa del suo uomo che, prima o poi, l'avrebbe resa felice.
Pierluigi era andato a trovarla poco dopo il suo rientro, Aveva conosciuto la famiglia e aveva portato con se, un pacco da me confezionato e accompagnato da qualche centinaio di dollari che le avrebbe reso meno dura la vita.
Al suo rientro, nel solito localino di Brera, mi aveva fatto un dettagliato resoconto a proposito delle sue impressioni. Concordava con me che Fidelia mi amava ed appariva sincera, ma era titubante sull'esito di una nostra eventuale unione.
I suoi dubbi nascevano soprattutto, dal fatto che appartenevamo a due universi differenti i quali generavano, il più delle volte, punti di vista opposti e contrastanti che mai si sarebbero potuti conciliare.
Cercavo, con la forza del mio amore, di conquistare delle posizioni che mi permettessero di giustificare il mio punto di vista, da dove era possibile supporre che qualsiasi problema di incompatibilità causato dai nostri differenti mondi, sarebbe stato annullato dal mio atteggiamento positivo, proprio dell'amore che nutrivo per lei.
Pierluigi non era dello stesso parere. A suo dire, prima o poi, l'incompatibilità che lui pronosticava, sarebbe emersa creando delle fratture nel nostro rapporto che non si sarebbero potute ignorare neanche anteponendo ad esse, il nostro sentimento.
Ma, come ad ogni contrarietà della vita, l'egoismo non ci fa vedere serenamente la globalità delle cose. Anzi, agisce come antidoto atto a falsare la realtà per sottoporcela, successivamente, come noi vogliamo che sia, ingannandoci sul nostro futuro.
Durante i lunghi confronti con Pierluigi, non solo volevo afferrare il senso della sua analisi che rifiutavo per partito preso, ma iniziavo ad inquadrare il mio amico, come un potenziale denigratore della mia felicità, spesso arrivando fino al punto di discuterci fortemente solo per mantenere salde le mie convinzioni.
Fu proprio in uno dei nostri incontri serali che si evidenziò la frattura che aveva portato ad incrinare il nostro rapporto già da qualche tempo.
Stranamente, era una sera caratterizzata da un clima mite per Milano. L'appuntamento prefissato, vide Pierluigi e me, arrivare nello stesso momento davanti al luogo di ritrovo, per poi dirigersi insieme, verso quella pizzeria divenuta ormai il nostro punto di riferimento.
Dentro, l'ambiente pieno di fumi e aromi, mi riportava alla mente più un localino di Posillipo che non un paladares cubano. Con l'immancabile puros acceso, Pierluigi attendeva pazientemente che terminassi l'ennesima spiegazione delle mie ragioni.
"La felicità -conclusi- è legata al raggiungimento dell'obiettivo che mi sono prefisso. Una volta sposatomi con Fidelia, non esisteranno più ostacoli al mio amore e tanto meno alla mia crescita come individuo. Fidelia è tutto e valorizza l'essenza del mio essere".
"Il fatto è -rispose pazientemente- che tu stai vedendo il problema come se non fosse tale. T'inganni solo perché la tua passione è così gretta, da non farti percepire tutte le difficoltà di ordine pratico che angustieranno la vita futura".
Non riuscivo proprio a seguirlo.
"Ma cosa mi angustierà? Sarò felice con lei a Milano, quando saremo sposati..."ribattei violentemente.
Colsi un velo di tristezza sul suo viso. Le rughe si incresparono ulteriormente facendomi curiosare ulteriormente su quella maschera perennemente abbronzata, che stava diventando ostile alla mia vista.
Proseguì. "Una volta te ne parlai. Devi stare molto attento: tu vedi Fidelia e Cuba e, in Cuba il sogno che non puoi realizzare qui. Per te, anche se sei conscio delle difficoltà materiali, non esistono ostacoli. E' qui che sbagli. Ti premetto che non intendo pontificare sui tuoi rapporti amorosi, potresti essere felice od infelice con qualsiasi donna con la quale tu decida di vivere la tua vita. Ma, non volendo valutare questo fattore di imponderabilità, devo essere critico sulla tua visione delle cose a proposito di Fidelia. Hai amato, e ami, la realtà cubana. Ma non riesci a distinguere ciò che è oggettivo da ciò che è soggettivo. Hai incarnato con Fidelia, tutte le tue aspirazioni, confondendole con miti passati e false informazioni...riflettici bene. Parti da Guevara, idolo eroico mitizzato e poetizzato; aggiungici una bellissima ragazza che si è dimostrata disponibilissima e con la quale puoi giocare ad essere il suo pigmalione. In fondo, non è che una bambina che tu prendi per mano e che valorizza il tuo ego. Aggiungi, inoltre, la bellezza dell'isola, il suo fascino, i suoni, la sua gente...ed, infine, paragona questo alla vita monotona e metodica, priva di sensazioni che hai vissuto fino adesso in Italia. Tutto questo ti fa pensare che sia giustificato lo sposarti con Fidelia e sei sicuro che con lei, raggiungerai la felicità. E' vero?".
Annuii immediatamente e continuò.
"Ora ti dico nuovamente cosa non va. Tutti gli elementi che ti ho descritto fanno parte di quei parametri che sono solo tuoi e che non hanno nulla a che vedere con quelli fondamentali, dai quali dovresti partire per elaborare un sano ragionamento. I dati di fatto essenziali sono quelli che ti dico ora: punto primo, tu non vivi ne vivrai mai a Cuba. Le spiagge, il son cubano, le mulatte, i particular, le bellezze coloniali di Trinidad e di Baracoa sono e fanno parte di una cultura, di una storia, di un mondo che non sono i tuoi e, ovviamente, non sono trasportabili a tuo piacimento. Li potrai anche vivere intensamente ma limitatamente ai giorni che passerai sull'isola, dove ritroverai quei valori ma dove pure li rilascerai al momento della tua partenza. Vivendo in Italia, anche se per me è triste dirlo, esistono altri stimoli che non solo non assomigliano a quelli cubani ma, viceversa, ne sono l'esatto contrario. Punto secondo: Fidelia ti ha conosciuto, apprezzato ed amato per quello che rappresenti per lei. Sai che è stata una jinetera per scelta obbligata o no, non è questo l'importante, ma la realtà delle cose esula dalle cause originarie. Come jinetera è abituata al suo metro di paragone ed al suo modo di vita. Ne convieni?".
Senza attendere risposta, dando tutto per scontato, continuò.
"Quanto ti è costata durante il mese di vacanza quando era tua ospite? Due, tre, quattro milioni? Spesi, com'è ovvio, per regalarle vestiti, oggetti, divertimenti e quant'altro necessario per soddisfare parzialmente le sue voglie represse. Credi che un domani che sarà tua sposa, le passeranno gli stimoli consumistici che ha messo vagamente in mostra durante la sua visita in Italia? Fidelia ti considera ricco...lo se bene che non lo sei. Ma lei, abituata ai parametri cubani di cinque dollari al mese, un italiano che guadagna uno stipendi di quasi duemila dollari è ricco. O meglio, lo sarebbe se vivesse dentro l'economia cubana ma non certo in quella capitalistica nostrana. Le hai mai raccontato quanto costa mantenersi in Italia con uno stipendio? Le hai descritto le rinunce che uno come te deve fare per avere cinque milioni da spendere in due settimane a Cuba? Anche se non le hai parlato di questo, t'assicuro, non perderci tempo: non capirebbe. Lei ragiona con la sua testa e qualsiasi contrarietà la motiverebbe del fatto che tu non la desideri più e che stai trovando un pretesto per lasciarla...".
Afferrò il boccale di birra che aveva davanti e beve una lunga sorsata, lasciandomi il tempo per riflettere su quanto aveva detto.
Sapevo, in cuor mio, che aveva ragione. Mi riportò alla mente alcune discussione intavolate con Fidelia a proposito della realtà economica capitalistica, di come funzionavano le cose da noi e delle differenze tra i due mondi finanziari. Non volevo, tuttavia, accettare l'idea che una spietata analisi mortificasse il mio sogno fino ad infrangerlo totalmente.
Pierluigi posò il bicchiere ed aspirò il suo sigaro.
"Credi che il tuo amore, dopo i primi tempi innegabilmente belli e felici, sapranno modificare il carattere e le aspettative della tua chica? Basteranno le notti d'amore a compensare quello che il tuo portafoglio non le potrà dare? E sei proprio sicuro che, quando vedrai la venalità dei suoi gesti, Cuba e Fidelia ti piaceranno ancora come adesso? E' per questo che ti dico che ci devi riflettere sopra molto bene. Nessuno ti impedisce di avere la chica che vai a trovare senza clamori. Puoi vivere in pieno la tua illusione nella terra del Caribe, per venti o trenta giorni all'anno, mantenendo integro il tuo sogno che ti aiuterà a sorpassare quei momenti di tristezza che incontrerai nel tuo lavoro, nei rapporti sociali, nella quotidianità della tua vita. Lo so che mi ripeto ma noi, a Cuba, viviamo quello che non potremo mai in Occidente, approfittando a volte, della disperazione di ragazze che sarebbero felici altrimenti, se vivessero in un modo differente dal loro status attuale di "cubani". E' un interfaccia reciproco ed ingannevole, fatto di comuni convenienze, lo sai bene".
Decisi di interrompere il suo monologo.
"Quello che non comprendi -dissi in modo decisamente alterato- è solo un fatto: non è possibile pensare che lei ed io ci amiamo semplicemente, a parte la nazionalità, i costumi, l'economia, la politica, la religione e quant'altro possa differirci? Quanti matrimoni interrazziali ci sono in Italia? Vanno tutti a finire male o sono tutti dettati dall'interesse? Che la ami e che mi piaccia Cuba nel contempo, non credo che possano essere considerate due cose in contrasto fra loro, anzi. Sposandomi con Fidelia non sposo mica Castro o Guevara e neppure i mariachi di Varadero o i Santero di Santiago...in quanto, poi, al problema del 'costo' di Fidelia, la volta che venne in Italia dette sfogo ai suoi istinti repressi, ciò è verissimo. Ma è pur vero che, una volta inseritasi nella nostra realtà, non potrà più pretendere di soddisfare sempre i suoi desideri. Se mi ama, come credo e so, per quanto difficile non le sarà impossibile frenare le sue voglia, no?".
Pierluigi non accennò a nessun tipo di assenso. Si limitava ad ascoltarmi, fumando con relativa calma il suo sigaro, senza farsi distrarre dalla vita che ci scivolava intorno.
Poi, scosse la testa mentre un mesto sorriso si allargava sulle sue guance.
"No, mi amigo, no!" rispose laconicamente.
"Cazzo! Come no?!" ribattei violentemente sconvolto.
"Non ti concederà nulla -rispose-. Pretenderà il massimo da te perché s'immagina che tu glielo darai. Ed effettivamente farai del tutto per assicurarle quel benessere che cerca. Lo farai perché ti sarà dapprima ancora possibile e, successivamente, quando finite le tue risorse economiche, t'arrampicherai sugli specchi per cercare di soddisfarla ancora. Fidelia si dimostrerà una piccola sanguisuga intelligente. Non ti collasserà subito ma, un poco alla volta, stillerà la tua linfa fino all'ultimo solo per appagare i suoi desideri. Certo, non lo farà con cattiva intenzione ma solo ingenuamente...comunque lo farà. E tu, non ti renderai conto del suo gioco fino a quando non ti troverai intrappolato e senza via d'uscita: allora non ti sarà più possibile tirarti indietro e lei non rinuncerà a quella vita che ha vissuto con te. A quel punto,ti ritroverai senza amici e senza lavoro, pieno di debiti e con crisi di identità mentre lei, si guarderà intorno per cercare un altro che le assicuri ancora quel benessere che tu non le potrai più dare".
Sbattei violentemente il pugno sopra al tavolino rovesciando il mio bicchiere ed attirando l'attenzione del cameriere annoiato.
"Sei pazzo! Fino a qualche tempo fa mi sollecitavi a credere nella nostra Cuba, nella sua gente, in Fidelia. Ora che ho deciso di sposarmela escono fuori tutte le meschinità che avrebbe la mia amata. L'hai trasformata in un mostro senza cuore, un golem pieno solo di interessi personali e cinismo, peggio di una droga distruttiva. Credo solo che tu sia geloso del fatto che io, pur inesperto al tuo confronto, abbia trovato un amore vero e sincero mentre tu, camajan vero, ancora vai a jinetere! La tua è solo invidia, ed io che pensavo che fossi un vero amico...".
Pierluigi s'alzò compostamente dalla sedia e mi fissò dritto.
"Non voglio deluderti ancora con la mia amicizia -disse con triste sarcasmo- e, quindi, ti saluto senza rancore, perché non lo meriti neppure. In riguardo ai soldi che ancora mi devi, tienili pure...ti serviranno. Adios y suerte".
Girò sui tacchi quasi piroettando e guadagnò l'uscita senza voltarsi. Avevo perduto l'unico amico che avevo, sapendo che quello che aveva detto, era la pura verità. Ma il mio cieco amore non poteva giustificare la durezza della realtà e, l'unico torto del mio amico, era stato quello di espormi la situazione che si sarebbe potuta generare, senza cercare appigli e mezzi termini. Ma, in cuor mio, non potevo accettare il probabile esito, perché il mio ottimistico senso del sentimento, mi portava a volare così in alto da non aver paura delle vertigini che provavo.
Uscii dal ristorantino decisamente contrariato ed in preda ad un furioso mal di testa. L'aria frizzantina della notte mi fece rabbrividire risvegliandomi dal torpore in cui ero precipitato. Tradussi il brivido che mi scivolò sulla schiena come una rinascita del mio desiderio. Dovevo accorciare i tempi, scendere nuovamente a Cuba per sposarmi Fidelia e portarla in Italia, dimostrando così al mondo intero che il nostro amore era più forte delle paure che covavano dentro di me.

Dopo aver brigato per prendere le ferie anticipate, mi ritrovavo ancora una volta, seduto nella scomoda poltroncina del DC10 che mi stava portando all'Avana. Ancora un paio d'ore e sarei arrivato a destinazione pronto a confrontarmi col mio futuro. Le certezze conquistate tramite la mia convinzione, venivano man mano scemando mentre mi avvicinavo alla meta. Avevo analizzato tutti i dubbi innestatimi da Pierluigi durante il nostro ultimo incontro e, più ci ragionavo sopra, più mi rendevo conto che c'erano tutti i presupposti per covare fondati timori circa l'esito del mio agognato matrimonio. Le malinconiche note di una canzone di Laura Pausini, diffuse dalla cuffiette della filodiffusione interna dell'aeromobile, violentavano i miei pensieri facendomi precipitare indietro nel tempo, quando con Fidelia, ascoltavo la stessa melodia, tanto di moda a Cuba, all'epoca del mio primo viaggio. I cubani, sono un popolo di romantici pronti ad utilizzare tutti i mezzi per sognare quei personaggi che amerebbero impersonificare e che li fanno librare nell'immaginazione, per godere fino in fondo, del loro innato senso di umanità e dolcezza. Com'era dolce rivedere le diapositive dei miei ricordi che si sparpagliavano disordinatamente nella mia testa, mentre mi stavo avvicinando sempre più a quella terra che mi aveva posseduto sin dalla prima volta. Uscito dall'aerostazione, animata come sempre, il caldo umido e solare mi avvolse completamente. Odori ormai noti, penetravano nelle narici che gustavano gli afrori dei palmizi che circondavano il piccolo aeroporto mischiandoli con il puzzo del carburante non ottimamente raffinato, che fuoriusciva da decrepiti tubi di scappamento delle auto circolanti. Fidelia era ad attendermi, all'interno del variopinto cordone di gente in attesa di altra gente. Con le lacrime agli occhi ci abbracciammo fortemente, consapevoli dell'imminente coronamento del nostro sogno. Con un anonimo taxi, fuggimmo dalla folla, dai rumori, dagli aromi forti e dalla noia per farci portare al Vedado a quella che consideravamo, ormai, la nostra casetta habanera.
Juliet si sbracciò fuori dal portoncino color marrone, accogliendomi con visibile gioia.
"Bienvenido my Claudio" disse abbracciandomi.
"Hola!" risposi ridendo del mio comico accento spagnolo.
Fidelia corse in camera, anticipandomi nella conquista del letto.
"Claudio -mormorò- te quiero mucho".
Ci spogliammo, fregandocene del resto del mondo rimasto chiuso fuori della porta della piccola camera, in attesa di un nostro rientro alla vita che avevamo lasciato al di là delle nostre voglie.
Un groviglio di sesso, passione, dolcezza, poesia, eccitazione, s'impadronì di noi e dei nostri corpi sudati ed appiccicosi mentre si contorcevano in preda ad occulte voglie di essere e di fare. Era passato un anno dall'ultima volta che avevamo fatto l'amore. Dodici lunghissimi mesi passati a rimuginare sul matrimonio che avremmo contratto alla Consulteria Juridica dell'Avana e che ci avrebbe permesso di transitare ad una nuova vita, la nostra.
Non pensai più ai dubbi e a Pierluigi. Tutto era così confusamente bello e, come in un caleidoscopio, riuscivo solo a percepire le sensazioni in modo istintivo, senza avere la possibilità di focalizzarle nitidamente.
Mi addormentai abbracciato al suo corpo, pensando che non avrei dormito più solo, da quel momento in poi.

L'aria condizionata era posizionata al massimo livello. La villa, in stile liberty coloniale che ospitava la Consulteria Juridica, era stata restaurata da non molto. Lo si intuiva dai lucenti marmi tirati a lucido nei quali era possibile addirittura specchiarcisi, come dalla tinta bianca delle pareti talmente vergine da non mostrare neppure un neo. Il resto era efficienza e cortesia profusa da impiegate vestite tutte allo stesso modo con una gonna nera ed una sobria camicetta bianca.
Fidelia ed io eravamo stati fatti accomodare in una stanza di media grandezza, dove avevamo trovato altre persone in attesa di sbrigare le più svariate pratiche legali. La Consulteria, non era nient'altro che un centro di avvocati di emanazione statale, in grado di sbrigare tutte le procedure di legge sia nazionali che internazionali. Era presso la Consulteria che venivano effettuati gli inviti per i cubani e, sempre da loro, si richiedevano passaporti e permessi vari, nonché venivano ufficializzate le posizioni di stato civile, inclusa anche l'unione matrimoniale.
I minuti trascorrevano lentamente. Fidelia, stretta in un semplice abitino bianco, ascoltava le diverse conversazioni che si intrecciavano nella stanza e che io non capivo, per poi tradurmele bisbigliandomi all'orecchio affinché ne fossi partecipe. Era un escamotage per non continuare a fissare l'orologio per vedere scorrere il tempo lento.
"Vedi -disse indirizzando la testa verso una coppia- anche loro stanno attendendo per sposarsi. Lui è spagnolo e lei habanera".
Lo sguardo indagò verso le persone che si trovavano all'interno della stanza. Riconobbi di vista, un italiano che avevo incontrato a Varadero durante il mio primo viaggio. Era accompagnato da una jinetera vestita molto volgarmente. Probabilmente stava per invitarla in Italia con chissà quale esito. Volsi lo sguardo altrove e, a parte un gruppo di cubani in attesa di una pratica, il resto delle persone era composto da coppie di cubane accompagnate a stranieri. Le ragazze erano tutte uguali , vestite con abiti succinti e vivacemente colorati che ne tradivano l'origine jinetera, e i loro sogni. Gli uomini erano un misto di stupidi innamorati pronti a realizzare i propri sogni grazie alla disponibilità economica di cui erano in possesso. Avevano l'aria stralunata di chi si trova fuori luogo ma che è comunque felice di trovarsi in quel posto.
Una avvenente impiegata controllava il flusso delle persone che continuava ad entrare nella stanza, smistando successivamente gli interessati verso gli uffici competenti.
Una televisione collegata ad un videolettore trasmetteva a rotazione, un documentario che pubblicizzava i servizi offerti dalla Consulteria alternato ad un altro che promuoveva l'isola di Cuba. Dopo la terza volta che avevo visto il nastro finire e ricominciare, venne chiamato il mio nome. Fidelia sobbalzò dalla poltroncina e mi prese per mano. Stringeva una minuscola borsetta di finta pelle rossa ed uno striminzito mazzetto di fiori di seta che le avevo portato dall'Italia al posto del classico bouquet, introvabile all'Avana.
Nonostante il clima abbondantemente refrigerato, la mia fronte era imperlata di sudore e sentivo la camicia appiccicarsi lungo la schiena.
Entrammo in un minuscolo ufficio modernamente arredato dove troneggiavano computer, stampanti e telefoni ordinatamente disposti sopra ad un paio di scrivanie.
Dall'altro capo di una di queste, sedeva compostamente una giovane donna dai lunghi capelli corvini, vestita come le altre sue colleghe ma che aveva civettuolamente inguainato le sue gambe da un paio di collant scuri.
"E' il nostro avvocato" disse Fidelia mentre si accomodava sulla sedia dinnanzi al funzionario che aveva appena presentato.
"Bueno dia" salutò cordialmente.
"Buongiorno" risposi imbarazzato.
"Bueno" disse Fidelia che continuò a parlare con l'avvocato in uno spagnolo fittissimo.
Poi, alla fine, si rivolse a me traducendomi il succo della conversazione. Alla fine allungai la busta contenete i documenti che mi ero portato dall'Italia, fino depositarla sopra alla scrivania.
La donna sfrugugliò le carte compilando, successivamente, alcuni moduli che prelevò da un contenitore. Poi, li sottopose alla nostra attenzione spiegandoci, nel contempo, le norme che regolavano la nostra unione.
Firmammo per accettazione la procedura e, l'avvocato, ci rilasciò la copia di nostra competenza che avremmo dovuto portare all'Ambasciata italiana.
Avevamo avuto modo di assoldare un paio di persone per testimoniare il nostro matrimonio.
All'uscita dalla minuscola stanza eravamo finalmente marito e moglie. Fidelia si strinse a me cercando di dimostrarmi la sua felicità. All'uscita un sole radioso illuminava la piccola calle alberata dove ci stava attendendo il nostro taxi.
"Non ti lascerò mai, amore".
Quelle parole così dolci, pronunciate da Fidelia e frutto della sua eccitazione, ebbero l'effetto di riportarmi alla mente, le paure trasmessemi da Pierluigi.
"Lo spero tanto" risposi a mezza bocca.
Juliet aveva preparato il pranzo cercando accuratamente di soddisfare i miei gusti compatibilmente con quanto era riuscita a reperire al mercato nero.
Aragoste, bistecche di tartaruga, pesce arrosto, banane fritte, congrì ed altri contorni erano ben disposti sul tavolo apparecchiato per la circostanza.
"Sono sposata!" urlò felice Fidelia incontro alla zia che corse ad abbracciarla.
"Vamonos a comer" rispose concreta Juliet.
Mangiammo con gusto e con appetito parlando dei progetti che intrecciavano le nostre vite.
"Moglie -dissi- abbiamo una settimana di tempo prima di partire per l'Italia. Cosa vuoi fare?".
Fidelia smise di mangiare e fissò il quadro affisso alla parete dinnanzi a lei, decidendo sul da farsi. "Potremo andare a Playa de l'Este. E' vicino all'Avana e ci sono belle spiagge sulle quali potremo prendere il sole, se ti va".
L'idea mi attraeva: vivere la luna di miele sdraiato sulla sabbia bianca dei tropici, ma non quella finta dei depliant turistici bensì quella del vero mare cubano, circondato dalla 'mia' gente e con la quale avrei potuto continuare a confrontarmi.

Dopo una manciata di chilometri dall'Avana, avevamo abbandonato la Via Blanca per addentrarci nei piccoli centri balneari della Playas del Este che si susseguivano l'un l'altro di cui, Guanabo, faceva parte.
Non assomigliava affatto alla occidentalizzata Varadero e, a parte un piccolo albergo ubicato al centro della cittadina, non vi erano strutture turistiche se non quelle fortemente decentrate di Santa Maria del Mar che cercavano di riprodurre un clima di deciso turismo a buon mercato. I rari negozi che si incontravano percorrendo la strada centrale, erano più ad uso degli abitanti che non degli stranieri, che preferivano l'ovatta degli ambienti a loro dedicati facenti parte degli alberghi dove soggiornavano.
Un paio di Tiendas assicuravano il minimo di benessere extraterritoriale pagato in dollari anche dagli stessi cubani ma, per il resto, solo negozietti austeri che vendevano prodotti nazionali a buon mercato e pagabili in pesos.
Grazie alla complicità di Juliet, avevamo prenotato una casetta in riva al mare, dove avremmo passato la nostra vacanza.
La proprietaria era una lontana parente della zia Fidelia che si era anche resa disponibile a cucinarci i pasti a cinque dollari l'uno. Il villino, bianco e quasi moderno, si differenziava prepotentemente dalle povere abitazioni circostanti edificate, come al solito, con materiali di fortuna recuperati chissà dove. La camera matrimoniale era addirittura fornita di aria condizionata e televisione e, rappresentava, il massimo dei comfort raggiungibili a Cuba.
Dolores Maria, era una simpatica donna di mezza età e viveva grazie all'affitto abusivo di quella casetta che, però, doveva dividere con suo padre.
Ci spiegò che la casa in origine, era appartenuta al suo genitore che gliela aveva lasciata quando lei prese marito: Come spesso accade a Cuba, il matrimonio non andò per il verso giusto ed i due si erano separati. Dolores Maria si era rifatta una nuova vita, lasciando però Guanabo per andare a vivere con il suo nuovo compagno che abitava nella città satellite di Habana del Este, lasciando così sfitta la sua prima casa che ora, affittava a turisti di passaggio.
Il commercio non si limitava solo alla locazione ma si diversificava grazie alla possibilità di fornire pasti su richiesta, facendo incrementare in tal modo, i guadagni che recuperava da questa attività.
Entrando in casa, ricevetti subito l'impressione del pulito. Tutto era così composto nella sua povertà. Regnava un dignitoso ordine, curato con meticolosa sapienza ed amore. Alcuni poster inneggianti alla rivoluzione erano affissi alle pareti con l'intenzione di dare un po' di colore all'arredamento alquanto antiquato. Tra i mobili fondamentali, si distingueva un portariviste sicuramente molto raro nelle altre case ed un vecchio bancone da bar, retaggio del periodo pre Castrista. Dolores parlava bene l'italiano, appreso grazie ai turisti con i quali, il più delle volte, aveva instaurato e mantenuto dei rapporti di amicizia e di clientela fidelizzata.
Esaurite le spiegazioni, la donna ci lasciò soli promettendoci di ritornare in tempo per prepararci la cena. A differenza della casa di Juliet, questa ci avrebbe garantito una privacy assoluta. Disfammo il bagaglio, approfittando di cambiarci d'abito ed indossando il tipico abbigliamento balneare. "Facciamo un giro?" proposi.
Cinque minuti più tardi, passeggiavamo lungo la spiaggia libera, mano nella mano.
"Come sta il tuo amigo?" chiese a proposito di Pierluigi.
Non le avevo detto nulla a proposito della discussione che aveva interrotto il rapporto d'amicizia tra lui e me e non volevo inquinare l'atmosfera rilassata che c'era in quel momento.
"E' partito...è da un bel pò che non lo vedo".
"Immagina che sorpresa sarà il nostro matrimonio quando lo saprà..." insistette.
Sbrigativamente annui con la testa cercando di tagliare corto sull'argomento ma lei continuò.
"Quando mi è venuto a trovare siamo stati una intera giornata insieme. Conosce bene Cuba ma, quello che mi ha colpito, è il fatto che capisce la gente e mi ha dato l'impressione di essere un uomo che raramente sbaglia giudizio".
Non potei far a meno di sperare che le considerazioni fattemi da Pierluigi su di lei, fossero, quella volta errate.
"Perché non parli? Sei arrabbiato con me?" chiese timidamente.
Sorrisi per compiacerla. "No, stai serena...solo che pensavo a come è trascurata questa spiaggia" dissi cambiando radicalmente il discorso.
Il tratto di arenile che stavamo percorrendo non era dedicato ai turisti ma utilizzato da soli cubani e, per questo motivo, non c'era la stessa cura e la stessa pulizia riscontrabile, invece, nelle zone dedicate agli stranieri.
"Perché tutta questa spazzatura?" chiesi.
"Non ci sono i soldi per toglierla -rispose- e dal momento che i turisti stanno a Santa Maria, non gliene frega niente a nessuno della basura di Guanabo...".
Allargò le braccia in un gesto fatalistico come per significare che quella era la vita.
Il sole iniziava a scendere dolcemente all'orizzonte, tinteggiando rosse pennellate nel cielo limpido. "Voglio farti un regalo di nozze. Devo chiedere aiuto a Dolores Maria..." dissi quasi tra me e me. Fidelia s'aggrappò ancor di più al mio braccio tra gli sguardi inquisitori di alcuni ragazzi cubani intenti a godersi gli ultimi raggi di sole.
Trovammo Dolores intenta a cucinare un gigantesco Pargo arrosto che sarebbe stata la nostra cena. Fidelia si chiuse in bagno mentre io raggiunsi la padrona di casa in cucina.
"Devo fare un regalo a mia moglie e cercavo degli oggetti di corallo nero. Conosci qualcuno che li vende?" le chiesi accendendomi una sigaretta.
Dolores smise di tagliuzzare una cipolla, s'asciugò le mani unte su di uno straccio e venne vicino a me, assumendo un fare confidenziale.
"Posso far venire un mio amico. Si chiama Celso e produce artigianalmente degli oggetti in corallo nero. Non devi comprare la merce se non ti piace, però..se poi ti interessa, posso procurarti delle scatole di PPG a due dollari la bustina" concluse.
Avevo già sentito parlare del PPG ma non ne sapevo molto. A Varadero me lo avevano offerto a 10 dollari ma avevo evitato di comprarlo, pensando che fosse un prodotto anfetaminico.
"Cos'è realmente il PPG?" chiesi di rimando.
"Te lo spiegherà Celso: è stato un dottore" e così dicendo si rimise ad assolvere il suo dovere di cuoca part-time, tornando a tagliuzzare cipolla e peperoncini verdi.

"Guarda questo! E' meraviglioso" disse Fidelia mentre osservava un ciondoletto a forma di delfino. Si trattava di un oggetto che faceva parte della mercanzia portata in visione da Celso, e che era allargata lungo tutto il tavolino, improvvisando una mostra artigianale a solo nostro uso e consumo. Srotolate su di un panno bianco c'erano collane, braccialetti, ciondoli d'ogni foggia e dimensione. Tutti erano di puro corallo nero, pescato e lavorato nel paese dov'era quasi vietato anche il solo respirare.
"Mira hombre!" disse Celso allungandomi una collana particolarmente belle che teneva gelosamente custodita in una piccola sacca separata dal resto della mercanzia. "Solo venti dollari" continuò ammiccando.
Celso era un anziano dottore in pensione che arrangiava la vita vendendo souvenir a turisti come me. Si accomodò cercando di intavolare una conversazione banale come, probabilmente, doveva fare di solito con gli stranieri che incontrava.
"Mi piacerebbe conoscere la sua verità su Cuba" chiesi a bruciapelo.
"Oye mi amigo...eres un periodista?" domandò.
Intervenne Dolores Maria.
"Celso è stato il medico del jefe Fidel, in passato".
Il vecchio dottore ampliò il suo franco sorriso.
"Ebbi la possibilità di offrire i miei servizi a Fidel, dopo anni di discussioni" affermò.
"Discussioni?" rimarcai per saperne di più.
"Sono stato il primo dottore a portare a Cuba l'omeopatia. ALl'epoca della Revolucion e subito dopo, ma non era una pratica consentita. Il socialismo reale non poteva accettare medicamenti che non fossero scientifici. Così ho dovuto lottare per innestare una nuova via, quella della medicina alternativa: l'omeopatia, l'igenismo, le scienze yoga, la meditazione trascendentale".
Rimasi turbato e dubbioso.
"Meditazione trascendentale?" ribadii.
"Certamente non tutto è stato compreso. Se devo essere sincero la medicina omeopatica e stata timidamente accettata, ma non dispero per il resto anche se non sarò più io il fautore di questa sensibilizzazione. Vedi -continuò- ho studiato per anni scienze filosofiche ed occulte...conosci gli 'Esseni'?".
"Ne ho sentito parlare ma oltre a sapere che si trattava di un'antica setta religiosa..."risposi.
"Ancora oggi esistono dei cerchi che si rifanno agli Esseni. Lo stesso Gesù ne fece parte, come tanti personaggi che sono definiti 'grandi iniziati'...si dovrebbe studiare attentamente la storia dei rotoli del Mar Morto e quella delle religioni. Ci sono indicibili intrecci che legano le piramide egizie a quelle atzeche, l'induismo, il calendario venusiano, gli extraterrestri e i geroglifici peruviani di Nazca. La storia si rigenera ripetendosi..." si fermò come per riflettere ma realizzai, invece, che osservava l'interessamento di Fidelia sulla sua mercanzia.
Poi riprese. "Ti racconto una storia su Cristobal Colon. Perché pur essendo stato il primo a scoprire il nuovo continente, lo stesso ha preso il nome da Amerigo Vespucci? Devi sapere che Colon, ebbe diversi incontri coi Reali di Spagna per ottenere il loro consenso per organizzare la spedizione verso le Indie. Ma nessuno dei suoi tentativi riuscì nell'intento fino a quando, Cristobal Colon, non espose il suo progetto nel pieno segreto della confessione ad un religioso che era anche il confessore della Regina. Il prete, terminato il sacramento corse a corte per raccontare il contenuto della storia appena appresa. A distanza di poco tempo, la Regina accolse l'istanza di Colombo ed armò le caravelle con le quali, nel 1492 scoprì il nuovo continente. Adesso, se la storia che ti ho raccontata è vera, mi devi dire qual'era lo sconvolgente contenuto raccontato da Colombo al prete e da questi alla Regina, affinché il religioso rompesse il segreto sacro della confessione che convinse la Regina a ritornare sulle sue decisioni?" concluse, enigmatico, Celso. Restai allibito e perplesso dal racconto e scossi la testa per esprimere i miei dubbi. Dolores Maria varcò la porta della cucina e mi chiamò.
"Claudio -disse- Celso chiacchiera molto. Se gli dai l'occasione per farlo, non se ne andrà più...".
Rientrai nel salone e guardai Fidelia.
"Allora, cosa ti piace di più?".
Lei mostrò la collana più importante ed un braccialetto della stessa foggia.
"Celso, quanto costano questi due oggetti?", gli chiesi per tagliare corto.
"Trenta dollari" rispose asciutto notando il mio repentino cambiamento.
Fidelia si appropriò del suo regalo di nozze che indossò immediatamente, sparendo in camera da letto. Contai i 30 dollari che allungai al vecchio dottore.
"Devi pensare a quanto ti ho detto" continuò cercando di riallacciare il filo del discorso.
"La vita riserva tante sorprese...se capiterà l'occasione.." risposi stupidamente.
Celso radunò le sue cose e mi lanciò uno sguardo di burbera disapprovazione mentre guadagnava l'uscita.
"Se nessuno pianta semi, sarà difficile raccogliere frutti. Buena suerte mi amigo" disse scomparendo alla mia vista.
"Celso!" chiamai.
Rientrò caracollante con uno sguardo interrogativo rimanendo in silenzio.
"Scusami -dissi imbarazzato- posso offrirti una cerveza?"
Si riaccomodò sulla sedia, con un largo sorriso, attendendo la birra.
Dolores andò a prendere due lattine di Hatuey dal vecchio frigorifero e si eclissò nuovamente in cucina.
"Non volevo trattarti male -continuai- anzi. Trovo l'argomento molto interessante. Il fatto è che non sono preparato a pormi grandi interrogativi e, quindi, mi sono trovato spaesato e senza argomenti".
Celso si passò una mano tra i bianchissimi capelli.
"Bueno. No ay problema, amigo".
Presi coraggio.
"Cos'è il PPG?" domandai.
"Una cureta es posible...E' molto richiesto dagli stranieri che lo conoscono perché aumenta la loro sessualità".
Rimasi perplesso.
"Come fa ad aumentarne la sessualità?"
"Por que, liberando le vene da colesterolo, permette al sangue di rifluire in modo ottimale. Anche la zona pelvica ne resta positivamente influenzata. Per chi ha problemi di circolazione che ne impedisca il normale stimolo, liberandosi da questi, riprende in pieno l'attività sessuale non più inibita. Ecco spiegato il motivo del successo che gode presso tutti gli stranieri che lo conoscono" concluse.
"E' miracoloso" affermai stupito.
"No -ribadì il medico- è solo il risultato della ricerca farmacologa cubana. Noi siamo all'avanguardia nel campo medico. Abbiamo cliniche ed avanzati laboratori di ricerca per la cura di alcune malattie come la psoriasi, l'alopecia, il morbo di Alzheimer, il colesterolo...e tutto viene progettato con prodotti naturali come i derivati della canna da zucchero o la cartilagine dei pesci, cercando di sfruttare quello che abbiamo a disposizione dalla natura e non da sintesi chimiche create in laboratorio".
Cuba, ancora una volta, aveva avuto la proprietà di stupirmi con semplicità.
Le note di "Hasta Siempre!" ruppero il silenzio della riflessione, facendomi pensare al guerrillero heroico.
"Hai conosciuto Guevara?" dissi rivolgendomi a Celso.
Il vecchio terminò la sua birra.
"Ay, si. Nel '62 all'Avana insieme a Fidel all' hotel Nacional. Avevo un appuntamento con il Lider e, così, conobbi el Che".
"Cosa pensi di lui? Ha fatto la cosa giusta a morire per un'altra rivoluzione?".
"Quien sabe? Molte sono le teorie a proposito. C'è chi dice che era in contrasto con Fidel; altri che era un narcisista schiavo del suo stesso mito; altri ancora, che fu lasciato morire perché scomodo all'Unione Sovietica che non lo appoggiò in Bolivia...tante storie e tante fantasie. Credo che fosse un uomo sincero, forse un pò ingenuo e sognatore. Ma la Revolucion Cubana fu un sogno realizzato e, forse, la rivoluzione in Bolivia avrebbe potuto diventarlo. Uno scrittore sudamericano ha detto di lui che era un uomo che faceva quello che diceva e diceva quello che pensava. Fu proprio così. Era una persona eccezionale, unica, colta e versatile ma, soprattutto, coerente con le sue idee che rispettò fino alla fine. Nel gioco delle supposizioni esiste la teoria che, se non fosse corso ad aiutare un suo compagno ferito dall'imboscata in cui caddero a Quebrada del Yuro, si sarebbe potuto salvare come i tre guerriglieri superstiti tuttora viventi a Cuba. Ma el Che era un uomo e prima di uomo, un dottore. Mai avrebbe lasciato il suo compagno ferito affrontare da solo una sicura morte e, come lo stesso Don Quijote che lui aveva amato sin da bambino, corse nel pericolo estremo cercando di vincerlo anche quella volta. No, io non credo che fosse un folle o che avesse motivo di morire...Amava la vita, la sua famiglia, il suo popolo, gli oppressi di tutto il mondo, i suoi ideali di uguaglianza e libertà. Morì per tutto questo".
Emise un lungo sospiro e riprese il suo piccolo fardello, alzandosi pesantemente dalla sedia.
"Hasta Siempre y suerte" rimandò Celso.

Non avevo bisogno di ingoiare le minuscole pasticche di PPG che mi aveva portato Dolores Maria. Le avevo comprate quasi scetticamente e solo per precauzione contro un futuro aumento del mio colesterolo.
Ma così facendo, avevo offerto a Fidelia l'occasione per giocare su di me. Mi prendeva in giro dicendomi che avevo comprato il PPG perché non ce la facevo più a soddisfarla fisicamente. Sapevamo benissimo che non era vero. La nostra sfera sessuale era felicemente soddisfatta dell'esito delle prove alla quale la sottoponevo ogniqualvolta se ne presentasse l'occasione. Avevamo fatto l'amore in ogni angolo della casa e durante qualsiasi ora del giorno e della notte, sempre compiacendoci del nostro amore e della nostra voglia. Fidelia era una insaziabile mantide pronta a comprimere tutte le mie velleità ma, questa, era una delle componenti del mio desiderio per lei.
I giorni di Guanabo erano dedicati alla pigrizia più completa. I pomeriggi andavamo su una delle spiagge della Playa a prendere il sole ma, il più delle volte, ci addormentavamo all'ombra di qualche palma per soddisfare la nostra esigenza di riposo. Le sere, dopo frugali cene preparate da Dolores Maria, ci tuffavamo in una discoteca all'aperto, fuori del piccolo paese, dove trascorrevamo parte della notte a ballare salsa e merengue tra piña colada e mojito bevuti in compagnia di altri cubani felici di non far nulla. Al nostro rientro a casa, nonostante la stanchezza, lo stato di ebbrezza ci portava ad ingaggiare lunghe battaglie di sesso che vedevano fine solo all'inizio del nuovo giorno allorquando, decine di galletti cubani, auguravano il buongiorno agli abitanti di Guanabo.
Fidelia sarebbe dovuta tornare a Moron a salutare i suoi parenti prima della partenza per l'Italia, ma il solo pensiero di scendere dall'Avana a Ciego de Avila per poi tornare nuovamente indietro, angosciava anche lei. Sopperì ai suoi doveri, sostituendo la prevista visita con una serie di telefonate effettuate dal Correo postal di Santa Maria. La nostra vita coniugale sarebbe iniziata dopo il nostro arrivo in Italia, quando ci saremmo scontrati con i problemi della quotidianità e tutto il resto sarebbe scivolato sulle nostre spalle come acqua piovana. Per il momento, ci godevamo quella insolita luna di miele, nella terra dei salseros e dei rivoluzionari ultimi rimasti.
"Mamma è rimasta male quando le ho detto che non sarei tornata a casa per salutarla" disse Fidelia riagganciando il telefono.
"Ti vuole molto bene" le dissi riflettendo sulla possibilità di organizzare un viaggio lampo a Moron.
"Non è solo per questo...sapendo che ci sei tu, sperava che le lasciassi qualche dollaro per tirare avanti" rispose per nulla imbarazzata da quella richiesta.
"Le nostre finanze non ci permettono ancora molto -osservai- però potremmo inviarle un centinaio di dollari".
"Visto che siamo al Correo, possiamo fare subito una rimessa postale a suo favore, così eviteremo di scendere al mio paese per lasciarle i soldi" replicò.
Non potevo non notare l'atteggiamento venale ma mi convinsi che stavo filtrando le mie emozioni sotto l'ottica suggeritami da Pierluigi.
D'altronde, un centinaio di dollari, rappresentavano la spesa di una eventuale trasferta per Moron, convincendomi della convenienza economica di quella soluzione.
Per Guanabo ci spostavamo con dei particular locali, tutti rappresentati dalle solide Dodge o Chevrolet anni '50 che, oramai, mi apparivano del tutto normali nonostante la loro obsoleta età. A differenza dell'Avana, avevo riscontrato una velata ostilità da parte dei cubani residenti che non avevano avuto altro modo di esprimerla se non con delle battute in dialetto indirizzate contro Fidelia che, appariva loro, come una jinetera accompagnata dal suo yuma. Guanabo non era un centro come Varadero e tanto meno una metropoli come la Ciudad de l'Habana e questo fattore, non contribuiva certo a farci passare inosservati, soprattutto nel periodo di bassa stagione dove i turisti erano decisamente pochi.
Gli sguardi ci penetravano prima curiosi e, poi, insolenti.
Era invidia per quello che io rappresentavo e odio per quello che era Fidelia. Nessuno avrebbe mai immaginato che eravamo una coppia regolare e, seppure, la cosa non avrebbe cambiato di molto le cose. I dati oggettivi erano rappresentati dalla nostra promiscuità, dove nessuno avrebbe potuto inserire i propri affari. Ero un turista che non avrebbe fatto guadagnare i jineteri locali, e questo, era il vero problema.
Cercai di indagare sull'argomento parlando con Fidelia che era, però, restia a darmi adeguata spiegazioni.
La cosa mi dava fastidio al punto tale che evitavo di uscire per il paese se non per cose strettamente necessarie. Avevo deciso di restare il più possibile a casa, passando il tempo ascoltando la radio o vedendo la televisione tanto da trasformare Dolores Maria in una alternativa alla noia. Fidelia passava il tempo a condividere quei momenti con me passando quelli eccitanti del fare l'amore a quelli banali del vedere le telenovelas trasmesse da Cubavision.
La penultima sera del nostro soggiorno a Guanabo, ci trovammo a dondolarci sopra le due sedie parcheggiate nella piccola terrazza di casa, da dove si poteva ammirare la maestosità dell'Oceano. Uno splendido cielo stellato, incorniciava il paesaggio tropicale e s'udiva il suono di una musica salsera provenire da una radio accesa in qualche casa vicina.
Fidelia mi fissava innamorata.
"Perché i cubani di qui ci trattano così male?" le domandai all'improvviso.
Lei cambiò espressione intristendosi. Poi, guardò il giardino sottostante, da dove si scorgevano qualche dozzina di granchi indaffarati a scavare buche. Si strinse sulle spalle e rispose.
"Il problema è che i cubani di qui sono stronzi...ma non tutti i cubani lo sono. Quando ci vedono insieme ci dicono un sacco di parolacce. A te dicono maricon e a me tortillera..." e si mise a ridere.
"Cosa vuol dire?" m'affrettai a domandarle.
"Maricon vuol dire frocio e tortillera, lesbica...se solo sapessero...".
"Ma perché quest'odio cretino?" dissi incollerito.
"Perché tu sei uno yuma, un pepe, un punto...uno straniero, insomma. E perché hai la fula, cioè i soldi. Ti vedono con me e loro non possono fare i loro affari. Non ti possono vendere la loro donna da scopare perché ci sono io...lo sai cosa mi dicono? Tumbacoco: vaffanculo! Mi mandano le maledizioni perché sono un ostacolo per loro. Sono stronzi!" terminò, iniziando a mordersi le lunghe unghie laccate.
"Ma che cazzo pretendono? Se io sono qui, vivono anche grazie ai soldi che spendo nei particular, oppure nel PPG o per il corallo nero. Per non parlare della casa e dei pranzi che ci facciamo cucinare" contestai ad una platea immaginaria.
"Lo so, ma a loro non interessa. Dovresti essere libero per farti spennare bene da loro, che si fingerebbero tuoi amici...vuoi un rivoluzionario? Vestono i panni degli internazionalisti! Vuoi una donna? Ecco una chica pronta da singare! Vuoi fumare? Ecco l'erba, falsa, della Jamaica...per non parlare di souvenir, cene particular, discoteca e quanto ti possono offrire. Loro ti danno quello che vuoi, perché li paghi. Poi te ne vai e a loro non interessa più niente: pluff sei andato. Adesso che tu stai con me, sono io che ti prendo i soldi e loro non possono approfittarsi, ecco perché non mi possono vedere" concluse amaramente.
"Ma io avevo avuto un'altra impressione del popolo cubano. Vuoi dire che mi sono sbagliato?" chiesi.
"Non tutti sono come pensi. Ma tutti sono motivati da interesse. Ovviamente i giovani sono quelli più attaccati al turista, soprattutto in certe località dove il turismo è sviluppato. Se vai nell'entroterra, ad esempio a Las Tunas, troverai gente buona e disponibilissima come tu credi che sia; ma se frequenti L'Avana, Varadero o altri posti così, credimi, sono quasi tutti falsi".
Restai a contemplare il cielo ormai esterrefatto dalla storia raccontatami. Quante ipocrisie scoprivo dietro l'angolo delle mie speranze. Avevo supposto ad una "campanelliana" città del sole conoscendo Cuba e, invece, mi trovavo a confrontarmi con squallide storie di opportunismo a buon mercato.
"Però non c'è delinquenza" aggiunsi, cercando conforto su una forma di garanzia che speravo trovare.
"Sbagli. Ci sono molti ladri che entrano nelle case o che rubano sulle spiagge anche, se per loro, è molto pericoloso. La polizia è severissima ed i Tribunali sono abituati a dare condanne molto lunghe". Pensai a quando Fidelia era stata fermata a Santa Clara e questo mi offrì lo spunto per farle altre domande.
"Come sono le prigioni?".
Respirò pesantemente prima di rispondere.
"Sono stata rinchiusa in un carcere femminile. C'era un tale casino che non si dormiva mai. Donne che strillavano, cantavano, facevano l'amore tra loro...poi lo sai cosa ci davano da mangiare? Acqua e farina, uno schifo! Erano tutte jinetere arrestate per prostituzione o altri piccoli reati".
S'alzò andando in cucina a prendersi il succo di mango e portandomi una Tropicola.
Una vecchia guagua passò asmatica per la strada, affollata di gente a dispetto dell'ora tarda.
"Guarda -fece lei- è piena di campesinos e jineteri che ritornano a casa".
Seguì con lo sguardo il vecchio pullman che era la copia di un Greyhound anni '50. Quanta umanità viaggiava su quel mezzo. Quanti problemi, sogni, ambizioni e battaglie combattute da quella gente che, stancamente, stava terminando la giornata rientrando nei propri tuguri dive chissà chi e chissà cosa li avrebbe aspettati.
"Domani è il nostro ultimo giorno a Guanabo. Cosa vuoi fare?".
"L'amore tutto il giorno".

Non eravamo passati a salutare nessuno, neanche Juliet. Mancava poco alla partenza del nostro volo ed avevamo già raggiunto il salone d'attesa dell'aeroporto. Stavamo guadagnando tempo alla noia, osservando i vari oggetti venduti dai pochi negozi duty free presenti all'interno. Trovai un artigiano intento a lavorare foglie di tabacco, trasformandole in sigari cubani, seduto davanti ad un minuscolo tavolo di legno. Faceva parte di quel folklore che piaceva tanto ai turisti in partenza. C'erano un paio di bancarelle che proponevano oggetti artigianali realizzati in ceramica e legno. Si trattava di souvenir e portafortuna d'ogni tipo, che costavano solo i pochi dollari restati nelle tasche dei turisti distratti.
I responsabili dell'aeroporto, avevano cercato di rendere anche la partenza dall'isola, oggetto di piacere.
Accompagnati da una televisione a circuito chiuso che irradiava i propri filmati da una dozzina di monitors piazzati in punti strategici della sala d'attesa, gli stranieri avevano modo di ripercorrere le emozioni che sicuramente avevano vissuto nell'isola. I filmati mostravano belle ragazze, scorci architettonici dell'Avana Vieja, il Malecon, le bianchissime spiagge di Cayo Largo, spezzoni di uno spettacolo del Tropicana, un videoclip di Manolin il famoso salsero cubano denominato "el medico de la Salsa", immagini in bianco e nero del Che mischiate ai fiori dell'Orchidario di Soroa. Il tutto era mixato con con sapienza e musicato con salsa, mambo e merengue e rendeva molto nostalgico quel momento, che si sarebbe amplificato con una detonazione a scoppio ritardato, non appena il turista avesse messo piede dentro l'aviogetto ed avrebbe guardato con tristezza ed infinito amore, il bianco edificio che ospitava l'aeroporto Josè Martì, imprimendosi le grandi scritte color fuoco che campeggiavano in cima alla costruzione.
Questo era l'ultimo messaggio di una subliminale campagna di promozione turistica che aveva seminato il germe della passione per Cuba, dentro al cuore di molti italiani già contaminati dall'innamoramento azzardato di qualche mulatta che si era dimostrata dolce ed astuta.
Ormai quei problemi erano così lontani da me e dal mio futuro, ma li ritrovavo compagni di una dolce malinconia che mi legava ancora a quell'isola dalla quale non me ne sarei potuto più staccare. Con passo deciso, Fidelia raggiunse l'unico gate che conduceva, attraverso una rampa di scale da scendere, al piazzale dov'era in attesa il solito vecchio autobus che effettuava il trasferimento fino all'aeromobile che risplendeva al sole.
Anche questa volta, partivamo felici verso il nostro futuro, senza avere rimpianti di sorta e fiduciosi del nostro destino.

Una nuova vita ci attendeva.



17/03/2007 18:09
 
Quota





"Che palle!" esplose Fidelia, alzandosi dal letto.
"Amore devi scendere a fare la spesa al supermercato. Io non posso proprio accompagnarti, lo sai. Sono già in ritardo..." le dissi, cercando di mantenere una calma che proprio non avevo più.
"Spesa, cucina, lavare, stirare...ay que dolor mi vida!" continuò rinchiudendosi in bagno. I primi mesi di matrimonio erano trascorsi spensierati. Il rapporto che sognavo all'inizio della mia avventura coniugale si era concretizzato felicemente. Si viveva in allegria, accentando reciprocamente le scoperte di quel mondo di interessi comuni che era rappresentato dal mettere su famiglia. Fidelia non aveva nostalgia della sua terra anche se, di tanto in tanto, si manteneva in contatto con sua madre attraverso lettere e telefonate. Ma la lontananza con l'isola sembrava non infastidirla più di tanto. Spesso, uscivano fuori a cena, frequentando locali di tendenza o ritrovi sudamericani dove, tra musiche caraibiche e drink a base di rum, ci rituffavamo nell'atmosfera colorata ed allegra di Cuba. Era un pò come rientrare nel suo mondo ma dalla porta privilegiata dalla quale poter uscire in qualsiasi momento per rivivere nel conveniente consumismo occidentale liberista.
E Fidelia, di quel consumismo, ne aveva imparato solo i pregi. Il sabato, approfittando della mia disponibilità, mi chiedeva di accompagnarla nelle sue escursioni al centro di Milano per vedere le vetrine. Ma non era più la 'bambina felice' della sua prima volta in Italia; era divenuta una femmina pratica e cinica che riusciva sempre a convincermi ad accontentare i suoi desideri. Dapprima con entusiasmo e, successivamente, con subordinazione accettavo le sue voglie che la vedevano primeggiare tra boutique e negozi dove riusciva ad ottenere quello che voleva, strappandomi consensi alquanto tiepidi.
Non avevo avuto più contatti con Pierluigi che risultava, ormai scomparso dalla mia vita, senza neanche suscitare più di tanto la curiosità di una Fidelia svogliata.
Tutte le coppie, specialmente quelle abbastanza fresche di matrimonio, possono vivere dei periodi di assestamento. Una giovane unione, pensavo, non è scevra di preoccupazioni e così dicendomi, cercavo scuse per allungare la mia tollerabilità.
Ma, con il passare delle settimane, mi rendevo conto che l'idea del matrimonio con Fidelia, forse, non era stata la cosa giusta da fare. Emergevano tutti i dubbi vivisezionati da Pierluigi durante il nostro ultimo scontro, ed iniziavo a giudicare mia moglie sotto un'altra luce.
Mi chiedevo spesso di dove fosse finita la splendida cerbiatta innamorata scoperta sotto il sole dell'isola del caimano. Quell'essenza di dolcezza mista a sentimento che mi aveva letteralmente ammaliato, era svanita tra le nebbie di una Padana triste.
Superfluo non pensare che il mio lavoro aveva subito una inevitabile e graduale svolta negativa che ancora riuscivo a mascherare grazie ad escamotage che, a lungo andare, non sarebbero stati più possibili.
Tagliando i ponti con l'unica persona con la quale potevo confrontarmi, non avevo di che sfogarmi e maceravo dentro di me, tutte le angosce che avvelenavano la mia esistenza.
Fidelia non pareva neppure accorgersi del mio cambiamento d'umore che, nel frattempo, si era impadronito di me. Iniziavamo a trattarci con sufficienza e freddezza, perdendo man mano, quel senso di magia che aveva caratterizzato, all'inizio, la nostra unione e subentrando al suo posto, un senso di apatia.
Al mio rientro dall'ufficio, la trovavo a sfogliare riviste di moda oppure la scoprivo intenta a guardare con interesse la televisione, salutandomi appena. Il piccolo appartamento, una volta ordinato e pulito, era divenuto un caravanserraglio delle sue cose distribuite disordinatamente per ogni dove. In cucina, pentole e stoviglie da lavare si confondevano con la sporcizia e gli avanzi dei suoi vari spuntini e, spesso, davano adito all'inizio delle nostre discussioni quotidiane. In quei momenti avevo veramente l'impressione di essere una mosca stretta nella rete di un famelico ragno. Eppure, il mio amore per lei, era un sentimento puro e disinteressato al quale avevo dedicato tutti i miei sforzi per farlo crescere e per accudirlo, ma potevo pensare la stessa cosa di lei?
Miriadi di pensieri affollavano la mia mente durante le noiose giornate lavorative, impedendomi di valutare obiettivamente la situazione che vivevo.
Anche quella mattina, stavo trascinando faticosamente il mio fardello di ingiustizie personali quando, rientrando in ufficio dopo una infruttuosa visita da un cliente, trovai un laconico bigliettino che mi invitava ad andare dal direttore generale dell'azienda. Un senso di smarrimento s'impadronì del mio mondo di certezze e, pesantemente, raggiunsi il suo ufficio.
Ne uscii dopo un quarto d'ora. Quindici minuti che avevano cambiato la mia vita. Senza perifrasi, era stato licenziato in quanto ritenuto non più idoneo alle esigenze della società, essendo risultato improduttivo e non avendo raggiunto gli obiettivi prefissati, non ero compatibile con loro. Mi accorsi che, dopo anni di stimoli e risultati ottenuti, la cinica legge degli affari non teneva conto dei miei problemi e mi sbatteva in mezzo alla strada. La rabbia non cercò neppure una giustificazione: avevano ragione. Mi ero lasciato andare, sfiancato dalle mie preoccupazioni. Non avevo retto il ritmo del lavoro e, avendone tutte le colpe, non potevo accampare scuse stupide.
Ritornai alla mia scrivania e raccolsi i pochi oggetti personali: una foto di Fidelia sdraiata sulla sabbia di Cayo Coco, un piccolo sasso raccolto in riva all'Oceano, una guagua di ceramica colorata con sopra scritto "Cuba".
Spensi il computer che sarebbe stato adoperato da un altro dopo di me e, senza voltarmi indietro, lasciai l'ufficio. Ero un naufrago dentro ad una grande città e, come tale, vagavo senza meta con i pugni in tasca. Non mi rammaricavo di quanto accadutomi, ma non sapevo come poter, da quel momento in poi, tirare a campare.
Non volevo dare questa amarezza a Fidelia, per cui decisi di fingere che tutto fosse come sempre, immutabile e intangibile.
Non avevo soldi da parte e anche se con la liquidazione maturata avrei potuto vivere qualche mese, era inevitabile che avrei dovuto cercarmi un altro impiego.
Aprendo la porta di ingresso, trovai Fidelia aggrappata al telefono che parlava in cubano fitto. Mi salutò con un cenno del capo e continuò la conversazione. Ebbi il tempo di togliermi la giacca, andare al bagno e lavarmi le mani, uscire sul piccolo balcone per accendere una sigaretta e ritrovare Fidelia ancora al telefono. Le lanciai una occhiata assassina. Avrebbe dovuto imparare a fare i conti con una nuova realtà. Sedetti sul divano in attesa che finisse quel chiacchiericcio indisponente , finendo di fumare nervosamente la sigaretta.
"Tesoro! Cosa mi hai portato oggi?" disse quasi allegra, non notando il mio malumore.
"Fidelia -dissi calmo- non puoi stare al telefono con Cuba per tanto tempo...ogni telefonata che fai, mi costa quasi cento dollari".
Non ci fu reazione. Come se nulla fosse accaduto, andò svolazzante in cucina, lasciandomi come un fesso in attesa di chissà cosa.
"Fidelia!" urlai.
"Non gridare -rispose- ti sento...che vuoi?".
"Fidelia, ti sto parlando -continuai- Puoi venire qua?".
Rientrò nel disimpegno con un bicchiere in mano.
"Ero andata a prendermi un bicchiere d'acqua...dimmi amore".
Notai che aveva addolcito volutamente il tono dell'ultima frase ma era l'intonazione che giungeva falsa.
"Ascoltami -dissi racimolando le mie idee- devi fare più attenzione ai soldi. Lo sai che non possiamo permetterci spese inutili come quella del telefono. Quando devi chiamare tua madre fallo solo per salutarla e non per raccontarle tutta la tua vita. Con il mio stipendio dobbiamo viverci in due e non è detto che sia sufficiente".
Assunse un'aria indispettita mentre cercavo le parole per proseguire il discorso.
"Stiamo passando un periodo strano -feci senza calcare il tono della voce- ma io ti amo sempre, lo sai...ti chiedo solo di un pò di attenzione nelle cose. Resti a casa tutto il giorno senza far nulla...cerca di renderti utile. La casa va mantenuta in ordine, i piatti lavati tutti i giorni, la biancheria...".
M'interruppe con fierezza.
"E tu mi hai sposata per farti da serva? Potevi prendere una cameriera, non una moglie!" e alzandosi di scatto, raggiunse la camera da letto rinchiudendosi dietro la porta.
Sospirai. Perché non capiva? L'avevo troppo coccolata, pensai. Lungi da me l'idea di moglie uguale a schiava ma certe cose poteva e doveva farle perché aveva più tempo a disposizione di me. Ero stato single per anni e non mi dava fastidio mettermi a spignattare in cucina o fare il bucato ma lo facevo solo per me e, quanto meno, non tenevo in disordine la casa come faceva lei. Era esattamente l'opposto, infatti. Era lei che aveva assunto uno schiavetto per i lavori domestici. In quel ruolo mi ci vedevo bene, aggiungendo il fatto che, almeno fino a quel momento, ero l'unico dei due a portare uno stipendio a casa. Tutta questa storia si stava trasformando in una lotta conformista. Dov'erano le palme tropicali e le mura dell'Havana Vieja? E quel tizio straniero che camminava per il Malecon con quella bellissima mulatta ero stato proprio io? Non mi riconosce vo più, come non riconoscevo più il mio piccolo cerbiatto impaurito.
Un'altra sigaretta finì fumata tra i ricordi di Playa de l'Este, Celso, Dolores Maria, Juliet, Rayco e quanti altri avevo conosciuto a Cuba. Aprii la porta della camera da letto. Fidelia mi aspettava nuda per fare la pace.

Erano passati tre mesi dal mio licenziamento. Per non preoccupare Fidelia, ogni mattina fingevo di recarmi al lavoro. Effettivamente, ciondolavo qua e là per la città cercando me stesso e nuove energie necessarie per trovare una nuova occupazione. La liquidazione che avevo ricevuto mi permetteva di vivere senza stipendio ma ancora per poco.
Le discussioni si accavallavano per i motivi più stupidi ma, alla base di ogni litigio, c'era l'incompatibilità di Fidelia di assoggettarsi alla sua nuova condizione sociale di cubana in Italia. Era, in effetti, come se ragionasse con mentalità jinetera non accettando le regole di una economia tutt'altro che cubana.
Non dava peso al valore del danaro e, tanto meno, ai costi di gestione familiari. Per Fidelia, la casa, l'automobile, la luce, il telefono, la spesa, era come se fossero tutte cose passate gratuitamente dallo Stato. Non voleva prendere confidenza con conti e budget, rimanendo volontariamente ignorante, nella gestione della cosa finanziaria.
E, come un habanera, pretendeva vestiti nuovi, vizi nuovi, divertimenti nuovi.
A nulla erano valsi gli innumerevoli tentativi che avevo fatto per sensibilizzarla ai problemi economici che stava insorgendo. Mi ritrovavo a lottare come un Don Chisciotte contro il mulino a vento della sua indisponibilità.
Mi accorsi che stavo precipitando in un baratro senza fine e che prima o poi, avrei cozzato violentemente sul fondo.

Accadde una sera d'estate, in una Milano chiusa da una cappa cerulea d'afa.
"Usciamo?" domandò sorniona.
Che ne sapeva del mio incontro con il funzionario di banca che, proprio quella stessa mattina, con fare risoluto aveva chiuso il mio conto, ritirandomi carte di credito e bancomat? Avevo avuto il torto di non dirle nulla per mesi, non mettendola al corrente della realtà e, quella sera, mi ritrovavo in tasca le ultime centomila lire.
"Non mi va -risposi a mezza bocca-. Sono stanco e ho mal di testa".
Non si perse d'animo. "Hai sempre qualcosa, quando ti chiedo di uscire! Ma vedi che vita faccio? Sono sempre chiusa in casa e, almeno una sera, vorrei divertirmi, andare a ballare, conoscere gente..." replicò fredda ed irritata.
"Scusami -dissi- sarà per un'altra volta, te lo prometto".
"Se a te non ti va, non c'è problema -continuò- posso uscire sola...qualcuno che mi da un passaggio lo trovo di certo".
E così dicendo, fece per prendere la borsetta e le chiavi di casa.
Sentii dentro, che non sarei riuscito a dominarmi ancora una volta, pregando e sperando che Fidelia stesse inscenando una finta prova di forza. Ma così non fu. Si aggiustò i capelli intrecciati e si spruzzò un po' di profumo, accingendosi veramente ad uscire.
Scattai in piedi con il sangue agli occhi.
"Ascoltami -urlai-. Tu non vai da nessuna parte senza di me. Stasera non si esce e neanche domani. Si uscirà quando lo potremo fare di nuovo...Non ho più una lira, non più un lavoro. Ma che cazzo vuoi ancora da me!" e feci seguitare un sonoro schiaffo che si stampò sulla sua faccia.
Rimase più sorpresa che amareggiata mentre lasciava cadere in terra la sua borsetta. Continuò a fissarmi senza dire nulla.
Riacquistai un pò di sangue freddo ma non le chiesi scusa. Accesi, invece, una sigaretta e mi sprofondai sul divano.
Fidelia si accarezzò la guancia colpita e si mise seduta, osservandomi con curiosità. Non aveva domandato nulla ma si intuiva che volevo conoscere tutti i particolari.
"E' iniziato qualche mese fa -iniziai-. Ho avuto un calo di rendimento nel lavoro a causa dei nostri litigi. Purtroppo, prima di sposarti, il mio capo mi aveva già detto che da quando frequentavo Cuba, avevo perso la mia voglia di lavorare. Ed era vero. Quindi, questa volta hanno scelto di licenziarmi. Non ho mai avuto il coraggio di dirtelo per non spaventarti e per paura di perderti. Per tutto questo tempo ho finto di recarmi al lavoro per non crearti dubbi e, alla fine di ogni mese, invece di u no stipendio che non percepivo più, portavo a casa una parte della liquidazione che mi era stata versata dall'azienda in cui lavoravo. Ho cercato di farti capire che bisognava risparmiare, che non dovevamo più spendere i soldi così...tra vestiti, telefonate e divertimenti. Ma tu non mi hai dato retto, forse, non te ne importava molto. Questa mattina, la banca mi ha chiuso il conto e ritirato tutte le carte di credito che avevo. In tasca ho solo centomila lire che è tutto quello che mi rimane...non ho proprio più nulla. E quello che è peggio è il fatto di non avere più nessuna prospettiva. Ho soltanto te...forse". Strinsi la testa fra le mani, comprimendole fino a sentire battere il pulsare delle vene nelle tempie.
Quando rialzai lo sguardo, Fidelia era ancora lì, incredula e sbigottita.
Un muro di silenzio si alzò fra noi. Sentivo le budella stringersi ed un groppo mi attanagliò la bocca dello stomaco, iniziandomi a farmi stare male.
"Siamo poveri?" domandò candidamente?
Mi slacciai il colletto della camicia e mi massaggiai il collo.
"Non è il fatto di essere poveri o ricchi...siamo senza soldi e senza possibilità di guadagnarne, al momento" risposi.
Restò a pensare per qualche secondo, poi insistette.
"E non lavorerai più?".
Era complicato farle comprendere le leggi dell'occupazione in Italia. Non si era mai voluta integrare nel sistema occidentale se non per sfruttarne i vantaggi che le sue esigenze voluttuarie potevano cogliere e, ora, non poteva capire i meccanismi convenzionali che affliggevano il mondo del lavoro.
"La mia attività -dissi- si basa sugli altri. Se non riesco a trovare una società che è interessata alle mie prestazioni, non ho alcuna opportunità di lavorare...".
"Non capisco...non è facile trovare un altro impiego in Italia?" continuò.
Scossi la testa.
"In Italia c'è molta disoccupazione, cioè non ci sono tanti posti di lavoro quanti ne occorrerebbero a soddisfare tutti coloro che ne hanno bisogno. Anche se hai studiato, non c'è sicurezza di trovarne uno...altre volte ti avevo spiegato che qui da noi non è come a Cuba ma, evidentemente, non mi hai ascoltato attentamente".
"Allora che si fa?" domandò ansiosa.
"Non lo so...sono mesi che mi arrovello per trovare una soluzione ma, finora, non sono riuscito ad escogitare nulla di produttivo".
"Non c'è nessuno che può prestarti dei soldi? Pierluigi, forse...".
Chissà dov'era finito, pensai.
"No, non credo. Non lo vedo più da tempo. Forse è partito dall'Italia" risposi a mezza bocca.
Era la classica strada senza via d'uscita. La mia vita si era trasformata in un labirinto vischioso dov'ero rimasto intrappolato.
"No es posible!" esclamò infuriata.
"Fidelia, amore...calmati" sussurrai.
"Ma che calma e calma! Sono venuta in Italia per fare la schiava ed essere povera? Potevo restare a Cuba, almeno lì, avevo tanti amici e non si viveva male insieme ai turisti...e adesso a Milano, cosa faccio?".
"Ascoltami. Se sei qui è perché sei mia moglie, non lo ricordi? E' vero. Forse ho sbagliato a non dirti nulla e sicuramente ho sbagliato a non cercare un lavoro. Ho sbagliato ad arrivare alla fine del limite consentito per confessarti tutte le cose...ma se mi ami, credo che potremo ricominciare tutto da adesso. Da domani mi metterò alla ricerca di un qualsiasi lavoro così come cercherò i soldi che ci servono. L'importante è stare insieme, anche adesso, che è un momento difficile. Ho bisogno di te..ti prego" e così dicendole, m'avvicinai a lei. Avevo bisogno di starle vicino per darle e ricevere forza.
Mi scansò irretita.
"Se pensi di fare l'amore, sbagli di grosso. Sono troppo delusa. Non hai avuto fiducia in me...". S'alzò dalla poltroncina raccogliendo la borsa e, sbattendo la porta, uscì sulle scale per raggiungere una notte che l'attendeva da chissà quanto tempo.
Restai intontito dalla sua reazione che giunse inaspettata, cercando certezze che non avevo più e stappando l'ultima bottiglia di rum che era rimasta sigillata per le grandi occasioni. Quella sera dovevo ubriacarmi per lasciare tutto alle spalle.

Il mattino dopo mi colse accovacciato sul divano. Non riuscivo a ricordarmi cosa fosse accaduto dopo la discussione con Fidelia. Osservai la bottiglia vuota rotolata a terra ed avvertii un cerchio alla testa. L'orologio segnava le dieci e, dalle tende, filtrava il chiarore di un sole opaco. Stancamente mi sollevai da quella posizione e raggiunsi la camera da letto. Era vuota così come Fidelia l'aveva lasciata. La nausea s'impadronì di me e dei miei sensi di colpa. Ero disorientato, sempre più disgustato dagli obiettivi che erano svaniti all'improvviso.
Udii l'ascensore salire al piano e, dopo, la chiave girare nella toppa.
Lei ricomparve nella mia vita. Le occhiaie eloquenti ed i capelli un pò in disordine indicavano chiaramente quello che le era accaduto.
Non si sorprese più di tanto, trovandomi a casa e, come se nulla fosse accaduto, entrò nella camera da letto spogliandosi per andare a dormire.
"Dove sei stata?" le chiesi bruscamente mentre si stava sfilando i minuscoli slip.
"A divertirmi..."rispose con fare noncurante.
"A scopare!" corressi.
"Cayate hombre!" rimandò lei.
Il mio amore per lei era stato tradito dalle sue leggerezze o dal mio atteggiamento disattento? Non potevo rispondermi e non sapevo come agire. Istintivamente l'avrei cacciata fuori da casa ma ero troppo attaccato ai miei ricordi, alle nostre cose e non dovevo essere troppo risoluto. Momenti di debolezza capitano a tutti e figuriamo a chi, come lei, aveva sempre vissuto una vita da trincea cubana. Anch'io, infine, non ero esente da colpe.
Non ero riuscito a trovare il giusto equilibrio tra il razionale e l'irrazionale. Non avevo saputo gestire il nostro rapporto con equità, mi ero lasciato andare cullato dai sogni che vagavano nella mia testa e che producevano una poetica confusione. Tutto ciò, aveva causato l'irrigidimento dei miei rapporti con gli altri, con il lavoro, con Fidelia stessa...per non parlare di Pierluigi.
Tutte queste considerazioni mi fermarono dall'intraprendere qualsiasi azione. Richiusi la porta della camera mentre Fidelia si raggomitolò avviluppandosi al lenzuolo pronta ad addormentarsi dopo la sua notte brava.
Dopo la doccia tutto fu più chiaro. Lei, pensai, ha voluto dimostrarmi che era in grado di vivere anche senza di me e del mio amore...ma lo aveva fatto solo per darmi una prova di forza dopo la litigata che l'aveva causata.
Ma, effettivamente, il suo amore per me era sempre immutato, considerai.
Si, doveva essere proprio così la storia. Adesso mi sarei vestito e sarai andato alla ricerca di un lavoro. Stavo recuperando gli stimoli necessari per uscire dall'impasse nella quale ero caduto, non accorgendomi che la mia passione mi faceva stravedere le cose fino ad arrivare al punto di immaginare ciò che desideravo, senza che questa fosse la realtà delle cose.
Senza fissare alcun appuntamento mi recai presso un paio di aziende pubblicitarie che conoscevo. In entrambi i casi, non riuscii a parlare con nessuno se non con segretarie che affatto imbarazzate mi liquidarono freddamente.
Non avevo tenuto conto che, dato il periodo, i responsabili delle agenzie erano a godersi le vacanze e che non sarebbe stato possibile un colloquio non prima di Settembre.
Ma avevo bisogno di soldi per tirare avanti e, siccome la disperazione cancella l'orgoglio, da una cabina del centro telefonai a Pierluigi, l'unico in grado di aiutarmi.
Fui fortunato: rispose al terzo squillo.
"Si?" disse con la sua solita voce chiara e potente.
"Ciao, sono Claudio "dissi prendendo le forze necessarie.
"Ah!" rispose laconico.
"Senti -aggiunsi immediatamente per non concedergli la possibilità di replicare-. Possiamo incontrarci questa mattina? E' importante per me...".
Secondi interminabili passarono scavalcando la tensione che provavo.
"Sei a Milano?" disse.
"Vicino alla Galleria...".
"Sei fortunato, sono nei paraggi. Ci vediamo al solito bar tra venti minuti".
E riagganciò. Forse avevo trovato la soluzione ai miei problemi, sperai.

Mi aveva lasciato parlare per oltre due ore delle mie cose. Alle tazzine dei caffè si erano aggiunti i bicchieri degli aperitivi. Pierluigi non era cambiato affatto. Ascoltava attentamente il mio sfogo senza tradire alcuna emozione ma restando in silenzio pronto a recepire le mie vibrazioni.
Il posacenere era colmo di mozziconi di sigaretta dai quali emergeva prepotentemente la cicca di un puro cubano sapientemente centellinato da Pierluigi.
"Così, si è verificato tutto quanto ti avevo pronosticato...mi dispiace per te, sinceramente" disse grattandosi il mento.
"Cosa devo fare? So che ti ho trattato male e ti ho sottovalutato, ma..." non riuscii a finire la frase. Con un gesto della mano mi aveva zittito.
"Lascia stare. E' capitato e basta. Ora, i tuoi problemi sono ben altri. Sei in un brutto pasticcio, una storiaccia, insomma".
"Allora?" feci nell'intenzione di farlo parlare.
"Credo che non ti resti che lasciarla. Lei è una persona che tu ancora non conosci. Pensavi che tutto fosse facile, poetico ma hai confuso realtà e fantasia, non riuscendo ad avere una visione critica delle cose che vivevi. Fidelia non ti ha tradito stanotte. Lo ha sempre fatto, anche se non materialmente. Ha tradito la tua buona fede all'inizio, ha tradito le tue intenzioni, il tuo amore, il tuo lavoro, i tuoi amici, il tuo mondo...non è stata quella compagna che pensavi che fosse. Anche lei, in fondo, non se ne è resa conto. Per Fidelia tutto era bello e vero e, abituata al suo mondo fatto di nulla, tu hai rappresentato un passo per il suo futuro migliore: un passaporto, una cittadinanza, una casa, un mangiare quotidiano, un divertimento. Ma tutto senza emozioni. Eri e sei un turista anche in Italia, per lei. In fondo vi siete usati reciprocamente perché ad ambedue faceva comodo prendere cose dall'altro. La storia è finita per mancanza di risorse da parte tua. Tutto qua".
"Come tutto qua? A parte la tua spietata analisi, non c'è altro?" replicai.
Pierluigi socchiuse le palpebre come per raccogliere i suoi pensieri incartati.
"Cosa aggiungere? Non sei ancora convinto? Faccio un esempio, allora. Fai conto di avere oggi la possibilità di un posto di lavoro...anzi facciamo sul serio. Ti offro l'opportunità di lavorare per me e con uno stipendio di cinque milioni al mese....".
Lo interruppi incredulo. "Stai scherzando?".
Si accese una sigaretta cubana dal forte tabacco nero.
"Affatto. Ho bisogno di qualcuno che si occupi dei miei affari e, date le circostanze, ti offro questo posto...Adesso che sei tranquillo dal lato economico, cosa pensi di fare? Torni da lei a comunicarle la lieta notizia? Sai cosa accadrebbe non appena Fidelia viene a sapere che sono stato io ad offrirti questa possibilità? Mi cercherebbe e mi ringrazierebbe a modo suo, cioè venendo a letto con me...".
"E perché?" feci di rimando.
"Tu, per lei, sei fuori gioco...sei come un pedone sovrastato da un alfiere. Venendo con me, cambierebbe registro, farebbe un salto qualitativo perché potrei assicurarle una vita migliore. Se, pago cinque milioni al mese il suo ex uomo, quanti ne guadagno io al mese? Si farebbe subito due conti...ma dopo un pò di tempo, come in un gioco di scacchi, troverebbe un cavallo, poi un re sui quali puntare, sempre per assicurarsi il di più e subito. E' una jinetera, ricordi? Ji-ne-te-ra!" concluse, scandendo le sillabe per imprimermele bene dentro.
Restai pensieroso, ragionando sul fatto che aveva ragione. Aveva sempre dimostrato di essere un perfetto conoscitore della realtà cubana e della psicologia dell'individuo. Continuò.
"Vedi? Non hai alternative...non le avrei neppure io, così come nessun altro al nostro posto, con lei".
"Non si arresterà mai la sua corsa?" domandai triste.
"Non è una corsa consapevole. Non sono calcoli cinici come potrebbero esserlo se fatti da una donna non cubana. E' il loro istinto. Fidelia poteva restare jinetera a Cuba, andare con i turisti per divertirsi un pò e vivere meglio, per finire, poi, sposata ad un cubano tollerante che le avrebbe permesso di avere un figlio con uno straniero che la mantenesse con soldi e regali, in cambio di una o due settimane all'anno di scopate con lo yuma...non ricordi? Quante volte te ne ho parlato? La loro vita non è la nostra; il loro modo di vedere e somatizzare le cose è differente dal nostro metro di giudizio. E con Fidelia, tu sei incappato in un rapporto che non era gestibile da nessuno...figurati da te che ti sei sentito subito appassionato all'idea di sposarti con un dolcissimo mito".
"Penso che tu abbia ragione" dissi sommessamente.
"Lo so che adesso tu sappia come gestire il vostro rapporto ma devi trovare il coraggio di muoverti subito. Sta a casa adesso?" domandò.
Annui con poca voglia.
"Allora svegliala se dorme e parlaci. Se vedi che non riesce a sintonizzarsi sulla tua stessa frequenza, cerca di trovare una soluzione affinché possiate liberarvi dalla vostra storia senza futuro...è l'unica cosa che ti sia rimasta da fare, credimi".
Estrasse un altro sigaro dal contenitore di pelle che portava legato al collo e con estrema cura, lo accese, dopo averlo forato dalla parte sigillata, aspirandolo con profonde boccate di fumo grigio. "Quando sei stato laggiù per l'ultima volta?" gli domandai come per sanare la mia ferita aperta.
"Sono stato a Cayo Saetia, vicino ad Holguin un mese fa circa...E' un posto stupendo perché ancora sconosciuto al turismo. Immagina i contrafforti di una boscaglia che arrivano a lambire una piccola spiaggia bianchissima circondata da un mare così turchese e limpido che non si trova più se non in Polinesia. Ed immaginati anche, un piccolo albergo con sole cinque camere, tagliato dai soliti circuiti turistici...veramente bello per ritrovare se stessi. Dovresti andarci" concluse.
"Non tengo più la fantasia di tornare a Cuba. Senza Fidelia, o meglio, dopo la delusione Fidelia il mio rapporto con i Caraibi finisce qui e per sempre".
Scosse la testa e continuò a fumare sapientemente il suo sigaro.
"Credi che il mio primo innamoramento con la mia jinetera sia stato forse meno drammatico?" domandò a bruciapelo.
"No so" risposi. Poi aggiunsi: "Ma tu non eri mica sposato con lei...".
Sorrise di gusto.
"E chi ti ha obbligato a farlo? Forse io?" ed agitò la mano per far scivolare la cenere.
"Dai -replicai- ti ho già chiesto scusa...".
"Non era per questo. Solo per farti capire che potresti considerare la cosa come un incidente di percorso, senza dannarti troppo l'anima".
"Incidente di percorso? Ma ti rendi conto di quello che dici?" feci alterato.
"Ah...ricominci? Vedi che non sei in grado di penetrare l'anima cubana? Nonostante le mie spiegazioni, che anche se modeste hanno sempre un loro valore, non riesci ad essere obiettivo. Cioè, volevo dirti che lei non merita il tuo struggimento né ora né mai. Ritorna a Cuba a gustare quello che di bello c'è: i luoghi, i panorami, la storia, la musica, la gente...ma non farti trarre in inganno. Approfitta anche delle jinetere che incontri e rispettale, se questa è la tua intenzione, ma sii vigile delle cose sentimentali...".
Il sole picchiava duro sull'asfalto che si liquefaceva come il mio amore, senza nessuno in grado di ricatramarlo.
"Pranziamo? Ho fame" disse Pierluigi alzandosi e lasciando due banconote per pagare le consumazioni.

A sera rientrai a casa confuso come non mai. Il pomeriggio si era snodato lento mentre Pierluigi ed io, passeggiavamo per i Navigli deserti.
Accesi il condizionatore che troneggiava nella camera da letti, l'afa si stava facendo insopportabile. Fidelia non c'era. Soltanto gli avanzi, in cucina, di un frugale pasto accatastati vicino ai soliti piatti da lavare, testimoniavano la sua passata presenza.
Riflettevo su quanto era avvenuto nelle ultime ventiquattro ore, cercando di focalizzare i miei errori che, però, erano stati generati molto tempo prima. Accesi l'hi-fi, dov'era piazzato un compact di musica salsa che avevo acquistato nella piccola Tienda che si trovava all'interno del Museo de la Revolucion all'Avana. I miei ricordi si aggrapparono a quelle note, facendomi volare immediatamente indietro nel tempo, fino ad arrivare al giorno in cui avevo visitato quel museo. Mi ritrovavo tra i cimeli di mille battaglie per l'indipendenza del popolo cubano, sapientemente incastonate in un circuito storico che partiva dalle origini fino ai giorni nostri. Ricordavo l'emozione suscitata dall'unica composizione posticcia che era realizzata da due statue di cera raffiguranti Camilo Cienfuegos ed Ernesto Che Guevara in abiti da guerriglia, inseriti in una jungla ricostruita per l'occasione come scenografia. Trovarmi ad un metro dalla figura del mito, mi fecero uno strano effetto. Rammentai che la cera utilizzata per il volto delle statue, si stava lentamente squagliando sotto il calore prodotto dai potenti riflettori messi per illuminare il gruppo plastico. Si notavano, infatti, piccole lacrime di cera bruciata che rigavano i volti dei due personaggi e che lasciavano, al loro passaggio, una striscia di rimmel cadente. Ricordo la tristezza che provai in quel momento in cui realizzai la ridicolaggine di quella composizione infantile.
Chissà perché mi ero collegato a quell'episodio così lontano nello spazio e nel tempo. Ero a Milano, disperato e con una moglie che aveva iniziato a tradirmi per interesse. Avevo perduto l'amore, eppure stavo a Cuba pensando al Guerrillero Heroico.
Capii che nutrivo troppo amore per quell'isola così singolare e strana e, che questo mio legame, non poteva spezzarsi solo per aver subito la fine di una passione sentimentale. Ma poi, era davvero finita con Fidelia?
Non volevo arrendermi all'idea, non potevo. Dovevo attendere solo il suo ritorno e poi, sarebbe ritornato ad essere tutto come prima.
I miei pensieri furono interrotti all'aprirsi della porta, Fidelia stava ritornando a casa.
"Hola!" disse radiosa appena mi vide.
"Ciao amore" le risposi.
Proseguì per la camera da letto non continuando una conversazione che non avevamo neppure iniziato. Non sopportavo quella mancanza di comunicabilità. Mi rendeva nervoso restare all'oscuro di tutto.
"Entoces? -cercai di proseguire- Cosa stai facendo? Non mi dici nulla di te?".
Si spogliò lentamente e con cura felina. Sapeva di essere guardata e cercava il modo di risultare più intrigante del solito. Conosceva il mio interesse per il suo corpo e ne approfittava.
"Non tieni voglia di fare l'amore?" chiese dolcemente.
Osservai le sue curve, il seno eretto e proporzionalmente eccitante. Seguii con lo sguardo le sue lunghe gambe ben tornite, il sedere perfetto, il bacino regolare, la pelle vellutata dal color caffellatte, la morbida peluria nera che ne ovattava il suo sesso. Era tremendamente bella. Mi avvicinai a quell'oggetto del desiderio, senza pensare a nulla tranne a dissetare il mio amore e la mia voglia che cresceva a dismisura attimo dopo attimo. Rotolammo abbracciati stretti, fuori dallo spazio, dal tempo e dai perché. Lei era mia mia e solo quello importava adesso. Era riuscita a cancellare tutti i dolori, le delusioni, i dubbi che avevano dato l'assalto al mio cervello.
Ero eccitato dal suo profumo che colpiva, penetrante, le mie narici fino a giungere al cuore. Era una magia che colorava l'aria che respiravo, illuminava le tenebre del dolore, dissetava l'aridità dei sentimenti bruciati dalle amarezze. Non domandavo più nulla, se non di godere a pieno di quegli attimi di dolcezza, senza chiedermi cosa mi riservasse il futuro. Tutto era così distante dai nostri corpi uniti e bagnati di voglie represse che si scatenavano momento dopo momento, senza attimi di tregua.
La musica cessò di colpo, lasciando un vuoto nell'aria, accompagnato da quella strana sensazione che, spesso, mi inseguiva come un brutto presentimento.
Riuscii per un attimo a vedere la scena che stavo vivendo come se la stessi osservando dall'alto. Fidelia possedeva il mio corpo con febbrile eccitazione, ma era distante da me. Non riconoscevo, in lei, la chica frequentata a Varadero e, della quale, mi ero perdutamente innamorato. Appariva come un'altra persona, una mantide pronta ad inghiottirmi dopo aver soddisfatto le proprie voglie. Non decifrai null'altro, confuso dall'eros che si rimpadronì dei miei sensi.
Alla fine, esausti, ci lasciammo cogliere da una improvvisa stanchezza.
Sentivo il mio cuore pulsare velocemente mentre lei continuava ad accarezzarmi i capelli. Provai un dolore indefinito, sapendo che stava fingendo di amarmi.
"Amore -chiesi a bruciapelo- è tutto finito fra noi?".
Si incupì, continuando a passarmi le sue snelle dita tra i miei riccioli.
"Perché mi fai questa domanda?".
"Perché penso che tu non abbia più l'intenzione di restarmi accanto" conclusi allungandomi verso il pacchetto di sigarette posato sopra al comodino.
"Sono tanto confusa...ti voglio bene, lo sai" rispose a mezza bocca, poco convinta.
Il suo sguardo non voleva incrociare il mio e si rifugiò a cercare minuscole briciole di nulla tra le pieghe del lenzuolo.
"Vado a fare il caffè. Lo vuoi?".
Scappò in cucina per non arrendersi all'evidenza, lasciandomi nuovamente solo con i miei pensieri. Udii lo scorrere dell'acqua nel lavello e pensai a Juliet ed alla sua casetta del Vedado.
Fidelia aveva cambiato il compact nell'hi-fi che ora suonava un cd di musica italiana. Riapparve poco dopo con una tazzina di fumante caffè che mi porse quasi servilmente.
"Non vuoi proprio rispondermi?" le chiesi calmo.
Si accese una sigaretta e si mise seduta sul letto con le nude gambe incrociate.
"Tu hai tanti problemi a causa mia -disse laconica-. Hai perso il lavoro, non hai più una lira, sei sempre triste...forse, se ti lasciassi, tu potresti continuare la tua vita di prima".
"Senza di te, che valore avrebbe?" risposi irretito.
"Non lo so. Ma le cose tra noi, non sono andate come dovevano andare. Non hai avuto fiducia in me, non mi hai detto nulla...anche se ti voglio un mucchio di bene, forse, non potrei più sopportare l'idea di vivere insieme a te".
Guardavo le sue labbra che si muovevano nervose. Era strano che, in un momento simile, la mia attenzione fosse colpita dalle cose più strane.
"Così -continuai- vuoi lasciarmi perché mi vuoi troppo bene?".
Fidelia annuì silenziosamente.
"Non è per il fatto che non posso più mantenere i tuoi vizi e le tue voglie?" dissi freddamente.
"Ay, Claudio. Perché giochi sempre?" rispose scocciata.
"Ah, io gioco? Ma ti rendi conto di cosa stai dicendo? Mi stai lasciando perché non ho più una lira e non ti conviene restare a condividere una vita non più facile, non per altro..." conclusi amaramente.
"Pensa come credi! Lo faccio per te e perché ti voglio bene!". Si guardò le dita dei piedi, attratta dallo smalto lucente delle sue unghie.
"Sappi, allora -continuai- che ho trovato un nuovo lavoro che mi frutta oltre tremila dollari al mese. Quindi, ho risolto tutti i miei problemi economici...adesso cosa mi dici?".
Fidelia alzò il suo sguardo incrociando il mio.
"E chi te lo ha offerto?" domandò interessata.
"Ho incontrato Pierluigi, questa mattina. Lavorerò per lui..." risposi.
"Ay, è troppo figo quello..."disse sorridendo sorniona.
Ripensai alle parole di Pierluigi e guardai con aria dubbiosa il volto di Fidelia.
"Te lo vuoi scopare?" domandai.
Abbassò lo sguardo.
"Ti importa tanto?".
Il mio amico nordista aveva avuto ragione una volta di più.
"Pierluigi me lo aveva detto che saresti corsa da lui, ma non per amore ma soltanto per interesse, dal momento che ha più soldi di me".
Spense nervosamente la sigaretta e,fissandomi, domandò ancora.
"Cos'altro ti ha detto di me?".
"Che sei sempre una jinetera e che sei pronta a volare tra le braccia di chi ha più soldi di lui...ma non ti da colpe. Dice che sei fatta così e basta".
Un silenzio pesante cadde nella stanza, solo le note provenienti dallo stereo che era nel salottino si diffondevano, profondendo una atmosfera che non c'era più.
"Fanculo tu e l'amico tuo! Mi sono stancata di essere considerata una puttana da quattro soldi...il nostro matrimonio è stato tutto uno sbaglio. Sarei dovuta restare a Cuba a vivere la mia vita come al solito". Così dicendo s'alzò di scatto andando verso lo sgabuzzino.
Tornò in camera con una valigia che iniziò a riempire della sua biancheria.
"Cosa fai?" le domandai stupidamente.
Non mi rispose e continuò a saccheggiare l'armadio, afferrando i suoi vestiti e riponendoli alla rinfusa dentro la borsa.
Poi, si vestì in fretta, infilandosi stretti jeans scoloriti ed una mia camicia bianca. Estrasse dalla borsetta il mazzo di chiavi di casa che gettò, con odio, verso il letto che mi ospitava assente. Avevo la testa vuota. Pensai che dovevo fermarla, parlarle ancora, spiegare che tutto era un terribile equivoco ma non riuscii a fare nulla. Restavo a seguire inebetito la scena che si stava compiendo come per bene imprimermela nella memoria.
Fidelia finì di prepararsi in fretta e, dopo un ultimo sguardo pieno di rancore, aprì la porta della camera da letto e si precipitò fuori dalla mia vita.

Quando squillò il campanello, mi ero reso conto che mi ero appena addormentato. Aprii faticosamente la porta ad un Pierluigi abbronzato.
"Ciao. Sono settimane che non ti fai vedere in ufficio" disse porgendomi un caffè che aveva portato dal bar sotto casa.
Feci un gesto per farlo accomodare. Intravidi nello specchio l'immagine di un 'me' che non ero io. I capelli arruffati facevano il paio con una barba ispida che incorniciava un volto spento do dove emergevano due profonde occhiaie.
"Ciao" risposi con la bocca impastata.
"Anche stanotte non sei riuscito a dormire?" domandò sicuro della mia risposta.
Scossi la testa in cenno di diniego.
"Eh già -continuò sarcastico- l'amore perduto...Conosci quella poesia di Neruda dal titolo 'mi piaci silenziosa'?".
"No e non me ne importa nulla di Neruda e della tua fottuta poesia...". Trangugia il caffè amaro e, un senso di vertigine, s'impadronì di me.
"Hai bevuto di nuovo?" domandò con fare premuroso.
"No...ma è da ieri che non mangio qualcosa" risposi.
Fidelia era andata via da un paio di mesi ma era sempre come se fosse presente dentro di me. Vagheggiavo disperato tra i ricordi di quelli che erano stati i nostri momenti, nella speranza di trovare un conforto che non c'era. Anzi, il solo ripercorrere con dei fashback gli attimi vissuti insieme, mi faceva stare ancor più male di quanto non già stessi.
Si accomodò sul divano girando la testa per fare una rapida ispezione circa lo stato della casa.
"Vedo che non fai più le pulizie. C'è anche odore di chiuso" criticò.
"Cazzo, Pierluigi. Non m'interessa sfaccendare come una donnetta di casa. A chi serve?" risposi stropicciandomi gli occhi per innitidire lo sguardo spento.
Mi batté la mano sulla spalla a mo di conforto.
"Notizie di tua moglie?".
"Non è più mia moglie, lo sai!" risposi contrariato.
"Comunque?" continuò.
"...comunque?" continuai.
"Sei allegro oggi -osservò cinico-. Allora posso anche lasciarti solo...".
"No, ti prego -risposi-. Sono giorni che non parlo con anima viva e sto sempre peggio. Resta, per favore...".
"Sfogati. Con me puoi parlare, lo sai" disse affettuosamente.
"Da quando è andata non riesco più a fare nulla. Da una settimana neppure esco da casa e non sento nessuno. Ho anche finito le provviste in cucina ma non trovo la forza necessaria per andare a fare la spesa...penso solo a lei, al mio amore con lei, alla nostra isola, a tutti i progetti fantasticati insieme..." così dicendo mi passai la mano tra i capelli sporchi.
"Non credi che sia il caso di farla finita con questa voglia di auto commiserarti? E' accaduto, purtroppo, che l'amore sia finito. E, come tutti gli amori di coppia che finiscono, uno dei due sta sempre male. E' accaduto a te, per tua sfortuna. Ma questo non sta certo a significare che la tua vita debba essere irrimediabilmente ferita".
La mia attenzione fu colpita dall'album delle fotografie che si trovava incastrato fra una guida di Cuba ed un romanzo poliziesco, sopra ad un ripiano della libreria. Fidelia ed io avevamo acquistato quel contenitore per inserire tutte le foto fatte durante i nostri momenti, ed era da quando l'avevamo completato, che nessuno lo aveva più aperto.
"Guarda -dissi prendendo l'album- ti mostro come eravamo felici...".
Pierluigi iniziò a sfogliare i miei ricordi.
Fidelia era sempre in primo piano in una teoria di sequenze artistiche, fatte per scherzo. In alcune, appariva come una modella professionale. In altre era sempre la giocosa chica cubana che prendeva in giro la vita. In tutte, uno sfondo magnifico che cambiava a seconda delle località che avevano visto il nostro amore: L'Avana. Santiago, Holguin, Cayo Coco, Guanabo, Venezia, Milano. Stillavo il mio dolore lentamente, con la stessa velocità con la quale Pierluigi, osservava le foto.
"Lascia perdere" mi disse richiudendo l'album a metà.
"No -protestai- non lo finito di vedere. Ce ne sono alcune...".
M'interruppe.
"Lascia stare Claudio. Non ti fa bene rivivere quei momenti".
Un groppo mi salì alla gola. Cercai di trovare il coraggio, passandomi nuovamente la mano fra i capelli e raschiandomi la gola.
"Adesso, vieni con me" aggiunse.
"Dove?" dissi malvolentieri.
Tutto era così artefatto, forzato. L'unica cosa che mi andava di fare era quella di restare solo con la mia disperazione. E, man mano che passava il tempo, la mia ferita avrebbe continuato a sanguinare lacrime di dolore facendomi, però, sentire vivo accanto a lei.
"Vatti a rendere presentabile. Usciamo".

La sua moto filava sostenuta, attraverso il traffico autunnale di una città, come sempre convulsa.
L'aria pungente che entrava dalle fessure del casco, sbattendo contro il mio volto rasato di fresco, evidenziava il cambiamento di stagione. A volte, chiudevo gli occhi per non vedere una Milano che non mi interessava più e la mente mi riportava a Varadero, facendomi ripercorrere la lunga striscia di sabbia bianca orlata dal mare cristallino. Riuscivo, perfino a sentire le note di un danzon suonato da uno scombinato trio di musicisti che vagava per l'arenile a caccia di turisti ai quali propinare il solito repertorio di musiche cubane da Guantanamera per finire ad Hasta Siempre!
Pierluigi decelerò e fui costretto a riaprire le palpebre. Eravamo arrivati in zona Fiera dov'era il suo ufficio.
Raggiungemmo lo studio dove tutto era efficienza ed asetticità.
"Perché mi hai condotto qui?" dissi mentre salivamo con l'ascensore.
"Dimentichi che lavori per me?" rispose sornione.
Entrammo nella sua stanza. Un computer era perennemente collegato ad internet, dove sviluppava i suoi contatti di import-export.
"Allora?" feci incuriosito.
"Ti ho trascinato con me perché devi uscire dal tuo stato di catalessi. Restando tappato in casa non fai altro che alimentare la tua depressione. Invece, ora devi trovare nuovi stimoli per ricominciare la tua vita. Poi -concluse- ho delle novità".
"Cioè?" dissi.
"Ho chiuso un affare con il Ministero del Commercio Estero Cubano. Acquisteranno, nostro tramite, alcuni prodotti che venderanno in tutte le Tiendas Rumbos...quindi, devi partire la settimana prossima per L'Avana, dove firmerai al mio posto, il contratto di accettazione della nostra offerta. Avrai, in questo modo, l'occasione per distrarti dai tuoi problemi e, perché no?, di trovare nuove emozioni".
S'accese il perenne sigaro che aspirò con soddisfazione.
"E per questo che sei abbronzato? Se tornato da poco da Cuba?" domandai.
Annuì con la testa, iniziando a giocherellare con il mouse del computer.
"Non credo di poterlo fare. Il ricordo di Fidelia...". Interruppe repentinamente il mio discorso, alzandosi prepotentemente dalla poltrona.
"Ora basta Claudio! Devi scrollarti di dosso il pietismo che vai elemosinando. Ti sto offrendo una opportunità che devi accettare per due motivi: innanzitutto lavori alle mie dipendenze. Ed in secondo luogo, perché ti sono amico e so a cosa ti mando incontro".
Il suo, era un tono che non ammetteva repliche e, qualsiasi fossero i miei sentimenti ed il mio stato d'animo, non potevo fuggire ai consigli dell'unico vero amico che avevo.
"Se lo dici tu..." conclusi mestamente.
In mezz'ora mi diede i dettagli dell'operazione e mi resi conto che tutto era stato già calcolato: il biglietto aereo, il voucher per l'albergo Nacional, una fascetta con ottomila dollari in pezzi da cento, il dossier in triplice copia relativo all'accordo che dovevo siglare a Cuba. Mi passò una valigetta dove riposi il tutto.
Ero pronto a partire ma non ne avevo la forza, come non me ritrovavo anche per rifiutare l'incarico.
"Puoi chiamarmi un taxi?".
"Oggi stai con me, ti riaccompagno più tardi. Prima, però devi fare la spesa. Approfitta ora...qui all'angolo c'è un supermercato. Poi prendo l'auto per portarti a casa".
Così dicendo mi congedò di fatto iniziando a navigare in Internet per siti che non conoscevo.

Osservavo la sabbia scorrere lenta ma costante dentro una clessidra che avevo comprato qualche mese addietro. Fidelia ci giocava sempre, divertendosi a rigirare l'oggetto prima che esaurisse la sabbia. Poi mi diceva "Vedi, così il tempo non passa mai...sono più forte io di lui" e giù a ridere dell'assurdità detta. Adesso, quel gingillo fra le mie mani, aveva ripreso ad essere un freddo orologio senza storia.
Mancavano cinque giorni alla partenza per Cuba ma non provavo la solita ebbrezza che mi aveva accompagnato prima dei miei precedenti viaggi. Proprio non m'immaginavo a percorrere le strette viuzze del Barrio senza avere Fidelia al mio fianco.
Accesi svogliatamente la televisione per evitare di cadere in una miriade di ipotesi gratuite che stavano prendendo corpo dentro di me. Non riuscivo a trovare la dimensione di serenità che avevo acquisito, attraverso Fidelia, durante i nostri primi mesi di matrimonio. Mi mancava terribilmente e, più ci pensavo, più aumentava la voglia di ritrovarla, di cercare il modo e la maniera per farla tornare da me per ricostruire la nostra vita sopra ai cocci dell'esperienza che avevamo vissuto.
Era pur vero che mi ero rinchiuso in un dolore monastico che mi aveva tagliato fuori dal mondo, ma non avevo proprio alcuna idea su dove poterla cercare.
Istintivamente afferrai il telefono. Forse, Juliet, poteva aiutarmi. Spesso, Fidelia, parlava con sua zia raccontandole fatti anche insignificanti solo per il gusto di passere il tempo. Sicuramente, un fatto grave come la nostra separazione non poteva essere stato nascosto in una eventuale telefonata fatta da Fidelia a Juliet. Dovevo tentare di saperne di più e composi il numero della casa del Vedado. La linea interrotta chiuse la porta alla mia speranza. Ricomposi freneticamente la combinazione ottenendo, però, lo stesso risultato.
Sbattei violentemente la cornetta sull'apparecchio, imprecando contro Cuba, l'embargo, l'apagon e l'aereo che mi ci aveva portato la prima volta. Ero decisamente fuori di me.
Spensi la televisione che, a volume azzerato, stava trasmettendo un documentario sulla vita degli animali ed andai verso la camera da letto.
Poi tornai sui miei passi e presi l'album delle fotografie che inizia a sfogliare.
La pena generata da quell'amore infelice la stavo vivendo sulla pelle, provando uno strano sapore di cruda macerazione dei miei pensieri positivi che lasciano spazio solo a tristezze per nulla ovattate dalla nostalgia ma, evidenziate da una miriade di ferite viventi in piaghe dolorose.
Versai nel bicchiere una generosa dose di rum giamaicano che trangugiai senza indecisione. Iniziai a sfogliare le pagine dei ricordi, rivivendo un tempo distante da me, ormai, anni luce.
Istantanee colorate e gioiose si aprirono al mio sguardo e, ovunque guardassi, c'era sempre lei. Il suo volto, lo sguardo intenso per nulla smarrito davanti all'obiettivo, le sue mani, i capelli mossi dal vento tropicale, la sua figura snella che si stagliava nello spazio evidenziando la purezza delle linee, la forma felina pronta a scattare in una serie di passi di ballo danzati solo per il mio piacere. Era proprio dura da mandare giù. Il senso di smarrimento che mi accompagnava quotidianamente si amplificò alla vista di quelle foto, rendendomi ancor più certo di volerla ritrovare e di riportarla nuovamente a casa. Non m'importava sapere che fosse andata con uno, cento o mille uomini: doveva essere ancora mia. Avremmo continuato insieme il cammino dell'esistenza. Afferrai la giacca e, spegnendo la luce, uscii alla sua ricerca.

La trovai alla terza discoteca che visitai. Era seduta in compagnia di gente che non conoscevo e, tutti, avevano l'aria di divertirsi un mondo.
La musica assordante non lasciava spazio alla composizione dei miei pensieri e, quindi assente, mi rintanai in un angolo buoi per seguire la scena. Vivisezionai i particolari, guardando il minuscolo tavolino pieno di bottiglie vuote che rubavano lo spazio ad inutili telefonini messi in bella mostra solo per essere notati. Fidelia, insieme ad un altro paio di ragazze in minigonna, era in compagnia di quattro o cinque uomini che emanavano, traditi dall'aspetto e dagli atteggiamenti, un'aria di potenza e finta cordialità. Lei era seduta tra i due che, nel gruppo, risultavano essere i più arroganti ed antipatici. I tizi, avanzavano senza ritegno, confidenze che non lasciavano dubbi circa le loro intenzioni. I baci si confondevano con i palpeggiamenti che, entrambi, alternavano a sonore risate e ulteriori bevute.
Fidelia era li, senza timori o imbarazzi. Tutt'altro che spaventata, animava l'azione incitando i due a continuare il loro gioco, felice di trovarsi al centro dell'universo.
La stavo osservando per la prima volta muoversi ed agire come una jinetera. Una delle tante che illudono i turisti dentro e fuori dalle discoteche cubane. Il sesso non sarebbe stato che una appendice di una serata allegra dove l'alcool si mischiava con la musica e i rapporti interpersonali erano dei trampolini di lancio puntati verso ciniche convenienze materiali.
I mille discorsi che mi ero preparato prima di mettersi alla sua ricerca si sciolsero al vento, così come il mio amore si frantumò nel nulla all'improvviso.
Provavo solo una tristezza ingigantita da un senso di compassione per tutto ciò che era Fidelia in quel momento. Cuba mi aveva tradito. Io, avevo tradito me stesso. Ad un tratto s'alzò e scivolò verso la toilette. Non provai neppure la voglia di raggiungerla tanta era la delusione che mi possedeva in quel momento. Ne approfittai per raggrumare le idee ed uscire dal locale, rientrando nella fredda notte meneghina.
Il sonno e la stanchezza sparirono per lasciare, al loro posto, una voglia indefinita ed indefinibile. Guidavo nel nulla, intrecciando strade e viali deserti che mi condussero, in modo quasi automatico, davanti all'ingresso del locale che, Pierluigi ed io, avevamo spesso frequentato per godere dell'illusione della nostra Isla.
I ritmi latino-americani erano dolci più della musica tecno che ancora mi rimbombava dentro le orecchie.
Il piccolo ritrovo era una imitazione mal riuscita della Bodeguida. Eppure, in una città scolorita, restava un valido punto di incontro di tutti gli ammalati di saudade sudamericana. La birra di importazione, viaggiava accompagnata da cocktail a base di rum, che dissetavano la nostalgia di persone tristi dallo sguardo perso.
Riflettei sul fatto che non avevo più messo piede in quel locale da diversi mesi ma, i volti che incrociavo, erano sempre i soliti.
Davanti ad una Bucanero arrivata a Milano chissà come, accesi un sigaro che mi aveva regalato Pierluigi. Aspirai il forte aroma che riaccese in me la disperazione che avevo lasciato all'uscita della discoteca. Un mambo anni '50 aleggiava calmo nell'aria, mentre un gruppo di ragazzi di colore, aveva ripreso posto, intorno ad un tavolino lasciato in precedenza per andare a ballare una cumbia scatenata.
La musica finì e, dopo un attimo di pausa nel quale si udiva chiaramente il chiacchiericcio animato proveniente dal gruppetto dei ragazzi sudamericani che si era appena seduto, ripartì con estrema sonorità una salsa.
Solo con i miei pensieri, giocherellavo con la cenere grigia del Montecristo, quando fui agganciato da un ragazzo mulatto.
"Ciao, amigo!" disse mostrandomi la bianca dentatura che incorniciava un allegro sorriso. Così esordendo si mise seduto accanto a me.
"Hola" rimandai controvoglia.
"Triste? La nostalgia è una gran brutta cosa, specie se hai l'amore lontano da te..." continuò assumendo un aspetto di circostanza.
Alzai lo sguardo fissandolo negli occhi.
"Come ti chiami?" gli domandai.
"Il mio nome è Francisco ma qui tutti mi conoscono come Inti...sono cubano, y tu?".
Non risposi. Ero troppo stanco e non avevo voglia di parlare. Ma lui, equivocò la mia latitanza, scambiandola per timidezza.
"Comprendo -aggiunse sicuro di se- Non hai voglia. Lo sai, amigo? Il problema è la solitudine. Prendi me...io sono felice perché sono qui con i miei amici e la mia chica. Ma, ti giuro, che quando sono arrivato in Italia sono stato male perché non avevo nessuna relazione con nessuno. Nada y nada y nada. Ora, tutto è diverso... E tu, dove hai il tuo amor? Cuba, Venezuela, Santo Domingo?".
Attese invano una mia risposta.
"Ay, amigo...mira la chica" fece indicandomi una bella ragazza di colore che stava ballando al centro della minuscola pista.
Guardai le treccine che si muovevano spinte dalla forza di inerzia generata dal movimento del suo corpo, per la verità un pò appesantito da troppi piatti di pastasciutta. Il suo, era un abbigliamento occidentale, riconoscibile dai jeans di marca che la fasciavano stretta e da un body che pretenziosamente doveva risultare sexy. La ragazza, continuava a ballare ignara, movendo la cintura per seguire il tempo di un meneito venezuelano.
"Bella no?" continuò.
Prese una sigaretta che si accese con un piccolo accendino d'oro.
Lo guardai con più interesse e fui colpito dalla pesante catenina d'oro che finiva con un grosso ciondolo appeso. Anche il bracciale dalle larghe maglie attirò la mia attenzione, facendomi supporre che fosse più ricco di me.
"Ti offro da bere così, forse, riuscirai a parlare di più" aggiunse alzandosi subito dopo per andare verso il lungo bancone, dal quale tornò con due birre gelate.
"Grazie" dissi senza troppo entusiasmo.
"Ah... -disse notando il sigaro- E? un Cohiba?".
"Montecristo..."precisai.
"I Cohiba, sono i migliori -continuò-. Se vuoi, posso venderti una scatola che mi è arrivata in questi giorni da Cuba...così puoi assaggiare la differenza".
"Hai un cugino che lavora in una fabbrica di puros a Cuba e che ruba i sigari per arrotondare il suo salario?" chiesi.
Non s'accorse della vena ironica con la quale avevo formulato la domanda.
"Si...come lo sai? Ti ha mandato qualche tuo amico che conosco?" domandò incuriosito.
"Ho solo provato ad indovinare, tutto qui" conclusi tranquillizzandolo.
Francisco cercava di conoscere i miei pensieri continuando a formulare domande a casaccio per ottenere delle indicazioni sulle quali basare una eventuale trattativa per i suoi affari.
"Non dirmi che ti piacciono gli uomini?" disse assumendo un'aria tra il serio e il faceto.
"No" risposi lapidario.
Cosa cercavo anch'io? Un gioco stupido per farmi ancora del male o una velata vendetta perpenetrata nei confronti di uno sconosciuto che cercava di guadagnare la vita come un bravo jinetero?
"Mira amigo -disse indicandomi nuovamente la ragazza di prima- è mia cugina. E' appena arrivata da Matanzas e non conosce nessuno in Italia. Posso presentartela. Non parla benissimo l'italiano ma impara in fretta..." e, senza attendere la mia risposta, chiamò la ragazza.
Che ne sapeva Francisco dei miei drammi e che ne poteva sapere del fatto che, la mia conoscenza delle cose cubane, mi metteva un gradino più in alto di un qualsiasi pepe sprovveduto che frequentava quel locale?
"Questa è Hildita".
La ragazza si mise silenziosamente seduta sorridendo appena.
"Camerero -gridò- una cerveza por favor".
"Hola" fece la ragazza con un filo di voce.
"Hola" risposi guardandola alla luce per vederla meglio.
Francisco interpretò la cosa a modo suo pensando che stessi analizzando la merce che mi stava proponendo.
"E' sabrosa la chica, vero?" disse con una punta di finto orgoglio.
Hildita iniziò a sorseggiare la birra e a lanciare sguardi discreti al mio indirizzo.
Francisco pronunciò qualche frase in cubano. Compresi solo alcuni vocali a me noti: pepe, fula, singar cioè turista, soldi, scopare.
Gli occhi di Hildita s'illuminarono decisamente ed iniziarono la strana danza della conquista. Con fare civettuolo s'aggiustò il body come se fosse andato fuori posto a causa del ballo, ma era solo una scusa per toccarsi il seno per farmi apprezzare le forme tonde di cui era fornita.
"Cosa guardi? -disse scherzando- Ti piacerebbe toccare le mie tette?".
Francisco la fulminò con lo sguardo. Hildita non doveva tradire la storiella di essere una ingenua ragazza appena giunta dall'Isla e con poca dimestichezza della lingua italiana.
"Senti amigo. Mia cugina ha bisogno di soldi. Lo sai come vanno queste cose, no? Si trova lontano da casa, senza un lavoro, senza un amico. Io la sto aiutando ma devo pensare per me...insomma, se ti interessa, Hildita sarebbe felice di venire a casa tua a passare la notte. Stando insieme, lei è contenta perché mi ha detto prima che tu gli piaci e a te passa la nostalgia per la tua chica lontana...".
Spense la sigaretta in attesa di una risposta.

La musica suonava "La Soledad" della Pausini. In quel preciso momento, il sole splendeva ancora alto sopra il cielo dell'Avana, distante solo sei ore da quella notte strana. I bambini, vestiti con il loro grembiulino vinaccia, stavano uscendo da scuola. I contadini si asciugavano il sudore con il palmo di una mano inaridita dalla fatica e dalla miseria. Il charter stava scaricando milioni di turisti che si sarebbero innamorati di milioni di cubane pronte ad aprire le cosce in cambio di una serata in discoteca o per una maglietta. La gente, stava in attesa di un vecchio Camello color rosa improbabile per tornare a casa. I bagnanti stavano rosolando sotto le palme di una finta Miami che si chiamava Varadero. Qualcuno stava stringendo tra le mani una striminzita borsa di nylon contenente il pasto quotidiano. Il Malecon rimaneva immobile affacciato sull'oceano. La vita dell'Avana Vieja si stampava come sempre insensibile alle cose di un mondo che appariva lontano come un sogno. I manifesti di Che Guevara si ingiallivano sempre di più dentro la valigia contenente i ricordi di quello che poteva essere e non fu. I miei occhi bruciavano del dolore di una sconfitta annunciata da sempre e da tutti conosciuta.
Aprii la bocca per chiedere.
"Quanto?".
"100 dollari...100 dollari per un amore".



25/05/2007 12:45
 
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"Vivir es eligir"
la mia prima lettura cubana.
Tornato da Cuba inizia con questi racconti.
Purtroppo la storia sembra un classico, allora avevo paura che potesse succedere anche a me. Aston, quante volte ti ho chiesto consigli su CUBA PRATICA ?

Oggi, non mi faccio pù tante paranoie, visto come vanno le cose nelle coppie di italiani. [SM=x1272058]


29/11/2008 14:49
 
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Io credo che, a intervalli regolari,ognuno di noi dovrebbe rileggere questo racconto....
05/05/2009 16:23
 
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Sembra la mia storia...
05/05/2009 19:00
 
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E' un romanzo che lessi all'epoca in cui il mio innamoramento per Cuba era al suo massimo splendore.

Adorai questo romanzo e alcuni suoi passaggi mi fecero anche commuovere. [SM=x1543503]

Perotino,spero per te che tu non abbia sofferto come il protagonista o,al limite,che sia una storia oramai alle spalle.

Magari,se ti va,raccontala.




05/05/2009 22:43
 
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Re:
Perotino, 05/05/2009 16.23:

Sembra la mia storia...



Come dice Pippo raccontacela all'interno del forum.

Ben arrivato. [SM=x1539146]


12/10/2009 13:32
 
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Consiglio agli amici di Gente di Cuba che non l'avessero ancora fatto,di leggere questo romanzo.

Lo trovo di una "cubanita'" unica e,almeno a me,ha contribuito e non poco a far crescere il mio amore per l'isla. [SM=x1543375]

Poi,visto che abbiamo la fortuna di avercelo all'interno di una cartella,approfittiamone cribbio! [SM=x1495892]





12/10/2009 21:22
 
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Questo racconto nella sua bellezza e nella sua durezza, apre uno scorcio su una storia che può essere la sintesi di mille altre simili! L'ho letto tutto d'un fiato. Complimenti all'autore!
03/11/2009 16:22
 
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non lo avevo mai letto, micidiale!
18/07/2010 12:26
 
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salve a tuttiiiiiiiiiii.sono un nuovo iscritto e spero di far parte di voi!!
18/07/2010 19:47
 
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Re:
spondo, 18/07/2010 12.26:

salve a tuttiiiiiiiiiii.sono un nuovo iscritto e spero di far parte di voi!!



Benvenuto a bordo di questo vascello caro Spondo.

Cosa ti avvicina a Cuba e a questo forum?

Raccontaci qualcosa di te e dei tuoi viaggi, così, giusto per rompere il ghiaccio.

Fabio

[SM=x1272156]






Gli uomini buoni vanno in Paradiso, quelli cattivi a Patong
18/07/2010 21:37
 
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Post: 2.211
Il racconto è scritto bene e bene rende l'immagine di Cuba che tutti o almeno in molti abbiamo provato, purtroppo o per fortuna in molti abbiamo cambiato idea a 360 gradi e ci siamo accorti che dietro la vetrina, pure creata da attori da Oscar, la realtà è tutt'altra. Qualcuno invece ha ancora la bocca spalancata e vede quello che vorrebbe ci fosse.
21/07/2010 17:36
 
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Post: 308
Finalmente mi sono deciso a leggerlo.
E' scritto molto bene.
Bisognerebbe darne copia a quelli che si presentano in agenzia per prenotare un viaggio,unitamente al depliant.
L'insegnamento che se ne trae è quello di non illudersi mai e......sopratutto,non sposarsi mai.
Comunque Cuba rimane un bel luogo di vacanza...particolare. [SM=x1495868]
04/07/2011 01:46
 
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Post: 1
complimenti,sono riuscito a leggerlo tutto di un fiato...fantastico
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